Orientamenti esemplari europei negli anni '80

Patrizia Mania

L'inclusione della fotografia al pari di altri medium nell'alveo dei linguaggi dell'arte contemporanea è un fatto incontestabilmente assodato. Purtuttavia tale ingresso non ha goduto di uno sviluppo lineare ma si è andato determinando in un percorso travagliato, segnato da slittamenti e aporie. Una tra le spinte più decisive in tal senso si affermò negli anni '80 del '900, quando per un gran numero di artisti rivolgere la propria attenzione alla fotografia in maniera, se non esclusiva, preponderante rappresentò anche un modo per distinguersi dagli orientamenti in voga. In Europa, ma non solo in Europa, si andò configurando una nuova pratica della fotografia che, smarcandosi dalle tradizionali categorie di appartenenza, si impose prepotentemente tra i linguaggi dell'arte contemporanea. In tale ottica, tali artisti rifuggeranno dall'appellativo di fotografi qualificandosi come artisti tout-court. Non che fino a quel momento la fotografia fosse stata esclusa dall'arte propriamente detta, ma la presenza costante di alcune nuove, reiterate e specifiche, caratteristiche, come il grande formato, la ricerca dell'oggettività, l'intento inventariale, la costruzione seriale, si profileranno come aspetti peculiari che identificheranno il fenomeno proponendolo peraltro in netto contrasto con le tendenze maggioritarie.

Gli anni '80 del Novecento nell'arte vengono infatti consuetudinalmente indicati come gli anni dei "nostalgici ritorni" -ritorno alla pittura, ritorno alla scultura- , ritorni sostanzialmente ai "mestieri dell'arte". Non nel senso precipuo della ricerca di un "ordine" come si era qualificata l'esperienza di ritorno negli anni Venti, bensì nella direzione di una tendenza volta al recupero delle modalità tradizionali del fare arte. Un orientamento che si mostrerà propendere soprattutto verso un recupero delle modalità dell'Espressionismo. Con una certa insofferenza nei confronti dei contesti linguistici sovvertitori e allargati dei due decenni immediatamente precedenti (che pur si presuppongono), la Transavanguardia, i Nuovi selvaggi, la Nuova Pittura -esemplificando con queste definizioni le principali tendenze che presero corpo, soprattutto in Europa ma non solo- aprirono un nuovo corso caratterizzato da modalità espressive di ritorno ai mezzi tradizionali dell'arte e di rottura rispetto alle visibilità 'altre' percorse nel recente passato. Una vasta letteratura ha accompagnato queste distinte ma al contempo omogenee direttrici che andranno a delineare un orizzonte specifico coniugato essenzialmente con le poetiche postmoderne(1). Come si è detto, una locuzione, sopra tutte, sembrerà caratterizzare questi orientamenti: il ritorno all'espressionismo.

Ed è proprio nel momento della massima euforia per il recupero dei "mestieri" dell'arte e per i loro potenziali espressionismi che si fa però strada un orientamento opposto che si proporrà ideologicamente avverso allo status quo. In particolare, si deve a Germano Celant l'aver prima individuato e poi coniato e raccolto sotto il termine "inespressionismo" un orientamento antitetico all'Espressionismo, che mostrerà di assumere nei suoi confronti una posizione sostanzialmente contraria alla sua istituzionalizzazione all'interno del sistema dell'arte. Il primo impiego del termine da parte di Celant data al 1981 ed è riferito all'arte americana in un testo dal titolo "Inespressionismo americano"(2) Con questo termine, scriverà Celant "si voleva definire l'insofferenza per la spettralità Neoespressionista e tardoavanguardista, sempre in trance mistico-artistica" ma anche sostenere "l'ipotesi di un'uscita dagli estetismi e dai personalismi per uno sgretolamento dell'ebbrezza iconica a favore di una ricerca analitica e critica sul banale e sulle sue mancanze"(3).

Qualche anno dopo, la riflessione di Celant andrà puntualizzandosi e allargandosi anche a esperienze europee e verrà convogliata nel 1988 nel saggio Inespressionismo dove il critico farà riferimento a tutti quegli artisti capaci, dal suo punto di vista, di contrapporre ai diktat della pittura espressionista la propria attenzione critica sull'ingannevolezza dei linguaggi della produzione e della comunicazione. Scriverà in tal senso: "In questo oceano di schegge e di eventi, prodotti e riprodotti collezionati e messi in corrispondenza a creare labirinti di immagini pietrificate, quanto di fossili quotidiani, si percepisce non il 'nuovo', ma la riflessione linguistica sulla capacità persuasiva e comunicativa delle cose già fatte. Si riordinano cognizioni avute, non si ricercano 'novità'. Gli insiemi inespressionisti indagano le forme di argomentazione applicate in tutti i campi del vedere e del costruire. Lavorano su e con i media, linguaggi senza soggetto proprio perché si applicano a tutti i soggetti"(4).  Nell'analisi celantiana non risultano tantissimi i casi di artisti che impiegano la fotografia ma è proprio sullo sfondo critico da lui individuato, quello del "lavoro sui media" e della funzione "analitico-critica" insita nella tendenza, che essa si mostra utile ad introdurre l'argomento prescelto visto che la maggior parte degli artisti che ricorreranno alla fotografia lo farà su questi presupposti (5).

In termini più esplicitamente rivolti alla fotografia, Jean François Chevrier, in un saggio pubblicato nel '91 su Galeries Magazine intitolato "Image -Object"(6) scrive:"Nel 1917, a New York, quando Marcel Duchamp domanda a Stieglitz di riprodurre l'orinatoio di Richard Mutt rifiutato dalla giuria degli Indipendenti, si prende gioco della pretesa dei fotografi a esaltare, se non a trasformare, l'apparenza della scultura. Conseguentemente ad un effetto di gioco di luci e ad una impeccabile messa in scena, l'orinatoio perde la sua 'bellezza d'indifferenza'[tanto cara a Duchamp] (7) e acquista il valore derisorio di una figura ‘simbolista’. Duchamp aveva portato Stieglitz a parodiare la sua stessa estetica. Al contempo, la fotografia, autenticando l'opera d'arte (dopo la sua firma) diviene uno strumento essenziale di questa operazione di scelta di un oggetto al quale il ready made affida una decisione artistica.(...). La fotografia trova così il suo posto, come strumento ma anche come modello, nella definizione la più larga possibile di scultura, essendo divenuta un lavoro più che sulla figura, sull'oggetto, e l'oggetto più ordinario"(8). Se è proprio la fotografia a trasfigurare in oggetto estetico l'anonimato, l'indifferenza estetica dell'orinatoio, del ready made duchampiano, il passaggio successivo cui si assisterà dunque, successivamente, sarà quello della fotografia reificata in oggetto artistico. Quello che vede la fotografia disancorarsi ancora più radicalmente dall'obbligo di significare testimoniando qualcosa d'altro e andando a delineare un campo d'azione che la vedrà via via assimilare finanche le qualità plastiche dell'oggetto.

La questione avanzata ne sottende un'altra che andrà nel tempo prendendo il sopravvento, quella della storia degli usi della fotografia documentaria integrata all'attività allargata degli scultori moderni e contemporanei, dalle "sculture involontarie" di Dalì fotografate da Brassai fino alle azioni più diverse svolte negli anni sessanta (Long, Nauman, Gilbert and George, Wegman etc.). Nel corso del tempo la fotografia viene così a ritagliarsi un nuovo campo nella documentazione artistica che non è più quello tradizionale, andando a configurarsi come traccia, prova esclusiva di un'attività che non ha prodotto altra immagine duratura nel tempo che proprio sé stessa. Non è dunque la riproducibilità tecnica dell'opera di benjaminiana memoria ma la testimonianza di un evento del quale rappresenta il prodotto visivo. Ci si inoltra in tal modo sul terreno di una testimonialità del mezzo che lo emancipa in maniera autonoma dallo stesso soggetto/oggetto riprodotto. In questo gioco delle parti, il linguaggio fotografico acquista uno statuto a sé. Diviene traccia di un evento artistico altrimenti insussistente. Non solo elemento documentario di accertamento di fatti, ma fatto in sé (9).

Douglas Crimp in un articolo del 1980(10) stigmatizza l'avvenuta rottura della fotografia con la tradizione "moderna" e il formalizzarsi di una definizione che nell'epoca contemporanea le consentirà di entrare a far parte della nozione stessa di arte. Il critico sottolineerà come il fenomeno non dovesse ritenersi nato all'improvviso, ma come fosse stato invece preparato da una lunga e diversificata storia che sinteticamente può essere ricondotta, per la parte sua più fervida e sperimentatrice, soprattutto alle pratiche concettualiste pur non esaurendosi nelle stesse. Nel ricostruire questo sterminato campo di sconfinamenti e contaminazioni, è utile accogliere il pensiero espresso da Jean-François Chevrier e James Lingwood che nell'introdurre il catalogo della mostra da loro curata Un'altra obiettività /another objectivity nel 1989 (11) ponevano l'accento sulla necessità della presa d'atto di un conflitto legato primariamente alle utilizzazioni funzionali della fotografia. In tale direzione ed in misura forzatamente riduttiva è possibile distinguere tra gli usi funzionali della fotografia una serie di campi separati che spaziano dal fotogiornalismo ai diversi tipi di fotografia cosiddetta "applicata" (alla moda, alla pubblicità, all'architettura) fino agli usi cosiddetti "creativi". Gli artisti cui qui ci si riferisce non fanno fotografie, utilizzano la fotografia. L'ambito ritagliato concerne propriamente artisti che utilizzano la fotografia dando vita ad immagini inedite e singolari. Inedite in quanto per lo più non si tratta di citazioni di immagini già esistenti, non sono il risultato di una riproposizione o di una trasformazione di immagini anteriori, ma nascono dal confronto con la realtà "attuale".

Un caso pionieristico ed eloquente è in questo quadro di riferimenti quello del duo di artisti tedeschi Bernd e Hilla Becher (12)che furono all'inizio della loro affermazione nel mondo dell'arte definiti artisti concettuali e che oggi consideriamo artisti fotografi tout-court. Con la loro fotografia prende corpo un nuovo modo di fare e pensare la fotografia. E' indubbio che la loro produzione artistica rivesta due distinti interessi: da un lato, l'importanza dell'analisi svolta, sia tematicamente che compositivamente; dall'altro, il ruolo svolto come docenti dell'Accademia d'arte di Düsseldorf, fucina di buona parte degli artisti protagonisti del fenomeno esaminato. Da Thomas Struth a Andrea Gursky passando per Günther Förg, Thomas Ruff, Candida Höfer: la quantità degli allievi che avviano percorsi autonomi ma originati dal loro insegnamento è tale da spingere a formulare l'ipotesi di una vera e propria "Scuola di Düsseldorf".

L'incipit delle note fotografie di paesaggi di archeologia industriale di Bernd e Hilla Becher sembra risiedere nella determinazione a conservarne la memoria:"ci era di stimolo il pensiero che questi paesaggi industriali non sono affatto eterni, hanno una vita media di circa cinquant'anni, durante i quali tuttavia si trasformano di continuo. Sono delle architetture nomadi, che mutano e seguono dei cicli proprio come la natura" (13). La serie delle loro Sculture anonime iniziata nel 1959 e portata a termine nel 1972 è formata da innumerevoli serie di fotografie di edifici industriali riuniti per tipologie. Dunque registrare il tempo in campionature di tipologie architettoniche industriali - le torri, i serbatoi d'acqua..- che possano anche costituire un valido strumento di supporto al loro studio. Per accentuare il carattere di inventario non emotivo della loro indagine, i due artisti fotografavano sempre i loro edifici con cielo coperto e senza la presenza di persone. Nella fotografia seriale dei Becher i soggetti sono al centro dell'inquadratura, ortogonali all'asse della fotocamera, completamente isolati dall'ambiente. Le modalità di ripresa e le inquadrature sono uniformi, rese anonime, oggettive, in virtù di un criterio che mira di volta in volta a documentare l'esistenza di esemplari unici ma riferibili a determinate categorie di edifici e costruzioni industriali, con regole non diverse da quelle adottate da un entomologo che raccoglie testimonianze sulla varietà dei soggetti appartenenti alla medesima specie. Dunque, per oltre quarant'anni, i coniugi Becher hanno saputo reiventare l'architettura industriale, passando il testimone ai propri allievi che ne hanno declinato l'insegnamento in direzioni distinte e plurali.

Candida Höfer (14), ad esempio, si è occupata di fotografare gli interni di grandi spazi pubblici e privati come biblioteche, teatri, musei. Le architetture, riprese con luce naturale e inquadrate secondo la prospettiva centrale, sono raccontate senza le persone: quello che Höfer mostra è uno “spazio sociale” dove sono gli oggetti e i dettagli che determinano il senso dei luoghi. Il grande formato di stampa, con opere che arrivano a essere stampate fino a due metri e mezzo, permette, tra l'altro, a chi guarda di vedere aspetti impercettibili a occhio nudo e di calarsi completamente nell’opera.

L'architettura modernista, in una accezione specifica, è stata l'oggetto speculativo delle fotografie di Günther Förg (15). Nelle sue fotografie di edifici dal forte significato politico e culturale -le strutture del Bauhaus, di Tel Aviv, di Gerusalemme ma anche del modernismo dell'architettura fascista-, gli stessi sono sempre colti da una singolare angolatura prospettica che mette a fuoco la periferia dell'immagine reificandola in centro. In alcune fotografie si è espressamente interessato alle stratificazioni di senso che gli edifici accolgono per esempio venendo traslati in un film. Così, citazioni di film, come nel caso di Villa Malaparte a Capri costruita su un promontorio nel 1942 da Adalberto Libera e scelta come sfondo del film di Godard Le mepris del 1963, divengono parte di questo vocabolario quasi metafisico che disvela analogie sommerse. Nel caso della villa di Libera, la sua forma di parallelepipedo rotto dalla gradinata, che sale ampliandosi sulla terrazza solare della copertura, ha un'armonia semplice che diviene parte delle strutture naturali della roccia e crea un eccezionale ambiente costruito nel quale l'obiettivo di Förg ci trasporta a sua volta con straordinaria eloquenza critica.

Dall'estromissione della figura umana alla sua inclusione, in una parabola che mantenendo saldi i presupposti degli insegnamenti impartiti a Düsseldorf conduce ad un'analisi dei contesti sociali designati alla fruizione e alla tutela dell'arte è il passaggio distintivo che compie, all'interno di questa costellazione, Thomas Struth (16). Nelle sue famosissime serie dei visitatori dei musei o del "dietro le quinte" degli operatori, degli studiosi, dei restauratori, all'intento dell'analisi sociale si affianca quello dei ribaltamenti dei punti di osservazione - dall'osservare all'essere osservati -. Un documentarismo intelocutorio il suo, la cui forza risiede in larga misura proprio nella messa in scena di un campo di esplorazione privilegiato, quale è anche quello dello spazio museale e dei suoi protagonisti.

Una differente redazione di campionatura, questa volta dell'umano, ha caratterizzato la serie dei famosi ritratti degli anni '80 di Thomas Ruff (17). Qui è la foto-ritratto a far da protagonista. Le foto standard richieste nei passaporti o nei documenti in genere che, amplificate dimensionalmente capovolgono quell'intento di oggettività presunta cui sono vocate. I primi piani di volti impassibili, immersi in una luce uniforme, ribaltano il nesso di somiglianza tra 'originale' e 'copia', sovvertendone i presupposti. All'estensione dell'analisi ai contesti della modernità globalizzata, alla cultura consumistica e pop, all'architettura e all'intervento umano sul paesaggio e ancora all'anonimato e alla dispersione dell'individuo nella società di massa volge il suo obiettivo Andreas Gursky (18) che "costruisce" le sue immagini a partire proprio da queste premesse d'indagine. Le sue impressionanti distorsioni e correzioni ottiche accrescono tali peculiarità sublimandone il potenziale.

E, se in Germania la nuova fotografia domina un versante specifico del paesaggio artistico del decennio che le diverrà peculiare, in Francia gli anni '80 si aprono con una mostra "Il se disent peintres, il se disent photographes"(19) curata da Michel Nuridsany a L'Arc di Parigi che avvierà un'analisi cruciale sulla questione. Non tanto e non solo perimetrando specifici campi e reciproci sconfinamenti; quanto soprattutto accendendo la miccia che, contestualmente e negli anni immediatamente successivi, virerà, da un lato, verso forme di intimismo, dall'altro, appuntando l'indagine sul reale quotidiano . Frequentemente intrecciate e sovrapposte, le due direttrici contraddistinguono il lavoro di numerosi artisti tra i quali alcune figure emergono più di altre anche per l'accoglienza che si mostreranno capaci di intercettare a livello internazionale. Sebbene difficilmente riconducibile ad una cifra costante, l'opzione per il grande formato e l'attitudine a lavorare per serie si mostrano pressoché sistematiche e in taluni casi, quest'ultima, sembra illustrare un pensiero concettuale di analogico rimando alla pittura e alle sue prerogative storiche. Non casualmente, si intitola Tableaux la serie di lavori realizzata tra il 1978 e il 1982 da Jean Marc Bustamante (20) a rimarcare la condivisione con il quadro, propriamente con la sua cornice, che isola e circostanzia le immagini di paesaggi indistinti e periferici per lo più incontrati nella periferia di Barcellona e in alcuni luoghi della Provenza. Sono luoghi apparentemente poco riconoscibili ma che a ben guardare si presentano come molto caratterizzati e specificamente unici, l'esatto contrario dei "non lieux" così efficacemente descritti da Marc Augé nell'omonimo saggio uscito nel 1992. E se lì, infatti quei luoghi non sono dimora ma indistinto, le immagini di Bustamante come anche quelle di Garnell si presentano al contrario come esemplarmente uniche. Semmai rifuggono all'idea stereotipata della cartolina per comunicarci l'insostituibile specificità del presente sommerso. Si osservino i Paysages (1985-1986), i Désordres (1987-1988), i Portraits (1988-1989), le Nuits (1989) di Jean-Louis Garnell (21) e il loro modo di ricomporre in gruppi tematici una possibile narrazione dell'anonimato del presente di continuo flesso a registrare le trasformazioni in atto.

Aggirare il centro concentrandosi sulla periferia dell'immagine configura percorsi che procedono per frammenti seriali e nel caso di Patrick Tosani (22) ciò avviene in maniera costante. La maggior parte dei suoi lavori riguarda oggetti isolati o frammenti del corpo umano che vengono indicizzati in sovrapposizioni di codici linguistici, com'è nella scrittura braille sovrapposta a dei ritratti, generando percorsi semantici plurali (Corps, 1985).

La rivendicazione di un'"altra oggettività"(23) conseguita per il tramite dell'immagine fotografica è il binario percorso anche da Suzanne Lafont (24). Nei suoi Portraits l'immagine registra il visibile e l'invisibile immaginario in una stratificazione di significati che nel grande formato monumentalizza ambientalmente l'interrogazione sull'umano.

Tasselli tutti di un mosaico che sposta l'oggettività dell'immagine su un piano anche plastico d'environment e di oggettualità.

E' quanto condurrà sul finire del decennio ad un ulteriore radicalizzazione che sintetizzerà l'indagine oggettiva sul reale in una direzione partecipativa.

"Alice 27-01-1989" è il titolo dell'unica opera presentata in una mostra di Cesare Pietroiusti (25) inauguratasi presso la galleria Alice, nella sede di via Monserrato 34 a Roma il 30 marzo 1989. Si tratta di una scatola oblunga su cui l'artista ha ricostruito otograficamente -in scala ridotta- cinque delle sei superfici esterne della galleria. Al di là del dato strutturale, che lega questo lavoro allo spazio per il quale è stato concepito, l'opera non sembra iscriversi che marginalmente nel filone dell'arte ambientale. E' infatti la specificità delle superfici riprodotte (le scaffalature di una libreria, il pavimento di un appartamento privato etc.) a rivelare l'esatta natura dell'attenzione dell'artista. Se nei suoi precedenti ingrandimenti questa era tutta dalla parte dell'oggetto singolo e della singolarità sempre sorprendente della sua storia di uso e manipolazione, in queste riduzioni essa è piuttosto rivolta alla singolarità degli accostamenti e della disposizione degli oggetti, al modo in cui "scarabocchiano" lo spazio che abitiamo dislocandovi i mobili e gli altri arredi. Quasi sullo sfondo di tale operazione, si percepisce infine l'inquietante stranezza dell'opera: la possibilità di vedere l'esterno dall'interno, di attraversare le pareti con lo sguardo ed osservare ciò che c'è dietro.

Scavalcato il decennio, l'"image-object" o la fotografia "oggettuale" troverà possibilità sempre più estese nelle quali declinarsi. Nel 1994, a rue Rochechouart a Parigi, Pierre Huyghe (26) presenta un lavoro "pubblico" con il quale "occupa" un grande pannello pubblicitario e che insiste in un luogo urbano e nella sua contingente specificità: un cantiere a cielo aperto dove alcuni operai al lavoro nello spazio sottostante sono stati immortalati dallo scatto fotografico di Pierre Huyghe e che fanno da pendant e da innesto all'effettiva realtà in un'immagine che è stata pubblicata a pag.199 del catalogo della prima mostra virtuale svoltasi nel 1998 e materialmente realizzatasi solo nel catalogo: cream - contemporary art in culture (27). Sembra quasi che l'immagine prescelta documenti una delle direzioni più esemplarmente significative generate dalle ricerche del decennio precedente, quelle stesse che interrogando con la fotografia l'oggettività dell'immagine concorrono a dar statuto a percorsi di natura esplicitamente oggettuale.

Il presente testo è la trascrizione di parte della conferenza svoltasi il 4 giugno 2015 nell'ambito del ciclo di lezioni “Dall’immagine fotografica all’immagine-oggetto. Il cammino inverso della fotografia”, Dottorato in Scienze storiche e dei Beni Culturali,Università degli studi della Tuscia, Viterbo, 3-4 giugno 2015.

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1) Il termine postmoderno verrà precipuamente assunto nell'accezione di una contrapposizione alle istanze del Modernismo.

2) Germano Celant, Inespressionismo americano, Genova, Bonini, 1981.

3) Germano Celant, Inespressionismo - L'arte oltre il contemporaneo, Genova, Costa & Nolan, 1988, pp. 12-13.

4) Germano Celant, Inespressionismo, Costa & Nolan, Genova, 1988, pag.18. La particolarità di questo testo con il quale Germano Celant sostiene gli artisti Inespressionisti attraversando nella sua versione definitiva esempi di tutta Europa, oltre a quelli degli Stati Uniti d’America e del nord America, risiede anche nell'adozione di uno stile di scrittura creativo, serrato, nel quale compaiono periodi molto lunghi e ininterrotti che cercano proprio di dare il senso del dinamismo dell’arte e di un recupero della funzione analitico-critica proprio in seno e corrispondentemente alle proposte degli artisti. Tra gli artisti che vengono classificati all’interno di questa tendenza Celant inserisce personalità come Reinhard Mucha, Jeff Koons, Mat Mullican, Nick Kemps, e recupera anche i concettualisti come Joseph Kosuth, Rebecca Horn, Barbara Kruger, Annette Lemieux, Robert Longo ed Ettore Spalletti. La lista è lunghissima, rientrano in questa trattazione anche Allan mcCollum, Cindy Shermann, Richard Prince, e Rosemarie Trockel. Un gruppo piuttosto eterogeneo di artisti che però, tutti operanti nel decennio degli anni ’80, rappresentano nel pensiero di Celant una forma di resistenza e di opposizione alla teoria del "mito della creazione spontanea" che in quegli anni godeva di grande proselitismo, e anche un recupero della forza analitico critica delle Avanguardie. Celant sembra non voler tener conto della cesura prodottasi tra Neoavanguardie e poetiche postmoderniste indirizzate alla uscita dalla progettualità e all'estromissione dalla ratio critica.

5) In particolare, nella sua trattazione si segnala la presenza di Sherrie Levine, Jeff Wall, Annette Lemieux, Cindy Sherman, Dim Pray.

6) Jean-François Chevrier, Image-Objet, in, "Galeries Magazine", febb.-marzo 1991, pp.76-79

7) NdA.

8) Ivi, p.76. Trad. dell'A.

9) Si pensi ad esempio alle fotografie dello studio di Nauman del 66/67.

10) Douglas Crimp, The Photographic Activity of Postmodernism, in, "October", n°15, 1980, pp.91-110

11) Jean François Chevrier/James Lingwood (a cura di), Un'altra obiettività /another objectivity ,(catalogo della mostra tenutasi al Museo d'Arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato 24/6/1989-31/8/1989), Idea Books, Milano, 1989, p.25.

12) Nel 1990 i due artisti hanno vinto il premio per la scultura alla Biennale di Venezia.

13)Hilla Becher, conversazione di Jean-François Chevrier, James Lingwoode Thomas Struth com Bernd e Hilla Becher, 21/1/1989, pubblicata in, Un'altra obiettività/Another Objectivity, catalogo della mostra, Idea Books, Milano, p.57.

14) Candida Höfer (Eberswalde, 1944) 

15) Günther Förg (Füssen, 1952 - Colombier, 2013)

16) Thomas Struth (Colonia, 1954)

17) Thomas Ruff (Zell am Harmersbach, 1958)

18) Andres Gursky (Lipsia, 1955)

19) La mostra "Ils se disent peintres, ils se disent photographes" a cura di Michel Nuridsany ebbe luogo a Parigi, all'Arc, Musée d'Art Moderne de la Ville de Paris, dal 22 novembre 1980 al 4 gennaio 1981.

20) Jean-Marc Bustamante ( Tolosa, 1952)

21) Jean-Louis Garnell (Bretagna,1954)

22) Patrick Tosani (Boissy-l'Aillerie, 1954)

23) Cfr. nota 12. Si veda anche: Dominique Baqué, Photographie plasticienne, l'extrême contemporain, Éditions du Regard, 2004.

24) Suzanne Lafont (Nîmes, 1949).

25) Cesare Pietroiusti (Roma, 1955)

26) Pierre Huyghe (Parigi, 1962)

27) Cream-Contemporary art in Culture fu una mostra virtuale svolta attraverso una tavola rotonda virtuale dal 29 gennaio al 25 febbraio 1998 in cui 10 curatori discutevano e segnalavano ciascuno 10 artisti. L'esito materiale della mostra fu il catalogo che raccoglieva i testi dei 10 curatori, di 10 scrittori e i progetti dei 100 artisti selezionati, e che venne pubblicato da Phaidon in quello stesso anno.