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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Una danza tra scultura e fotografia

Natalia Gozzano e Marc Mounier-Kuhn

Quanto segue è il racconto, a due voci, di un’esperienza artistica e pedagogica.
Tutto è nato circa tre anni fa, dal nostro incontro: una storica dell’arte, docente all’Accademia Nazionale di Danza (d’ora in poi AND), e un fotografo, interessato alla statuaria ma anche al corpo quale espressione di conflitti, sociali innanzitutto. Da quel primo incontro, sollecitato dalla nostra comune amica Elena Tsili, docente e danzatrice di tango, era nato un articolo sul lavoro di Marc Mounier-Kuhn, pubblicato in questa stessa rivista (1). Sulla spinta dell’articolo, era poi sorta in Marc l’idea di una collaborazione fra di noi. Indefinita e più intuitiva all’inizio, la collaborazione ha poi preso corpo in due workshop realizzati nel 2018 e nel 2019 con gli allievi del terzo anno della Scuola di Coreografia dell’AND (2).
La linea guida del workshop è stata la realizzazione di un lavoro pedagogico sperimentale in cui, partendo dal concetto storicamente strutturato e largamente diffuso di Tableau vivant, si potesse debordare dai confini abituali dello studio della Storia dell’arte per includere l’esperienza del corpo: il corpo quale strumento di conoscenza.
Il titolo del workshop, Lo sguardo che muove, si riferisce al potere che le opere d’arte hanno – secondo la retorica classica, ripresa e approfondita ai fini della persuasione in epoca barocca ma ora indagata e verificata anche dalle neuroscienze – di “movere”, cioè commuovere, e dunque coinvolgere emotivamente lo spettatore (3). Ma Lo sguardo che muove è anche un modo per vivere una diversa esperienza estetica, muovendo fisicamente, a partire dallo sguardo, il corpo dell’osservatore.
Come hanno dimostrato le neuroscienze cognitive e, ancora prima della scoperta dei neuroni specchio, avevano già indicato filosofi, fisiologi e storici dell’arte, e sapevano gli artisti, i caratteri strutturali ed espressivi dell’opera d’arte che osserviamo si riverberano nel nostro corpo (4).
Da questo implicito coinvolgimento siamo partiti per dar luogo alla ri-attuazione del movimento espresso o appena accennato nella statua: il nostro sguardo, come un Pigmalione, può accendere un processo dinamico che rende viva la scultura permettendo ai corpi di oggi di incarnare l’epifania dell’azione rappresentata dall’artista. Il processo così innescato è dunque aperto alla possibilità di dar vita a nuove creazioni: non si tratta di mettere in scena dei tableaux vivants che fissino nei corpi vivi il ritorno di quelli fittizi, quanto di permettere alle sensazioni concrete e contingenti scaturite dal rapporto vis-à-vis con l’opera di non fermarsi alla pura contemplazione estetica/estatica bensì di materializzarsi nel corpo di chi guarda, un corpo in movimento.
Ancor prima di essere mezzo performativo, il corpo è mezzo conoscitivo: il peso, le tensioni muscolari, l’espressione, l’intenzione che si leggono nell’opera sono percepite con tutto il nostro corpo e dal sistema neuro-motorio nel nostro cervello: una imitazione in potenza che ci fa comprendere col corpo ancor prima che con l’elaborazione razionale, ciò che ci sta davanti (5).
L’idea intorno alla quale si è svolto il progetto, dunque, è stata quella di innescare un processo di coinvolgimento dinamico ed emozionale con l’opera d’arte attraverso la sua “incarnazione”, cioè la sua imitazione/interpretazione. Partendo dallo sguardo, inteso come un’attenta osservazione, e poi conoscendo la storia del personaggio e dell’azione rappresentata, gli studenti hanno lavorato sulla assimilazione e poi restituzione dell’immagine della statua per mezzo del loro corpo, dando piena attuazione a una “simulazione incarnata” (6).
La differenza fra la “posa” e la “pausa” – molto sottile nella lingua francese, come Marc ha spiegato agli studenti – è stata la chiave per comprendere il fine del nostro progetto: agli studenti abbiamo chiesto di cercare di mettere nel loro corpo la struttura, le tensioni, le espressioni, la dinamica che lo scultore aveva fissato, come pausa di un’azione e non come posa di un corpo inerte. Lo sforzo, pertanto, è stato quello di allontanarsi quanto più possibile dall’idea di imitazione sul modello dei tableaux vivants e di rendere invece la qualità fisica e coreica dell’opera.
In tal modo lo sguardo sull’opera d’arte ha innescato un processo di trasformazione degli studenti in Pigmalioni che hanno dato vita, nel loro stesso corpo, alle sculture imitate.
Il coinvolgimento del corpo dell’osservatore nella fruizione dell’opera d’arte trova riscontro nelle recenti ricerche che negli ultimi decenni sono emerse negli ambiti della filosofia, delle neuroscienze cognitive, della psicologia, sulle connessioni fra corpo, mente e ambiente.
Il superamento del dualismo mente-corpo, ormai ampiamente sostenuto dalla seconda generazione dell’Embodied Cognition, individua il motore del processo cognitivo non più nella sola mente/cervello, bensì nel sistema relazionale mente/corpo/ambiente. Pur nei differenti indirizzi che negli ultimi anni si sono andati sviluppando nel campo della Embodied Cognition, il coinvolgimento corporeo è riconosciuto come attore fondamentale nelle modalità cognitive (7).
Il nostro workshop non ha certo avuto la pretesa ne’ l’intenzione di porsi un obiettivo dimostrativo rispetto a uno dei tanti paradigmi dell’Embodied Cognition (8). L’accostamento a questo ambito di studi che stiamo –temerariamente – avanzando si pone più sul terreno dei possibili rimandi e delle ipotesi che su quello dell’evidenza scientifica. In maniera intuitiva e naturale infatti, il superamento del dualismo mente/corpo è risultato dalla nostra frequentazione di entrambi i contesti, quello teorico dello studio della storia dell’arte e dell’immagine e quello corporeo della danza. Danza praticata sia dagli studenti dell’AND, sia (il tango) da chi scrive.
Dunque la consapevolezza corporea acquisita grazie alla pratica coreica si è offerta come naturale terreno di coltura per un ampliamento delle modalità pedagogiche, portando a coinvolgere direttamente il corpo nella ricezione e nell’apprendimento dell’arte visiva. La capacità di leggere i caratteri posturali, dinamici ed espressivi dei soggetti raffigurati da pittori e scultori attraverso l’immedesimazione nel proprio corpo ha aperto a una forma di conoscenza che, pur non sostituendosi a quella dello studio tradizionale, ne amplia le potenzialità euristiche.
Il corpo dialoga con la mente e con l’ambiente. Per ambiente intendiamo l’ambiente fisico del museo in cui si osservano le opere d’arte o in cui si svolge il lavoro di incarnazione, ma anche l’ambiente relazionale costituito dal confronto e dallo scambio docenti-allievi e allievi-allievi.
Azzardando un parallelo con quanto recentemente ha scritto Gallese sull’ Embodied Simulation quale meccanismo cognitivo inserito in un sistema dinamico connotato dalla reversibilità dei due poli dell’osservatore e dell’osservato (9), potremmo dire che anche l’arte partecipa di questa dialettica: riconoscendomi nella statua conosco me stesso e riconosco la mia appartenenza a un sistema. Sviluppando la propria consapevolezza corporea attraverso lo sguardo mosso alla e dall’opera d’arte, faccio della danza (e dell’arte) un amplificatore di significato e di partecipazione a un ambiente di condivisione di movimenti, significati ed emozioni.

Lors de la résidence à Rome à l’automne 2016, point de départ de cette aventure, j’ai entamé un travail consacré à la sculpture italienne intitulé Le vacarme et le silence (10). Si les premières motivations étaient d’ordre esthétique (l’objet de cette résidence est de porter un regard sur Rome, et le prisme de la statuaire me semblait offrir des possibilités graphiques et sémiologiques intéressantes), la plongée dans cet univers de formes, de styles, d’époques si diverses a progressivement fait émerger des réflexions beaucoup plus profondes, que ce soit sur des questions personnelles ou sur des aspects plus intrinsèquement liés aux rapports entre la photographie et la sculpture.
Très rapidement, la notion d’ambiguïté entre le corps et sa représentation sculpturale est apparue comme fondamentale : en appréhendant les oeuvres sous certains angles, à certaines distances, on se retrouvait soudain à douter de la nature minérale ou charnelle de l’objet photographié ; ceci, ajouté au fait que création et vie sont intimement liés dans ma démarche, et qu’à cette époque j’ai commencé à pratiquer le tango, a généré l’envie de prolonger ce travail par la mise en place d’un dispositif visant à faire adopter des poses de statues à des danseurs.
Cependant, cette idée initiale était loin de sa maturité.
Il a fallu tout d’abord que s’élabore une pensée sur les rapports entretenus par la photographie et la sculpture, particulièrement dans leur temporalité.
La similitude du principe de cristallisation de l’instant, commun à l’une et l’autre, a amené à considérer cette notion comme l’un des axes de recherche principaux.
Si dans la photographie, le temps se compte en fractions de secondes, découpant le monde en une succession infinie de moments uniques et figés, la sculpture produit un sentiment d’éternité, évacuant d’emblée la perception de l’avant et de l’après.
Au cours de ce cheminement, ma perception de la danse s’est également densifiée: le rapport au corps, en tant qu’outil autant que vecteur d’émotion, a bouleversé la façon dont j’envisageais cette discipline. La pratique du tango m’a fait prendre conscience des possibilités offertes par la danse en tant que langage corporel, ce qui auparavant restait une abstraction.
 
La rencontre avec Natalia Gozzano a été un déclic: après de nombreuses discussions, et alors que nous souhaitions confusément mener un travail ensemble sans bien savoir de quelle manière, elle m’a mis au défi à la Centrale Montemartini d’incarner une sculpture morcelée.
Pour la première fois, je me trouvais physiquement dans la situation de me servir de mon corps, de prendre conscience de la carcasse, des tensions musculaires, de l’équilibre, non pas pour réaliser des figures dynamiques, mais au contraire pour mettre en application cette notion de cristallisation sur laquelle j’avais jusque là une approche théorique.

C’est à cette occasion que j’ai pris notamment conscience de la dichotomie entre pose et pause, qui a par la suite largement irrigué notre travail avec les étudiants de l’AND de Rome. En français, les deux mots se prononcent quasiment de la même manière, et le mot pose est celui qui vient à l’esprit dans le contexte qui est le notre: adopter une pose implique un champs sémantique lié à la fois à la photographie et à
la sculpture, cohérent dans le cadre d’un exercice de tableau vivant.
Or, nous avions déjà débordé ce cadre en intégrant les notions temporelles et corporelles à notre propos.
Il s’agissait désormais d’envisager la question sous un angle dynamique, pour amener les élèves à faire une pause plus qu’à prendre une pose. Le travail sur le corps prenait une autre dimension puisque le mimétisme devait intégrer les transferts de forces, de tensions et d’équilibre. L’élève devait parvenir à restituer l’ensemble de cette dynamique en marquant une pause, en cristallisant lui-même le mouvement. Le corps est ainsi astreint à une discipline extrêmement rigoureuse, car l’immobilité requise nécessite des efforts musculaires intenses pour conserver paradoxalement la dynamique.
C’est à ce moment que nous avons su quelle direction allait prendre ce travail conjoint.
Il est évident que cette approche empirique et fort peu académique a produit une méthode relativement originale : je l’ai pour la première fois expérimentée dans le cadre d’un atelier avec des habitants d’une cité de la ville de Calais, très éloignés des univers de la photographie, de la sculpture et de la danse (11).
Après de nombreuses séances consacrées à se familiariser avec l’outil photographique, je les ai peu à peu amenés à observer la statue de Rodin, Les Bourgeois de Calais, non pas comme un objet extérieur, mais comme la possibilité d’une expression corporelle signifiante et personnelle.
Il leur a fallu prendre conscience de leur corps, des notions de tension, d’équilibre, de cristallisation du mouvement, ce qui était totalement nouveau pour eux.
Le regard qu’ils posaient sur la sculpture a progressivement évolué, prenant en compte la compréhension à la fois psychologique et corporelle des personnages, leur permettant dès lors de s’accaparer les figures de référence et d’en faire leur propre sujet.
Au prix d’efforts incroyables de leur part, ils ont su mobiliser des ressources qu’ils n’imaginaient pas avoir et sont parvenus à incarner de manière impressionnante ces postures et cette gestualité.
Le fait de parvenir à ce résultat a achevé de me convaincre de la pertinence du projet avec Natalia. Au delà de la simplicité apparente du concept de tableau vivant, cette approche mêlant considérations esthétiques, temporelles, psychologiques et physiques devenait le possible support d’un processus de prise de conscience tout autant que d’appropriation du corps dont la pertinence dans le cadre d’une action recherche avec des étudiants en chorégraphie nous semblait évidente.

Procedimento
Nella parte teorica svolta in aula si è illustrato il mito di Pigmalione e la storia dei Tableaux vivants e si è poi accennato al tema del linguaggio del corpo e della resa delle emozioni fra l’età classica e quella barocca (12).
E’ poi iniziato il lavoro di embodiment: prendendo spunto da una o più immagini di statue scelte da loro, gli studenti le hanno incarnate in una prima sessione fotografica realizzata sulla terrazza dell’Accademia. In tal modo hanno cominciato ad esercitarsi sul rapporto fra corpo e statua, preparandosi così ad una più complessa fruizione delle opere d’arte. Il passo successivo è stato la visita al Museo della Centrale Montemartini.
La scelta di questo museo è stata dettata dall’eccezionalità del sito, l’ex centrale termoelettrica Montemartini, riconvertita in sede museale per ospitare parte della collezione d’arte antica dei Musei Capitolini. Il brillante allestimento ha lasciato integri gli ambienti industriali, creando così un corto circuito tra i colori, le forme, gli odori, i materiali delle sculture di età classica ed ellenistica e gli enormi macchinari di ferro della Centrale (13).
L’idea di innescare un rapporto diretto fra danzatore e opera d’arte in un contesto museale, o comunque extra-teatrale, non è certo nuova. Basti pensare alla ormai secolare esperienza della Performance (14). Tuttavia nel nostro caso ciò che abbiamo perseguito non è stata la realizzazione di una performance site specific basata sulle possibili suggestioni e interconnessioni stimolate dal confronto diretto con le opere d’arte e con lo spazio del museo, quanto indagare e sviluppare un’esperienza della fruizione estetica attraverso il corpo (15). Il punto di partenza e di arrivo è stato considerare l’arte figurativa e l’arte coreica quali possibili espressioni di un’unica realtà. In tal senso ci si può ricollegare alla moderna interpretazione della danza come arte non effimera in senso stretto (contrariamente a come viene comunemente considerata): la pratica ma anche l’osservazione della danza lascia nel corpo delle tracce – sia in termini di esperienza fisica (attuata o riflessa), sia in termini di esperienza emozionale – che agiscono come memoria corporea, come memoria individuale e collettiva (16). E dunque l’esperienza della ricezione delle opere d’arte si mescola con quella della ricezione delle pratiche performative.
Infatti, considerando le opere d’arte come reificazione di un momento della vita (di un personaggio, di un pensiero, di una pulsione), possiamo pensare ad esse come a delle tracce coreiche, cioè come ad archivi di corpi in movimento, secondo l’accezione discussa da André Lepecki nel suo celebre saggio The Body as Archive: Will to Re-Enact and the Afterlives of Dances. Archivi che il corpo del danzatore, attraverso la loro “ri-messa in azione”, ri-attualizza, alimentando al tempo stesso nuove creazioni (17).
Dopo aver visitato il museo, gli studenti hanno scelto l’opera da incarnare, sia singolarmente che in piccoli gruppi. La prima fase del lavoro è stata il disegno: per sostenere l’attenta osservazione dell’opera abbiamo chiesto loro di disegnarla cercando di delineare la struttura essenziale del corpo, la sua postura, i rapporti di forza (18). Successivamente hanno provato a imitarla e infine c’è stata la ripresa fotografica.
Le fotografie scattate durante questo esercizio di incarnazione sono state esaminate in una doppia sequenza: prima le foto dei soli studenti, poi le stesse messe a confronto con l’opera che avevano impersonificato. In tal modo gli allievi hanno dapprima analizzato la postura assunta e l’intenzione espressa e poi l’hanno messa in relazione con l’opera modello per evidenziare analogie e differenze e ricercarne le ragioni (difficoltà di assumere una determinata posa, incomprensione del significato dell’opera, possibili interpretazioni delle originarie posizioni delle statue mutile…).
L’ultima fase del workshop è stata la ripresa fotografica nel teatro Ruskaja dell’Accademia. Nell’arco di tre ore gli studenti hanno impersonificato diverse statue scelte da loro, sia singolarmente che a gruppi. La scelta delle opere è stata vagliata da noi due per verificarne la qualità in termini di resa espressiva e/o dinamica. Le luci del teatro sono state allestite, dietro indicazione di Marc, dal maestro Stefano Pirandello dell’Accademia, a cui va il nostro ringraziamento. Una volta sistemato il set fotografico, gli studenti hanno messo una musica molto ritmata, energica, e le riprese sono iniziate. Per assumere le posizioni delle statue, spesso molto complicate dal punto di vista della struttura, avevano la foto dell’opera e, studiandola insieme in un continuo scambio di idee e suggerimenti, hanno creato insieme la rappresentazione. Spontaneamente si sono avvicendati vari “assistenti” per aiutare a sistemare i corpi nelle posizioni richieste: fornendo l’appoggio di una sedia da togliere subito prima dello scatto, come nel caso del Ratto della Sabina del Giambologna, disponendo i capelli del Lica nell’Ercole e Lica di Canova, aiutando a mettere a testa in giù la ragazza che impersonificava Diomede nell’ Ercole e Diomede di Vincenzo de Rossi.
Il lavoro ha da subito preso un ritmo intenso ed estremamente energico; la potente musica rock ha riscaldato l’atmosfera e favorito la circolazione di un’energia dirompente e allegra che ha significativamente favorito la concentrazione e l’intensità emotiva di tutti i ragazzi. Questo profondo coinvolgimento fisico ed emozionale ha fortemente permeato le interpretazioni offerte dalle ‘sculture viventi’ (19) impersonificate davanti all’obiettivo fotografico.
Una volta terminato il workshop, abbiamo chiesto agli allievi di mettere per iscritto le loro impressioni sull’esperienza appena terminata. Ne sono emerse interessanti osservazioni su quanto il lavoro di osservazione ed incarnazione delle opere d’arte abbia stimolato la loro percezione corporea e la loro creatività in termini coreografici. Ne riportiamo alcuni estratti.
«L’apice del lavoro di impersonificazione della statua è stato raggiunto con il workshop fotografico tenuto nel teatro Ruskaja dell’Accademia Nazionale di Danza.
Riproducendo la statua con persone reali, però, il corpo non poteva assolutamente essere abbandonato al proprio reale peso, quindi era necessario mantenere il centro del corpo molto stabile e forte mentre gli arti, la testa e la parte superiore del tronco dovevano donare il senso di abbandono ed eleganza.
Ritengo che uno dei punti di forza del corso sia stata la profonda relazione con l’improvvisazione e la composizione della danza a tal punto da utilizzare lo studio dell’impersonificazione delle statue anche all’interno del corso di composizione della danza e portarlo in scena per l’esame finale di questa materia all’ultimo anno del Triennio Tecnico Compositivo» (Roberta Abate).
«Ho scelto il Ratto di Proserpina, uno dei capolavori di Bernini, basato sul famoso mito. Mi ha davvero messo alla prova sia per la posizione da assumere, quasi senza punti appoggio, che per l’energia e la forza che allo stesso tempo dovevano emergere. È stato meraviglioso riportare tutto ciò davanti alla fotocamera. Marc, il fotografo, con grande professionalità, ci ha davvero spronati e incitati a mantenere correttamente posizioni, torsioni e sguardi e a suggerirci l’intenzione più indicata.
Credo che ognuno di noi abbia fatto un ottimo lavoro riuscendo davvero a far sì che le statue prendessero vita» (Lara Di Bello).
«Ero molto emozionata per questo progetto, ma soprattutto curiosa di come un corpo del ventunesimo secolo potesse incarnare un corpo di una scultura di qualsiasi epoca.
La prima opera che ho riprodotto è stata Le tre Grazie di Antonio Canova. La scelta da un mio punto di vista era già l’inizio di un nuovo processo coreografico dove stavolta non erano necessari i movimenti per essere convincenti ma il semplice entrare in quel personaggio e diventare tale» (Maria Cardone).
«In virtù del workshop, l’idea di dover incarnare personaggi ben definiti, colti in momenti caratterizzati da una storia ed un tempo altrettanto definito, e l’idea di dover rappresentare in un’azione apparentemente statica (posa) un’azione realmente pratica, che coinvolge dunque la muscolatura, la tensione e l’intenzione, ha sicuramente acutizzato la consapevolezza del nostro corpo in movimento» (Beatrice Gatti).
«Il lavoro di incarnazione ha influito tanto sul mio lavoro di danzatrice perché mi ha dato modo di esplorare movimenti anche diversi da quelli di un codice ben definito che siano della tecnica classica o contemporanea» (Alessandra Monteleone).
«Provare ad incarnare il soggetto di un’opera comporta non solo l’attivazione ‘’muscolare’’ ma anche e soprattutto l’attivazione di un processo di immedesimazione senza il quale la resa non sarebbe la stessa. A sua volta l’immedesimazione fa sì che si crei una sorta di empatia con lo stato psico-emozionale del personaggio che si vuole rappresentare e dunque suscita sensazioni molto più forti rispetto a quelle che si potrebbero provare con la semplice osservazione visiva che può dare un input iniziale ma per andare in profondità bisogna sentire.
Qualsiasi cosa volesse davvero rappresentare quest’opera, poterla ‘’incarnare’’ mi ha enormemente stimolato nell’improvvisazione danzata, in cui potevo dar forma e movimento a quanto sopra espresso arricchendola letteralmente di vitalità, di sguardi, di respiri» (Paola Miale).
«La scultura che ho scelto come prima è stata Il Giorno e la Notte di Michelangelo Buonarrotti. (…) Per svolgere meglio questo lavoro abbiamo utilizzato un piano d'appoggio ovvero un tavolo di vetro sul quale ci siamo posizionate in figura estesa per riuscire a ricreare quelle tensioni muscolari e linee estetiche del corpo per quanto fosse possibile.
La scelta di un punto preciso della terrazza dell'Accademia Nazionale di danza, dove ognuno riproduceva la propria scultura ha fatto sì che si creasse un ulteriore stimolo creativo per l'esercitazione. Non è un caso che la scelta delle opere da me rappresentate in questo percorso sia ricaduta sempre su opere composte da più persone, poiché il mio intento era quello di cogliere ed esprimere l'essenza emotiva di un gruppo scultoreo dovuto non solo alla dinamicità dei corpi intrecciati fra di loro o comunque sia in movimento, ma soprattutto al rapporto fra di essi che non escludevano nessuna parte del corpo: lo sguardo, le torsioni, le forze contrapposte, gli atteggiamenti del busto, e le stesse mani che diffondevano energia e trasparivano un senso profondo dell'uso del tatto sulla pelle» (Fabrizia Maddaloni).
«Dopo l’esperienza alla Centrale Montemartini volevo cimentarmi nell’incarnazione di un gruppo scultoreo perché, per quanto mi riguarda, può considerarsi completamente un’altra cosa: l’attenzione è doppia, bisogna equilibrare molto bene entrambe le parti, sia negli incastri corporei, come possiamo ben vedere qui sotto nell’opera scelta, sia nella tensione emotiva» (Francesca D’Adamo).
«Non è stato semplice "incarnare" quella statua, così come non lo è stato in tutte le altre occasioni avute, ma ho dedotto ciò solo dopo averlo provato su di me (…) perché solo provando ad assumere quella determinata posa o quello stato d'animo, si può di capire a pieno l'opera, cosa che non succede guardando l’opera tanto per guardare» (Roberta Cucchiarelli).
«Questo lavoro è stato a dir poco particolare, in quanto sono riuscito attraverso il corpo ad immedesimarmi totalmente in quella che era la mia percezione dell’azione rappresentata dalla statua, come ad esempio una posizione di attacco in battaglia, in cui riuscivo ad immaginare davanti a me un vero e proprio scenario di guerra. In quel momento al posto della scultura c’ero io.
Tutto ciò ha cambiato in pieno la mia percezione e sensibilità di movimento durante la mia pratica di danzatore, perché sono riuscito a curare ogni minimo gesto facendolo con un’intenzione totalmente differente rispetto a come lo facevo prima dello studio» (Francesco Bruno).
In conclusione, ciò che abbiamo cercato di realizzare non era la danza in se’ quanto una ricerca sul corpo in rapporto all’opera d’arte in chiave dinamica. Ricerca sulla postura, sulla dinamica, sulla nozione di pausa contrapposta a quella di posa, sull’incarnazione delle sculture, la comprensione della storia che raccontano, del movimento che manifestano, della psicologia che rivelano. A tutto ciò si è aggiunta la gioia, il piacere del lavoro collettivo, la collaborazione, la complicità, i percorsi individuali, lo spazio di libertà, l’espressione, la sperimentazione estetica, il rapporto con l’immagine di sè, la messa in discussione, l’assunzione dei rischi, l’oltrepassare i propri limiti, l’interdisciplinarietà.

L’alchimie très particulière qui s’est créée entre l’historienne de l’art et le photographe a entrainé des effets intéressants dans le déroulement des ateliers: si, la première année, chacun est relativement resté dans son rôle, dans un jeu d’interactions et de complémentarité dans nos domaines respectifs, les frontières se sont légèrement brouillées la seconde année, l’historienne de l’art se retrouvant parfois à photographier les élèves pendant que le photographe dirigeait les séances d’incarnation. Le résultat, bien loin de créer de la confusion, a au contraire été de produire une plus grande qualité de travail, de générer une perception plus complète des enjeux de la part des élèves, et de créer une fluidité générale, joyeuse et généreuse.

Qualcosa che assomiglia molto alla danza.
Luglio 2019
1) N. Gozzano, Marc Mounier-Kuhn. Il corpo nello spazio estetico e nello spazio sociale, in http://www.unclosed.eu, a. IV, n. 15, 2017. Il lavoro di Marc Mounier Kuhn è stato esposto in Format à l’italienne 8, Espace Le Carré, Lille, settembre 2017, e Format à l’italienne 8, Roma, Fondamenta Gallery, novembre 2017.
2) Il corso, che fa parte della Scuola di Coreografia dell’Accademia Nazionale di Danza coordinata da Valeria Diana, parallelamente ha svolto le lezioni di Composizione della danza con Carla Marignetti. Ringrazio Valeria Diana per aver sostenuto il mio progetto e Carla Marignetti, con il musicista Marco Melia, per la loro attiva compartecipazione, dedicando parte del corso allo sviluppo degli stimoli offerti dal workshop. Un sentito ringraziamento va alla direttrice dell’Accademia, Maria Enrica Palmieri, per la disponibilità ad accogliere il nostro workshop.
3) Per il profondo legame fra le arti della scena, la retorica e le arti visive si veda M. L. Catoni, La comunicazione non verbale nella Grecia antica, Torino 2008; E. Hénin, Ut pictura theatrum. Théâtre et peinture de la Renaissance italienne au classicisme français, Genève 2003; E. Tamburini, Gian Lorenzo Bernini e il teatro dell’arte, Firenze 2012.
4) Sugli studi avviati a fine Ottocento sulle connessioni fra opera d’arte e percezione corporea vedi V. Gallese, Aby Warburg e il dialogo tra estetica, biologia e fisiologia, in “Arte e cervello”, 2, 2012, pp. 48-62.
5) Mi riferisco ovviamente ai neuroni specchio: una classe di neuroni visuo-motori che, alla vista di un’azione compiuta da altri, attiva nella corteccia cerebrale gli stessi patterns di movimenti osservati, come se si facesse in prima persona quell’azione. Su questa importante scoperta, avvenuta nei primi anni ’90 sui macachi, ci limitiamo a menzionare l’articolo con cui venne resa nota: G. Rizzolatti, L. Fadiga, V. Gallese, L. Fogassi, Premotor Cortex and the Recognition of Motor Actions, in “Cognitive Brain Research”, n° 2, vol. 3, 1996, pp. 131-141, e il libro che l’ha divulgata: G . Rizzolatti, C. Sinigaglia Corrado, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina editore, Milano 2006. Degli stessi autori vedi ora Specchi nel cervello. Come comprendiamo gli altri dall’interno, Raffaello Cortina editore, Milano 2019.  Sul profondo coinvolgimento del tono muscolare nei processi di ricezione dell’opera d’arte vedi V. Ruggieri, L’esperienza estetica, Armando editore, Roma, 1997.
6) La definizione di ‘embodied simulation’ si deve a V. Gallese, Embodied simulation: from neurons to phenomenal experience, in “Phenomenology and the Cognitive Sciences”, n. 4, 2005, pp. 23–48. Sul coinvolgimento del corpo nella ricezione delle opere d’arte avevo dedicato gli articoli Vedere con il corpo. Spunti sull’apporto del neurocognitivismo all’insegnamento della Storia dell’arte nell’Accademia nazionale di danza, in “Recherches en danse”, 2016 (<http://danse.revues.org>/1374; DOI:10.4000/danse.1374, 2016) e How Art History Can Improve Dance Education, in “Conversation across the Field of Dance Studies”, Visual Culture and Dance. An Academic Discipline, Society of Dance History Scholars, vol. XXXII, 2012, pp. 26-29.
7) La ormai multiforme proposta dell’Embodied Cognition, quale teoria per spiegare i meccanismi della conoscenza, in larga parte oscilla fra l’attribuzione del ruolo principale alla percezione oppure all’azione. Mi limito a citare il fondamentale libro di M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, (Paris 1945), Milano, Bompiani, 2012. Per un’analisi complessiva degli studi sulla Embodied Cognition si rimanda a F. Caruana, A.M. Borghi, Embodied cognition: una nuova psicologia, in “Giornale italiano di psicologia”, n. 1 (2013), pp. 23-48. Ringrazio Carmela Morabito per le indicazioni bibliografiche e per aver discusso con me sugli aspetti neuroscientifici qui accennati.
8) Alle prime teorie che, pur nella loro differenziazione ed ulteriori interpretazioni, facevano tutte capo alla definizione di Embodied Cognition, si sono aggiunte la  ‘Grounded cognition’, secondo cui i processi cognitivi non si limitano al sistema sensorimotorio ma includono in misura rilevante anche l’ambiente fisico, l’Enattivismo (proposta da F. Varela, E. Thompson, E. Rosch  The Embodied Mind: Cognitive Science and Human Experience, 1991; per una recente ridiscussione di questa metodica vedi D. Hutto e E. Myin, Radicalizing enactivism, MIT PRESS, 2013), che supera la dialettica fra percezione e azione proponendo un’idea di percezione inglobante l’attività motoria; la ‘Radical Embodied Cognitive Science’, per la quale i sistemi cognitivi sono sistemi dinamici che necessariamente legano il soggetto all’ambiente. Cfr. F. Caruana, A.M. Borghi, cit. Per il superamento dello stesso accostamento delle entità mente/corpo a favore del concetto di ‘Mindboby’, e per quello di ‘Extended mind’, vedi C. Morabito, C. Guidi, The new forms of embodiment between philosophy and cognitive neurosciences, in “Studi di Estetica”, a. XLV, IV serie, 2/2017 Sensibilia, DOI 10.7413/18258646020; per un più diretto riferimento al contesto musicale e coreico vedi E. F. Clarke, Empathic entanglemets: Music, motion, dance, in Music-Dance. Sound and Motion in Contemporary Discourse, a cura di P. Veroli e G. Vinay, Routledge, London and New York 2018, pp. 191-206.
9) V. Gallese, Embodied simulation and its role in cognition, in “Reti, saperi, linguaggi”, I/2018, a. VII, (13), pp. 31-46.
12) Vedi nota 3. Inoltre Tableaux vivants ou l’image performé, Paris, Éditions Mare&Martin/Inha, 2014; F. Gualdoni Corpo delle immagini immagini del corpo. Tableaux vivants da san Franceco a Bill Viola, Johan&Levi, 2017.
13) Il progetto di restauro e allestimento della Centrale Montemartini è stato curato dall’architetto Francesco Martinori, che ringrazio per aver illustrato agli studenti il suo lavoro.
14) Vedi l’ormai classico R. Goldberg, Performance Art. From Futurism to the Present, Thames & Hudson, 1979.
15) Più analogo al nostro lavoro sembra essere quello del progetto ‘Dance Museum’ che stabilisce una rete fra musei, istituzioni universitarie e danzatori per offrire nuove modalità di fruizione dell’arte nei musei attraverso il convolgimento fisico sia di danzatori sia del pubblico. https://www.dancingmuseums.com/. Per un recente intervento sulla relazione fra danza e museo vedi la mostra Corps en mouvement. La danse au musée, Petit Galerie du Louvre, a cura di J.-L. Martinez e B. Millepied, Paris, 6 ottobre 2016-3 luglio 2017.
16) Su questo tema molto attuale, stimolato soprattutto dal saggio di Lepecki già citato, vedi il denso articolo di Elisa Anzellotti in questa stessa rivista: Esperienze d’archivi (www.unclosed.eu, a. IV, n.16, 2017) e, della stessa autrice, Memoria e materia della danza. Problemi conservativi di un patrimonio culturale immateriale, Edizioni Accademiche Italiane, Saarbrücken 2016; inoltre Ricordanze: memoria in movimento e coreografie della storia, a cura di S. Franco e M. Nordera, Utet, Torino 2010.
17) «Ritengo che l’attuale volontà di archiviare operi in maniera simile – una ri-messa-in-azione non per fissare un’opera nella sua singolare (originaria) possibilizzazione, ma per sbloccare, liberare e attualizzare molte (virtuali) com- e incompossibilità di un’opera, che l’originaria istanziazione dell’opera stessa teneva di scorta, in termini virtuali». A. Lepecki, The Body as Archive: Will to Re-Enact and the Afterlives of Dances, in “Dance Research Journal”, 42, 2010, 2, pp. 28-48, trad. it di A. Pontremoli Il corpo come archivio. Volontà di ri-mettere in azione e vita postuma delle danze, in “Mimesis Journal. Scritture della performance”, 5, 1, 2016.
18) Va specificato che il disegno qui è inteso non come una pratica artistica in senso tradizionale bensì come uno strumento per concentrare l’attenzione sull’opera, fissandone gli elementi ritenuti prevalenti ai fini della resa dinamica, espressiva, muscolare, etc. Dunque non era richiesta alcuna esperienza artistica agli studenti.
19) Scultura vivente è il titolo di un libro di Anton Giulio Bragaglia dedicato a vari protagonisti della danza fra cui Jia Ruskaja, fondatrice dell’AND. A.G. Bragaglia, Scultura vivente, L’Eroica, Milano 1928.