Un convegno alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia attraversa le arti performative.

Natalia Gozzano

Dall’8 all’11 luglio 2015 si è svolto alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia un interessante convegno internazionale dal titolo Music-Dance. Sound and Motion in Contemporary Discourse and Practice, organizzato da Gianmario Borio (Università di Pavia e Fondazione Giorgio Cini), Patrizia Veroli (AirDanza) e Gianfranco Vinay (Université Paris 8).

Temi di ampia portata quali le nuove realtà in cui la musica e la danza si relazionano oggi sulla scena e nel dibattito teorico sono stati affrontati da studiosi e ricercatori, provenienti da università e centri di ricerca europei particolarmente impegnati in nuove prospettive di ricerca.

Il convegno è stato suddiviso in cinque sessioni, la prima delle quali, "Musical Notation and Choreo-Graphy" si è aperta con un intervento di Nicolas Donin (Ircam, Parigi) intitolato Finding the Body in Musical Notation. Donin affronta il problema di come creare un sistema di notazione musicale in cui il corpo del performer non sia un neutro fruitore bensì divenga parte integrante della partitura. In particolare, sono stati presi in esame i sistemi di notazione realizzati da Schnabel, Kagel e Mumma, improntati a una più profonda connessione con il corpo danzante.  

Claudia Jeschke (Universität Salzburg), in Reflecying Eflecting on Time while moving. Dance Notations from the Nineteenth to the Twenty-first century, ha trattato uno dei nodi cruciali nell’ambito della danza, e cioè il concetto e le modalità di notazione. Da una parte, si ricollega a quell’idea mobile di memoria enucleata intorno alle definizioni di repertorio quale “enacting embodied memory” e di archivio come “a system of learning, storing and transmitting knowledge”, proposte da Diana Taylor; dall’altra, la studiosa prende in considerazione le novità apportate anche dai digital media, che stimolano alla rivitalizzazione del patrimonio coreografico, da intendersi non solo in senso documentaristico e conservativo ma come risorsa coreografica e performativa. Il rapporto fra tempo musicale e tempo danzato viene affrontato attraverso alcuni casi emblematici: la ricerca contemporanea della Motion Bank di William Forsythe ma anche gli “storici” sistemi di notazione di Arthur Saint-Léon, Henri Justamant, Vladimir Ivanovich Stepanov, Vaslav Nijinsky, e naturalmente di Rudolf Laban. Il punto messo a fuoco, dunque, ruota intorno ai concetti di tempo e della sua registrazione alla luce della complessità fenomenologica e attraverso la contestualizzazione storica.

L’intervento di Marina Nordera (Université Sophia Antipolis, Nizza), Is Choreo-graphy a matter of Time or Space? For an Epistemology of Perception through Dance Notation History parte da una premessa chiaramente esplicitata dalla studiosa e cioè che la danza, così come la sua fruizione da parte del pubblico, sono atti complessi, frutto della simultanea attività percettiva a livello visivo, uditorio, cinestetico, tattile e propriocettivo. Questi processi di percezione vengono ulteriormente sviluppati nell’atto della notazione coreografica, che elabora la dimensione del corpo nello spazio e nel suono. Attraverso una lettura transdisciplinare di alcuni testi teorici afferenti ad altri ambiti e ad alcune coreografie, Nordera dipana tali snodi concettuali e fenomenologici.  Il primo ad essere citato è quello offerto dallo storico testo di Michael Baxandall Painting and Experience in Fifteenth Century Italy: a Primer in the Social History of Pictorial Style (1972): Nordera stabilisce un parallelo fra la coreografia quale espressione grafica e visiva e la rappresentazione pittorica intesa da Baxandall come espressione di una modalità di visione peculiare a un determinato contesto storico e culturale, che traduce in una specifica sintesi compositiva e rappresentativa gli elementi ritenuti essenziali alla trasmissione di contenuti condivisi da quella società. Applicata all’analisi della coreo-grafia, questa traccia viene evidenziata in esempi che spaziano dalla Modern dance alla danza contemporanea. La studiosa riprende anche Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza di Carlo Ginzburg (1998) per considerare le moderne coreo-grafie in parallelo con il paradigma della conoscenza dell’età moderna, basato sulla dimensione prospettica e comparativa. Altro testo analizzato è Dance Topoi I: Music and Dance in the Ancien Régime di Lawrence Zbikowski (2014), la cui definizione del linguaggio quale strumento di comunicazione fra simili in un contesto di riferimenti condivisi viene ampliata da Nordera al gesto all’interno di uno spazio di relazioni corporee. Al polo opposto si pone la coreografia di Myriam Gourfink, per la quale la danza è un’entità immateriale, concettuale, e la coreo-grafia l’espressione di una polarità fra corpo e un processo di “disembodiment” che porta a un metalinguaggio.

La seconda sessione del convegno è stata dedicata a "Choreomusical Poetics: Strategies and Processes" e si è aperta con l’intervento Acts of Transformation: Strategies for Choreographic Intervention in Settings of Existing Music di Stephanie Jordan (University of Roehampton, Londra). Prendendo come caso-studio l’opera del coreografo americano Mark Morris, Jordan affronta la complessa e sfuggente questione delle relazioni fra coreografo e musicista e fra danza e musica. Morris infatti, pur utilizzando musica già esistente, sviluppa il processo coreografico attraverso percorsi coreomusicali sempre diversi. Così facendo, mette in evidenza la porosità della relazione fra movimento e suono e i molteplici approcci e tecniche a cui può dar luogo.

Remembering Folklore, Staging Contemporary Dance “D’après une histoire vraie” by Christian Rizzo (2013) è il titolo dell’intervento di Susanne Franco (Università di Salerno). Attraverso la pièce D’après une histoire vraie, del coreografo francese di origini marocchine e italiane Christian Rizzo, creata nel 2013 per il Festival d’Avignon (fig.1), la studiosa affronta un tema centrale nel dibattito sulla conservazione della memoria della danza fra registrazione e riattualizzazione. La necessità di riconoscere il palcoscenico quale luogo di conservazione attiva e il corpo stesso quale archivio vivente della danza è uno dei filoni che con più insistenza percorre la danza contemporanea. Questo dialogo fra narrazione storicizzata e continua trasformazione del repertorio, in cui si destabilizzano categorie cronologiche così come culturali (folklore e tradizione versus innovazione, cultura “bassa” versus cultura “alta”) coinvolge in maniera dinamica artisti e studiosi. Il riconoscimento dell’appartenenza a un comune bacino culturale identificato nei gesti propri a molte danze mediterranee è la fonte a cui il coreografo si alimenta per ripensare il rapporto fra tradizione e innovazione. A tale patrimonio di movimenti e di gesti, individuati e trasmessi ai suoi danzatori, si rifà quella che risulta essere una “new folk dance”, in cui le strutture della danza contemporanea occidentale si mescolano, si confondono, si rinnovano grazie anche all’energia della musica ritmica suonata dal vivo da Didier Ambact e King Q4. La tradizione dunque non è più tradizione, il folk non è più folk, la memoria della danza è possibile solo se annulla queste barriere e osa sfidare il tempo.

Il “Mistero coreografico” Raramente di Aurelio Milloss e Sylvano Bussotti, la cui prima rappresentazione ebbe luogo al Teatro Comunale di Firenze nel 1971, viene analizzato da Ulrich Mosch (Università di Ginevra) in "Not at all suited for Dance". The "Choreographic Mistery" Raramente by Sylvano Bussotti and Aurelio Milloss.

La frase citata venne pronunciata dal coreografo Milloss a proposito della musica composta da un ben più giovane e non ancora affermato Bussotti il quale, non solo era l’autore della musica di Raramente, ma anche l’autore di un testo recitato da lui stesso in scena, dei costumi, della scenografia e delle luci. La sproporzione in termini di interventi creativi, di presenza sulla scena (l’autore-attore recitante e musicista da una parte e l’étoile con venti danzatori dall’altra) nonché la mancanza di un filo narrativo nella struttura compositiva ideata da Bussotti, determinarono una forte tensione che, come ammise più tardi Milloss, fu decisiva nel produrre un tipo di danza per lui del tutto nuova che, contrariamente alla performance del musicista, venne accolta favorevolmente dal pubblico e definita dalla critica come un’opera di particolare intensità e originalità.

La terza sessione ha avuto per titolo "Sentient Bodies" e si è aperta con Touching Sounds and Kinesthetic Intermodality in Watching Dance di Dee Reynolds (University of Manchester) che indaga sulle reazioni degli spettatori di danza al suono. Così come la visione può generare reazioni sinestetiche pertinenti a sensi diversi dalla vista come il tatto, secondo un’intuizione avanzata già dallo storico dell’arte Alois Riegl alla fine del XIX secolo a proposito della reazione fisica all’arte e a cui si ispirò Gilles Deleuze per la sua definizione di visione “aptica” riferita alla pittura di Francis Bacon (reazione recentemente confermata dalle neuroscienze (1), così anche l’ascolto sembra generare una reazione fisica di tipo tattile. Per indagare questa relazione cinestetica, Reynolds presenta due pièces: SEE, SEA, un’installazione di Susan Sentler del 2013 (fig.2), nella quale la performance dal vivo si mescola alla proiezione di films e fotografie e Loose in Flight, una coreografia di Akram Kahn in un film di 3 minuti diretto da Rachel Davies nel 2000 (fig.3). In particolare, Reynolds propone di soffermarsi sull’effetto che la colonna sonora di SEE, SEA ha nel contrastare e/o intensificare le reazioni cinestetiche e testuali del film percepite attraverso la vista. Per quanto riguarda Loose in Flight, il video è stato pubblicato sul sito Watching Dance accompagnato da una serie di domande a cui gli spettatori sono invitati a rispondere: nonostante nessuna delle domande riguardi specificamente il suono, Reynolds fa notare che due terzi delle risposte fanno riferimento al suono. Considerando in modo complessivo le qualità sensoriali del coinvolgimento davanti a queste opere, lo studioso sostiene che, a differenza della sinestesia che è un processo involontario di trasferimento di una sensazione da un senso a un altro, «kinesthetic intermodality” is grounded in shared substrates of effort qualities/vitality affects that are distributed across sensory modes in varying intensities».

Lawrence Zbikowski (University of Chicago), in un intervento dal titolo Ways of Knowing: Social Dance, Music and Grounded Cognition affronta il rapporto fra musica e danza quale espressione di modalità cognitive tipicamente umane, la cui comprensione avviene per mezzo dell’ analogia, ossia la tendenza ad associare patterns percepiti insieme ma appartenenti ad ambiti differenti. Il brano scelto per analizzare queste relazioni, che innescano il meccanismo di comprensione reciproca per cui conoscere la danza è conoscere la musica e conoscere la musica è conoscere la danza, è il secondo quadro de Les Noces di Bronislava Nijinska. La percezione di una tensione che si verifica quando i patterns della danza non collimano con quelli della musica viene spiegata da Zbikowski alla luce dei processi cognitivi per i quali la conoscenza è essenzialmente una conoscenza corporea: quando guardiamo danzare e ascoltiamo la musica, nella nostra corteccia motoria si attiva un processo motorio corrispondente a quello effettivamente messo in atto dai performers. E tale processo è tanto più forte nella danza sociale, largamente condivisa. In quanto manifestazioni radicate nella vita sociale, la pratica della danza e della musica concorrono a formare quello che Pierre Bourdieu definiva l’habitus, il comportamento degli individui in contesti sociali. Il comportamento è un’espressione del corpo, del suo muoversi e manifestarsi nella società. E dunque nella trasmissione dei valori e delle regole sociali, la conoscenza passa attraverso il corpo. Tutto ciò viene collegato da Zbikowski alle recenti sperimentazioni in ambito neuroscientifico che dimostrano il ruolo fondamentale del corpo nei processi cognitivi: quando guardiamo danzare –ma se la danza è accompagnata dalla musica la nostra percezione accompagna i due fenomeni- nella nostra corteccia motoria si attiva un processo motorio corrispondente a quello effettivamente messo in atto dai danzatori. 

Con Empathic Entanglements: Music, Dance and the Four Es Eric Clarke (University of Oxford) propone di ampliare i termini che definiscono i meccanismi di comprensione e relazione sociale, convenzionalmente indicati come le quattro E -embeddedness (radicamento), embodiment (incarnazione), extension (estensione), enaction (enazione, “mettere in atto” in riferimento al processo cognitivo basato su una stretta interazione sensori-motoria fra l’individuo e l’ambiente (2) –aggiungendo la E di Empatia. Clarke mette in evidenza come questo “termine-ombrello” – sotto al quale si raccolgono molteplici e scarsamente limitabili espressioni di coinvolgimento piscologico e sociale- sia stato indicato quale meccanismo chiave delle risposte estetiche sia per le arti visive sia per la musica. Dalla categoria estetica dell’originario termine tedesco Einfühlung, coniato dal filosofo Robert Vischer nel 1873 per indicare la sensazione di “sentirsi all’unisono” con l’opera d’arte, la parola venne poi tradotta in “empatia” dallo psicologo Edward Titchener nel 1909 e riferita alla capacità degli esseri umani di comprendere le emozioni e le intenzioni altrui. Le neuroscienze hanno portato alla luce i meccanismi neuronali alla base di tale capacità, evidenziando la stretta correlazione fra i fenomeni della percezione e il sistema nervoso centrale. Come è noto, nei neuroni specchio è stato individuato uno dei meccanismi chiave per spiegare la comprensione delle azioni e dei comportamenti degli altri da parte di un osservatore. Fra le molteplici ricerche che la scoperta dei neuroni specchio ha innescato, si pongono quelle relative alle arti. Clarke cita come primo esempio quella di David Freedberg e Vittorio Gallese del 2007: secondo lo storico dell’arte e il neuroscienziato, sarebbe proprio questo meccanismo neuronale di “embodiement” a generare le varie “risposte estetiche” alla vista di opere d’arte: «a crucial element of esthetic response consists of the activation of embodied mechanisms encompassing the simulation of actions, emotions and corporeal sensation » (3)

L’altro esempio di empatia favorita dall’arte riguarda la musica: il forte coinvolgimento fisico ed emotivo che essa suscita viene considerato da una prospettiva neuroscientifica e in tale senso i contributi citati sono quelli di Molnar-Szakacs & Overy 2006, Overy & Molnar-Szakacs 2009, McGuiness & Overy 2011 (4).

Tra i meccanismi neuronali che più profondamente innervano il coinvolgimento empatico, in special modo nella danza e nella musica, sono la mimica e la sincronizzazione che stimolerebbero un senso di condivisione e appartenenza sociale. Ad esempio, alcuni studi con i bambini hanno evidenziato il ruolo della musica ritmicamente sincronizzata nel favorire comportamenti più collaborativi ed empatici e altre ricerche hanno dimostrato come la danza sociale che è sincronizzata alla musica, rilasciando nel cervello oppiodi endogeni, aumenti il senso di appartenza alla comunità. Tale senso di appartenenza e di coinvolgimento –sostiene Clarke– così come per le arti visive, va esteso anche ai fruitori della danza e della musica e non limitato ai performers. La musica pertanto sarebbe in grado di stimolare una reazione empatica fra chi la esegue come fra chi la ascolta, grazie alle sue caratteristiche intrinseche, coinvolgenti e mimiche, in gran parte riconducibili ai meccanismi percettivi e motori di rispecchiamento e condivisione.

La quarta sessione, dedicata a "Dynamic Interactions of Motion and Sound", si è aperta con l’intervento di Inger Damsholt (Università di Copenhagen) dal titolo Identifying the choreomusical interplay: methodological departures and empirical results.

La studiosa ha offerto alla discussione generale del convegno la sua esperienza nel campo della coreomusicologia, sottolineando l’importanza della sensibilizzazione ad una maggiore consapevolezza teoretica nei diversi approcci all’analisi formale ed empirica delle complesse relazioni fra musica e danza. Intorno alla questione metodologica che si interroga su come le differenti estetiche coreomusicali influiscano sulla percezione dell’interazione fra musica e danza, Inger Damsholt ha ripercorso il suo personale processo investigativo di teoria e analisi dei fenomeni coreomusicali e si è soffermata su due casi-studio: la pièce del coreografo statunitense Mark Morris Gloria (1981, rivisitata nel 1984) (fig.4) e la danza tradizionale danese Lanciers. Attraverso queste due opere, la studiosa evidenzia la possibile molteplicità di approcci interdisciplinari di teoria e analisi coreomusicale agli ambiti di danza teatrale e sociale.

Massimiliano Locanto (Università di Salerno) interviene su Choreomusicology between ‘formal(ist)’ analysis and gesture-oriented approach evidenziando le difficoltà emerse negli ultimi decenni in relazione all’ampliarsi degli approcci metodologici di analisi musicale. Locanto inserisce queste riflessioni nel contesto storico delle recenti tendenze della musicologia a partire dagli anni ’80. Il dibattito sullo statuto della disciplina, sui suoi campi di applicazione, sull’entità stessa della musica, rivela la complessità di muoversi in questo ambito così storicizzato ma continuamente sottoposto a nuove sollecitazioni. Fra queste, negli ultimi anni una delle più vivaci e urgenti è quella delle interazioni fra musica e danza, considerate sotto molteplici aspetti, ma di cui quello percettivo multisensoriale appare essere fra i più dinamici e stimolanti. E’ in quest’ottica che Locanto propone di ampliare l’asserzione di Nicholas Cook sulla necessità di considerare il “testo” musicale come performance, affermando che «It is only once you think of music in some meaningful way (not only as performance) that you can start to make sense of musical texts».

E dunque l’analisi musicale può essere utilizzata in modi diversi e significanti rispetto al rapporto fra musica e danza, intesa proficuamente come relazione coreomusicale complessa e intimamente composta da entrambe le arti. In tal senso il caso-studio discusso da Locanto è quello delle connessioni che si possono stabilire fra la struttura delle composizioni seriali di Stravinsky in termini di gesto coreomusicale e quella sviluppata da Balanchine nelle sue coreografie Movements for Piano and Orchestra, The Flood, Variations for orchestra. La serialità del testo musicale genera un complesso di movimenti, gesti ed espressioni corporee che sono la risultante di un processo creativo, esecutivo, percettivo. In tal modo si nega la dicotomia fra analisi del testo musicale e analisi coreomusicale, a favore di un modello intrinsecamente interattivo e circolare.

Between functional and aesthetic gesture: relations of music and dance since the 1950sè il titolo della relazione di Julia H. Schröder (Universität der Künste, Berlino). Partendo dalla tradizionale distinzione fra gesto del musicista quale gesto funzionale alla produzione del suono e gesto del danzatore quale gesto estetico, Julia H. Schröder ripercorre, attraverso specifici esempi storicamente contestualizzati, alcune delle istanze creative che hanno caratterizzato il rapporto fra ricerca coreografica e musica dagli anni ’50 ad oggi. Enucleando con grande chiarezza ed efficacia gli snodi di tale rapporto, la studiosa pone in evidenza differenti modalità che li caratterizzano, partendo dalla metodologia adottata da Merce Cunningham e John Cage (fig.5).

Independence. L’indipendenza dell’elaborazione creativa di Cage e Cunningham si sostanzia di una medesima metodologia ispirata all’elemento del caso e il risultato performativo è offerto allo spettatore come un insieme di accadimenti interdipendenti fra loro seppur autonomi.

De-functionalized gesture. Il rapporto fra gesto musicale e gesto danzato è specificamente l’oggetto della ricerca del coreografo Xavier Le Roy, il quale in Mouvements für Lachenmann (2005) (fig.6) danza il gesto musicale di una composizione di Helmut Lachenmann, senza lo strumento, e in tal modo lo rende de-funzionale.

Visualizing music. Costringe ad una percezione dissociata la coreografia Inside Burning di Jutta Hell e Dieter Baumann (2006), in cui i movimenti dei ballerini sono sincronizzati su una musica diversa da quella suonata.

Structural analogies. E’ sulla qualità del movimento che invece indagano Anne Teresa De Keersmaeker e Thierry De Mey, presentando lo stesso vocabolario gestuale interpretato sia da danzatori sia da musicisti.

Interactive dance. La danza interattiva è quella in cui il corpo del danzatore, o attraverso percussioni sul suo stesso corpo, o attraverso l’uso di tecnologie ad esso applicate, produce suono rendendo il gesto non più solo “estetico” ma anche musicale.

Counting together. E’ il ricorso ad una medesima concezione artistica basata su una gamma minima di elementi (Minimalismo) e sulla ripetizione che accomuna le coreografie di Lucinda Childs alla musica di Philip Glass (fig.7).

A queste categorie storicizzate la studiosa ne aggiunge un’altra che propone di chiamare Conceptual reference to a pre-existent piece of music e un cui esempio è indicato in Herzog Blaubart di Pina Bausch (fig.8). In conclusione, Schröder rileva come il percorso così delineato porti alla luce il superamento dell’assunto iniziale che separava la categoria estetica del gesto danzato da quella funzionale del gesto musicale.

La quinta e ultima sessione è stata dedicata a "Live Bodies, Mediatized Bodies, ‘Metabodies’" e viene introdotta dal contributo di Susan Broadhurst (Brunel University, London) su Aesthetics, neuroaesthetics and embodiment: theorising performance and technology.

La rapida crescita della tecnologia digitale in ambito performativo viene analizzata da Susan Broadhurst alla luce delle recenti teorizzazioni offerte dall’estetica e dalla neuroestetica. La studiosa punta l’attenzione sulla necessità di accompagnare tali fenomeni performativi, già ampiamente conosciuti e accolti nella pratica, da un’adeguata riflessione teoretica. A tale scopo individua quali punti di partenza uno studio comparativo fra gli scritti di Merleau-Ponty sulla fenomenologia, in base ai quali il corpo è considerato uno strumento cognitivo della nostra esperienza del mondo, e gli studi neurologici su comportamento e cognizione, utili a individuare alcune delle matrici biologiche che sottendono all’esperienza estetica.

L’intervento Measuring emotion and social interaction in joint music action and dance di Antonio Camurri (Casa Paganini-Info Mus Research Centre, DIBRIS, Università di Genova) presenta alcuni interessanti progetti svolti o in corso di svolgimento nel centro di ricerca Casa Paganini di Genova, incentrati sulle modalità di interazione e di comunicazione non verbale relative sia alla musica che alla danza. Il progetto EU ICT FET SIEMPRE (2010-2013, siempre.infomus.org) punta ad analizzare attraverso modelli computazionali associati alla musica la sfera delle emozioni non verbalmente espressa (fig.9); il progetto Horizon 2020 ICT DANCE (2015-2017, dance.dibris.unige.it) è interessato a conoscere i possibili modi in cui le qualità espressive ed affettive del corpo vengono comunicate non solo attraverso la vista ma anche attraverso l’udito.

Le varie forme di espressione e di comunicazione che attraverso il corpo, le sue posture, i suoi anche minimi movimenti delineano la vasta gamma di relazioni fra musicisti, fra musicisti e direttore e fra l’ensemble e il pubblico sono presentate con brani video di grande efficacia. Ad esempio, un video mostra le differenze dei movimenti e della postura che i musicisti assumono a seconda che interpretino un assolo o che suonino insieme. Alcune di queste ricerche vengono elaborate anche a fini medici per trovare modalità efficaci nella riabilitazione di disturbi relazionali. 

Rolf Inge Godøy (University of Oslo) parla di Motormimetic feature mapping in musical experience.

L’esperienza sensoriale delle arti –uno dei temi ricorrenti in questo convegno– viene affrontata da Rolf Inge Godøy con un intervento incentrato specificamente sulla musica. Che la musica venga fruita attraverso un campo di percezioni che coinvolgono non solo l’udito ma anche la visione, il tatto, il movimento è un fatto noto. Sulle modalità in cui queste differenti percezioni vengono attivate e interagiscono fra di loro c’è ancora molto da scoprire. Lo studioso sottolinea l’importanza che in tale senso ha quella che viene definita la “cognizione motorio-mimetica”, ossia la simulazione, da parte dell’ascoltatore, dei movimenti del corpo messi in atto dal musicista ma anche dei movimenti del corpo che accompagnano la musica. Questa “cognizione motorio-mimetica” secondo Godøy è una caratteristica propria di qualsiasi esperienza musicale e potrebbe costituire la base per un’analisi specifica di quelle interazioni percettive fra musica e visione ancora poco note. In particolare, è interessante studiare come il corpo si muove nello spazio o le posture che assume durante la performance musicale, e rilevare la cogenza di tale approccio rispetto alle nuove tecnologie e all’arte multimediale, come hanno illustrato gli esempi presentati al convegno.

Alla vivacità dialettica del convegno hanno contribuito gli interventi degli studiosi chiamati in veste di Chair e di Discussant: i tre organizzatori Gianmario Borio, Patrizia Veroli, Gianfranco Vinay, e Nikša Gligo della Muzika Akademija di Zagabria, Julie Perrin dell’Université Paris 8, Jonathan Owen Clark del Trinity Laban Conservatoire of Music and Dance di Londra, Emanuele Senici dell’Università di Roma La Sapienza e Stephanie Schroedter della Freie Universität di Berlino. 

La discussione intorno a tali complesse questioni si è dunque dipanata attraverso molteplici percorsi metodologici ed epistemologici, lungo i quali le testimonianze performative e sperimentali hanno offerto una panoramica di grande interesse poiché superavano la condizione di exempla o racconto per divenire essi stessi stimoli per ulteriori percezioni e ragionamenti.

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1) G. Deleuze, Francis Bacon: logique de la sensation, Editions de la différence, La Roche-sur -Yon 1981. C. Keysers, B. Wicker, V. Gazzola, J.-L. Anton, L. Fogassi, V. Gallese, A Touching Sight: SII/PV Activation during the Observation and Experience of Touch, in “Neuron”, Vol. 42, 335–346, April 22, 2004 (p.342)

2) Il termine si deve al biologo Francisco Varela: vedi F. Varela, E. Thompson, E. Rosch  The Embodied Mind: Cognitive Science and Human Experience, 1991; per una recente ridiscussione di questa metodica vedi D. Hutto e E. Myin, Radicalizing enactivism, MIT PRESS, 2013.

3) V. Gallese, D. Freedberg, Motion, emotion and empathy in esthetic experience, in “Trends in Cognitive Sciences” (2007), 11, 197–203. L’articolo dei due studiosi ha suscitato un certo dibattito e il loro approccio così come le conclusioni sono stati criticati da Casati e Pignocchi (Mirror and canonical neurons are not constitutive of aesthetic response, in “Trends in Cognitive Sciences”, 2007, 30, No. x) e ancor più da M. Sheets-Johnstone, Movement and mirror neurons: a challenging and choice conversation, in “Phenomenology and the Cognitive Science”, (2012), 11:385-401 DOI 10.1007/s11097-011-9243-x.

4) I. Molnar-Szakacs & K. Overy, Music and mirror neurons: from motion to 'e'motion, in Social Cognitive and Affective Neuroscience, 2006 Dec;1(3):235-41. doi: 10.1093/scan/nsl029; I. Molnar-Szakacs & K. Overy, Being Together in Time: Musical Experience and the Mirror Neuron System, in Music Perception: An Interdisciplinary Journal, Vol. 26, No. 5 (June 2009), pp. 489-504; A. McGuiness & K. Overy, Music, Consciousness and the Brain: Music as Shared Experience of an Embodied Present, in Music and Consciousness, Oxford University Press, 2011.