Il Museo di Santa Maria al Bagno e i murales di Zvi Miller

Edoardo Trisciuzzi

In virtù della sua posizione geografica, la Puglia è fin dall'antichità una meta privilegiata per i flussi migratori provenienti dai Balcani e dal Mediterraneo orientale. Le sponde che oggi accolgono gli sbarchi dei popoli in fuga dalle guerre sono le stesse che, in passato, trasmisero la civiltà ellenica in Occidente, attrassero le navi saracene, videro la magnificenza del potere bizantino e cullarono i sogni di conquista dei principi crociati. Ovviamente, nel corso dei tempi, è mutata la natura e il significato di questi spostamenti che solcano i mari Adriatico e Ionio; dalla seconda metà del secolo scorso, e in particolare negli ultimi decenni, le coste pugliesi sono diventate un primo approdo di traversate a volte così drammatiche da diventare memoria artistica, come nel caso dell'opera monumentale realizzata dal greco Costas Varotsos e donata alla città di Otranto(1).

Uno dei momenti in cui la Puglia si è maggiormente distinta nel suo ruolo di terra d'accoglienza corrisponde ai delicati anni a cavallo della fine della Seconda guerra mondiale. Dal 1943 al 1948, infatti, migliaia di profughi di guerra hanno sostato in strutture di transito allestite dagli Alleati sui litorali pugliesi, in attesa di far ritorno nei rispettivi paesi o di partire per altre destinazioni. In particolare, molto alto è stato il numero degli ebrei di varie nazionalità che, scampati ai rastrellamenti compiuti dai tedeschi in Europa o reduci dalle deportazioni nei lager, furono accolti nei campi pugliesi prima di far ritorno a casa o prender la direzione della Palestina, creando un fenomeno migratorio inverso rispetto a quelli odierni.

I campi di transito costellarono l'intero territorio pugliese e specialmente il Salento, che divenne in breve tempo l'area di maggior concentrazione di profughi di origine est-europea(2).  Creati dopo la liberazione dell'Italia meridionale, i campi furono dapprima governati dagli eserciti degli Alleati, per poi passare sotto la giurisdizione dell'UNRRA, organizzazione fondata nel novembre del 1943 a Washington dai rappresentanti di 44 paesi poi divenuti membri Onu. Si calcola che negli oltre settecento campi di accoglienza, distribuiti soprattutto tra Italia, Germania e Austria, transitarono tra 1945 e 1947 quasi sette milioni di profughi e rifugiati(3).  I profughi furono suddivisi tra refugees e Displaced Persons (DPs), categorie formate dagli Alleati per indicare i civili che, a causa di spostamenti forzati e deportazioni, non potevano rientrare nelle proprie abitazioni o che attendevano di farlo(4). Tanto i refugees quanto i DPs erano distinti dagli “indesiderabili”, stranieri (come alcuni prigionieri di guerra) «per i quali si riteneva “inopportuna un'ulteriore permanenza nel territorio nazionale a causa dei loro trascorsi”»(5). Naturalmente, gli ebrei che arrivarono in Puglia appartenevano al gruppo dei profughi regolari, insediati in attesa che si risolvesse la spinosa questione della fondazione dello Stato israeliano.

I campi furono organizzati principalmente in strutture preesistenti, come Fossoli, Lipari o Farfa Sabina, già utilizzate dal regime per internarvi prigionieri politici o razziali. Tra i centri pugliesi, un ruolo non secondario nelle politiche di deportazione fu assunto dalla Casa Rossa di Alberobello, che raccolse al proprio interno un consistente numero di individui “poco graditi”, per la maggior parte ebrei. Al pari degli altri campi di prigionia nazionali, dopo la caduta del Fascismo e la Liberazione, anche la Casa Rossa fu riutilizzata come prigione per ex gerarchi e militanti repubblichini e, in seguito, come centro di transito per i profughi(6).

Spesso, nei campi allestiti per i rifugiati negli ex lager italiani, gli ebrei si trovarono a vivere in condizioni tutt'altro che idilliache, in qualche caso addirittura non molto dissimili da quelle che avevano sopportato fino a poco tempo prima. Quasi per ironia della sorte, uno dei contesti peggiori sembra esser stato proprio il Centro Raccolta Profughi Stranieri di Fossoli (CRPS), dove, fino alla sua dismissione avvenuta nel luglio del 1947, si verificarono anche episodi di scioperi o di fuga(7).

Istituito dagli inglesi alla fine del 1943 per far fronte al grande flusso di profughi slavi e albanesi, il sito salentino di Santa Maria al Bagno (LE) non era stato un campo di internamento prima della guerra e, quindi, non possedeva strutture d'accoglienza preesistenti. Per ospitare i rifugiati balcanici –oltre ad alcuni detenuti di guerra tedeschi e austriaci– gli inglesi procedettero alla requisizione di alloggi nel territorio di Nardò, fin oltre la baia di Porto Selvaggio, cosa che non mancò di creare malumori nella popolazione locale(8). Gli ebrei cominciarono ad arrivare nella primavera del 1945 e, a parte qualche raro episodio, vissero in condizioni molto diverse rispetto a centri come Fossoli, stabilendo con gli abitanti del luogo rapporti di scambio e rispetto. L'integrazione fu rapida, come attesta la partecipazione dei ragazzi ebrei alle attività scolastiche cittadine e la creazione di due sinagoghe, all'interno di Palazzo Caputo-Vallone nella piazza centrale dell’abitato e in località Cenate(9). Dopo esser passato dalla competenza inglese a quella dell'UNRRA, il campo rimase aperto fino al luglio del 1947, allorché fu sgomberato, anche in seguito ad alcune agitazioni partite da gruppi vicini al partito sionista Betar, che miravano a sollecitare i trasferimenti verso la Palestina.

Nell'abitazione in cui si svolgevano le riunioni del Betar, il rumeno Zvi Miller(10)realizzò i tre murales oggi conservati al Museo di Santa Maria al Bagno. Tra gli anni Novanta e Duemila, le operazioni di salvaguardia delle pitture murali hanno accompagnato numerose iniziative tese a incentivare nelle istituzioni e nell'opinione pubblica l’attenzione sull'importanza della memoria storica del luogo. Una serie di appelli sulla stampa locale, tre convegni sul tema dell'accoglienza e l’impegno dell'APME (Associazione Pro Murales Ebraici in Santa Maria al Bagno, presieduta da Paolo Pisacane) hanno testimoniato il crescente interessamento per l'argomento e l'assunzione di una sempre maggior consapevolezza del proprio passato da parte della comunità locale. Nel 2005, gli sforzi sono stati premiati dal conferimento al Comune di Nardò, da parte del Presidente della Repubblica, della Medaglia d'oro al merito civile(11).

Contestualmente al recupero della memoria e al restauro dei murales, l'architetto Luca Zevi, già autore del progetto per il Museo della Shoah di Roma, ha riadattato la struttura di una scuola elementare di Santa Maria al Bagno e vi ha realizzato il Museo della Memoria e dell'Accoglienza. Inaugurato nel 2009, il Museo è ubicato nella scenografica posizione del lungomare del borgo, idealmente rivolto verso quegli orizzonti che avevano legato i destini dei profughi a quelli degli abitanti salentini. Sul fronte principale, alla rigidità del blocco strutturale preesistente si contrappongono l'asimmetria della lunga rampa d'accesso e le zip che animano la facciata (fig.1). Più chiare rispetto al tessuto sottostante, le zip sembrano rimandare, ancorché solo nella forma, alle soluzioni decostruzionistiche adottate da Daniel Libeskind per il Museo Ebraico di Berlino.

Accompagnate dalle schede descrittive sui lavori di recupero e restauro, le tre pitture murali di Miller occupano le pareti di una delle sale del Museo. Il primo dei murales (fig.2) presenta, al centro della composizione, un grande altare sorvegliato da due soldati, rappresentanti delle Brigate Ebraiche. Sull'altare campeggiano, sovrapposti, una menorah, una Stella di David e un grande sole, al cui interno una breve iscrizione in ebraico recita Tel Hay, insediamento galileo simbolo della resistenza sionista. Una seconda iscrizione, di caratteri maggiori rispetto alla precedente, adorna la base dell'altare e incita il popolo israelitico alla lotta (Al ah mismar, “In guardia”).  Nel panello centrale (fig.3), il più grande per dimensioni, una freccia che giunge al Sud Italia dai lager – simboleggiati dal filo spinato – e un flusso umano che, su un lungo ponte, riconduce il popolo ebraico attraverso il Mediterraneo e l'Egitto rappresentano la fine della diaspora dopo la Shoah (ora dentro il disco solare si legge Eretz Yisra'el). Tuttavia, il sogno non si è ancora avverato; il terzo pannello, infatti, raffigura le mura di Gerusalemme chiuse e sorvegliate dai militari britannici. L'obiettivo sionista del Betar di riappropriarsi della Terra promessa è espressa dalle parole della figura femminile rivolte al soldato di Sua Maestà (Pithu she'arim, “Aprite le porte”, fig.4). Il ciclo di Miller va letto in senso diacronico e rappresenta l'autorità dello Stato israeliano, sancito dalla Legge divina –risorta dopo la notte dello sterminio– ma ostacolato dalle potenze alleate, divenute in breve tempo da liberatrici a oppositrici dell'identità ebraica.

I lavori, realizzati da Miller molto probabilmente negli ultimi tempi dell'internamento, non si distinguono tanto per il tenore artistico quanto per il loro valore storico e documentario, come prova, all'alba della nascita di Israele, della presenza in Salento della comunità giudaica e del fermento politico che la scuoteva. Del resto, appare fuorviante la ricerca di eventuali parentele stilistiche con coeve realizzazioni di altri artisti deportati; anche se per Miller dovesse esservi stata una formazione artistica – e, al momento, non è attestata alcuna produzione precedente o successiva – è difficile immaginare un aggiornamento condotto nell'immediato dopoguerra, per di più all'interno di un campo profughi. L'opera di Miller va apprezzata per la carica inventiva e per la sua capacità di relazionarsi con la dimensione monumentale, per mezzo di un segno fortemente stilizzato e quasi di carattere infantile. A differenza di molti artisti che riuscirono anche nell'impresa di lavorare all'interno dei lager, egli non riproduce quello che vede o che ha vissuto, ma dà forma alla sua immaginazione, raffigurando la speranza e gli aneliti di un intero popolo. Quasi in anticipo sulla Graffiti Art, Miller adopera un linguaggio di grande intensità e immediatezza, in cui la parola e l’immagine convivono per veicolare un contenuto impegnato e legato, al contempo, alla storia e all'attualità. Al pari dei tanti lavori compiuti nelle difficili condizioni della persecuzione e del concentramento, i murales di Zvi Miller entrano così di diritto, per il loro alto valore testamentario, nel panorama dell'arte della memoria.

La vicenda personale dello stesso Miller –che sposò una giovane donna del luogo, con cui emigrò in Palestina dopo la chiusura del campo– è rappresentativa dei profondi legami che furono stretti tra gli abitanti di una comunità del Basso Salento e gli ospiti ebrei, raccontati nelle immagini esposte in un'altra sala. Esprimendo, in maniera chiara e didascalica, il valore sincero dell'accoglienza e della pacifica convivenza che si stabilì tra i due popoli, il Museo di Santa Maria al Bagno segue pienamente l'indirizzo tracciato da Paolo Coen (12), ossia non fungere solo da contenitore, ma esser a sua volta memoria e contribuire a suscitare nel visitatore una reazione emotiva.

 

1)Si tratta della nave Kater I Rades, trasformata in monumento da Varotsos in occasione del ventennale dello sbarco degli albanesi sulle coste pugliesi. Cfr. M. Ventrella, «Anniversario dello sbarco albanese. Otranto erige un monumento ai migranti», in Il Corriere del Mezzogiorno, 25 gennaio 2012.

2)Cfr. V. A. Leuzzi, «Occupazione alleata, ex internati e profughi stranieri in Puglia», in Terra di frontiera. Profughi ed ex internati in Puglia 1943-1954, a cura di Id. e G. Esposito, Progedit, Bari 1998, pp. 19-29.

3)Cfr. C. Di Sante, Stranieri indesiderabili. Il Campo di Fossoli e i “centri raccolta profughi” in Italia (1945-1970), Ombre Corte, Verona 2011, p. 36.

4)Ivi, p. 39.

5)C. Di Sante, Stranieri indesiderabili. Il Campo di Fossoli e i “centri raccolta profughi” in Italia (1945-1970), op. cit., p. 41

6)La Casa Rossa di Alberobello (Masseria Gigante) era stata fino al 1939 una prestigiosa Scuola Tecnica Agraria, prima di esser trasformata dal regime in campo di internamento per prigionieri stranieri civili, soprattutto ebrei. Gli ebrei italiani arrivarono, insieme a detenuti di origine slava, dalla seconda metà del 1942, per restarvi fino al settembre del 1943. Dopo la caduta del Fascismo, il campo diventò Colonia di confino politico e rimase attivo fino al 1949, allorché venne definitivamente smantellato. Cfr. F. Terzulli, La Casa Rossa. Un campo di concentramento ad Alberobello, Mursia, Milano 2003, pp. 25-112.

7)Particolarmente interessante si presenta la lettura di un rapporto di Alexander Theodore Szneiberg, rappresentante dell'Organizzazione dei rifugiati ebrei in Italia che, in seguito a una visita nel Centro, pur non denotando episodi di punizioni corporali o lavoro obbligatorio, indicava una pessima situazione di vitto e igiene. Cfr. C. Di Sante, Stranieri indesiderabili. Il Campo di Fossoli e i “centri raccolta profughi” in Italia (1945-1970), op. cit., pp. 51-60.

8)Cfr. M. Mennonna, Ebrei a Nardò. Campo profughi n. 34 – Santa Maria al Bagno (1944-1947), Congedo Editore, Martina Franca 2008, pp. 13-14.

9)Ibidem, pp. 31-36.

10)Sulla nazionalità rumena di Miller concorda tutta l'esigua letteratura sul tema, a esclusione di Leuzzi che ne attesta origini polacche. Cfr. V. A. Leuzzi, «Occupazione alleata, ex internati e profughi stranieri in Puglia», in Terra di frontiera. Profughi ed ex internati in Puglia 1943-1954, op. cit., p. 21.

11)Cfr. M. Mennonna, Ebrei a Nardò. Campo profughi n. 34 – Santa Maria al Bagno (1944-1947), op. cit., pp. 45-48. Tra gli articoli giornalistici, cfr. F. De Pace, «Quei murales degli ebrei rischiano di scomparire2, in La Gazzetta del Mezzogiorno, 4 febbraio 1996. In ambito locale, si segnala anche V. Zacchino, «I murales degli ebrei», in Sancta Maria de Balneo, a cura di Id., Ediz. Pro Loco, S. Maria al Bagno 1993.

12)Cfr. P. Coen, «Stiamo o non stiamo camminando sulla nostra ombra? Per una museologia della Shoah», in La Memoria e la Storia, Atti del Convegno (Arcavacata di Rende, 26 gennaio 2007) a cura di Id. e G. Violini, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, pp. 122-131.