Il Mausoleo delle Fosse Ardeatine e Arteinmemoria

Edoardo Trisciuzzi

Il senso profondo di una ricorrenza storica non è semplicemente quello di ricordare un avvenimento, ma fare in modo che esso trasmetta un insegnamento, impedisca l’incombere della dimenticanza e, a volte, segnali un monito. Tra la fine di gennaio e di marzo, si celebra il ricordo dell’apertura dei cancelli di Auschwitz e della strage delle Fosse Ardeatine, avvenimenti fondamentali legati alle vicende della Seconda guerra mondiale. Le celebrazioni, che annualmente omaggiano i due eventi, hanno il compito di mantenerne viva la fiamma della memoria, ancor più in una fase in cui, seppur in forme e con modalità diverse, alcuni fantasmi del passato sembrano voler riapparire. Il Mausoleo delle Fosse Ardeatine e la rassegna Arteinmemoria, a pochi chilometri di distanza l’uno dall’altra, evidenziano come le manifestazioni artistiche svolgano un ruolo decisivo per fare in modo che le ferite del passato diventino antidoti per le generazioni future.
Come ogni anno, anche lo scorso 24 marzo sul piazzale del Mausoleo delle Fosse Ardeatine di Roma una voce ha scandito i nomi delle 335 vittime dell’eccidio. Si è così commemorato il settantatreesimo anniversario di una delle pagine più tristi della storia recente (e non) italiana, strage compiuta dagli occupanti tedeschi contro la resistenza partigiana. Costruito nel sito stesso del tragico evento –nelle cave di pozzolana tra la via Ardeatina e via delle Sette Chiese– il Mausoleo onora profondamente il ricordo dei martiri e si qualifica, in assoluto, come uno dei più importanti luoghi della memoria della barbarie nazi-fascista.
Si è discusso molto sulla natura della strage, che è stata a lungo considerata una rappresaglia dell’attentato dinamitardo di via Rasella, compiuto il 23 marzo 1944 dal Gruppo di azione patriottica ai danni di un battaglione annesso all’esercito tedesco. In realtà, la consequenzialità tra attacco e reazione è solo un modo per “giustificare” un atto criminale, come dimostra il fatto che l’ordine –partito personalmente da Hitler– sia eseguito immediatamente e che agli autori dell’attentato non venga concesso alcun margine di tempo per uscire allo scoperto. Infatti, il giorno seguente, con l’aiuto della polizia fascista, le SS rastrellano i condannati (tra cui 57 ebrei) dal quartier generale della Gestapo, dalle prigioni romane o dalle proprie case e li conducono sul luogo del massacro. Dopo aver terminato l’opera, gli ufficiali Herbert Kappler ed Erich Priebke ordinano di far esplodere il sito delle Cave, affinché l’accesso sia interdetto e i cadaveri definitivamente occultati. Nei piani dei tedeschi l’esecuzione deve rimanere segreta e viene comunicata ai familiari delle vittime solo alcuni giorni dopo(1).
L’idea di erigere un monumento alla memoria dei martiri si concretizza subito dopo la Liberazione e, sotto la spinta di associazioni come l’Anfim (Associazione nazionale tra le famiglie italiane dei martiri caduti per la libertà della patria), diventa un impegno centrale per il governo. Il concorso bandito per la realizzazione del memoriale comprende la costruzione di un sacrario, la sistemazione del piazzale antistante le cave e il consolidamento delle gallerie. La giuria decreta vincitori ex aequo i progetti del gruppo Risorgere, comprendente l’architetto Mario Fiorentino e lo scultore Francesco Coccia, e quello di UGA (Unione Giovani Architetti), guidato da Giuseppe Perugini. Tuttavia, entrambi i progetti incontrano l’opposizione di una parte delle famiglie delle vittime, poiché prevedono una separazione del luogo dell’eccidio dalle tombe. Il percorso subisce quindi dei rallentamenti e trova compimento solo nel novembre del 1947, quando viene scelto il progetto definitivo, frutto della collaborazione tra i due gruppi vincitori(2).
L’esito è un memoriale di grande intensità emotiva, caratterizzato non da eccessi retorici ma da un’armoniosa sintesi tra interno ed esterno, intervento antropico e luogo naturale, architettura e arti visive (fig.1). Oltre il piazzale d’ingresso, il complesso si suddivide tra il percorso ipogeico, il sacrario delle 335 sepolture –scavato poco sotto il livello del suolo e ricoperto da una grande piattaforma di cemento– e il centro documentario, senza però che questo comporti una cesura tra gli ambienti. Le grotte, infatti, sono collegate alle deposizioni da un doppio percorso, che abbraccia la collina e sale fino alla sua sommità o ritorna sul piazzale d’ingresso. Il dialogo tra spazi aperti e chiusi, alimentato dall’efficace intervento della luce – che nelle gallerie piove dalle voragini causate dalle esplosioni naziste, mentre nel sacrario filtra dalle fenditure al di sotto del masso– accompagna il visitatore lungo un percorso continuo e privo di un vero e proprio acme. In questo senso, il Memoriale delle Fosse Ardeatine è un luogo da percorrere più che da osservare passivamente, in cui «le emergenze, naturali, architettoniche e artistiche, non sono infatti stazioni d’arrivo, ma tappe intermedie di un circuito continuo»(3).
Il confronto dialogico riguarda anche la zona d’ingresso, dove sono collocate la grande scultura di travertino di Francesco Coccia e la cancellata di Mirko Basaldella. La scultura di Coccia raffigura tre personaggi con le mani legate dietro la schiena e, pur nella sua indubbia carica enfatica, è solo in apparenza in disarmonia con il contesto. Infatti, la sua verticalità da un lato bilancia la corsa longitudinale della copertura di cemento e, dall’altro, funge da congiunzione per l’intero complesso, poiché le tre figure dolenti guardano nella triplice direzione del sacrario, delle cave e del piazzale. L’austerità dell’opera di Coccia è il perfetto contrappunto al tagliente dinamismo della sottostante cancellata bronzea di Mirko. Aggregatosi al gruppo UGA, lo scultore esprime nei cancelli realizzati per il memoriale il vertice di quell’odium fati (4) e delle inquietudini rivolte alla storia che contraddistinguono la sua opera fin dagli inizi.
Oltre a quello d’ingresso, Mirko realizza anche due cancelli all’interno delle gallerie, in prossimità del punto del massacro. Ma è quello principale a sollevare più difficoltà in quanto, dopo un primo abbozzo figurativo, di concerto con gli architetti l’artista abbandona qualsiasi realismo descrittivo e sceglie un linguaggio più astratto(5). Tuttavia, una parte della critica e delle istituzioni coinvolte contesta apertamente la proposta dello scultore e il progetto viene accolto solo nel marzo del 1950, grazie anche alla difesa di critici autorevoli come Lionello Venturi e Giulio Carlo Argan, che in esso scorge «quanto di meglio oggi si può raggiungere da chi, non volendo accedere a una mera e fredda geometricità di forme costruttive, voglia da forme figurative esprimere un senso di solennità e di poesia»(6).
Mirko sceglie una soluzione aniconica per la cancellata non solo per una motivazione pratica, ma soprattutto perché è convinto che sia impossibile dare un volto riconoscibile a un dramma come quello dell’eccidio. Attraverso un complesso sistema simbolico, l’astrazione permette di collocare il messaggio dell’opera fuori dal tempo e, insieme, nel presente tragico della storia. Grazie anche alla traforazione, Mirko destruttura il codice iconico e ricerca un nuovo sistema di segni e dimensioni, in un procedimento che intende «conservare personaggi e cose, ma riducendoli a semplici indicazioni di dimensioni nello spazio: avanti, indietro, lunghezza, movimento»(7). Un reticolato affilato e nervoso, in cui le teste delle vittime diventano piccoli tondi e i corpi sagome piegate e contorte, esprime infatti l’intento dell’artista a «ridurre l’iconicità alla materia e non la materia all’iconicità»(8) (fig.2). Il movimento vorticoso delle lame bronzee è bilanciato da una composizione equilibratissima e dalla calibrata corrispondenza tra pieni e vuoti, memore de L’ossario di Picasso e delle ricerche spazialiste, ma anche di un aggiornamento condotto sull’Espressionismo astratto e sull’Informel.
Gli stessi caratteri espressivi contrassegnano anche i due cancelli minori all’interno delle grotte, ma in un tono meno concitato e più lirico. Il dinamismo gestuale della cancellata principale si stempera in una ramificazione più compassata e spigolosa, senza che ne sia attenuata la componente spirituale ed emozionale (fig.3). Mirko non suggerisce allo spettatore un ricordo o un’immagine, ma lo invita a riflettere e a rivivere il dramma storico attraverso un complesso palinsesto archetipico. Allo stesso modo del cancello di ingresso, quelli minori esprimono il senso di sgomento provocato da un massacro di innocenti e, in tal modo, evocano l’urlo lanciato dieci anni prima da Guernica:
L’eccidio nazista acquista dunque la dimensione di un antico fato, echeggia in un tempo sconfinato – ma immaginativamente come storico – si illumina di un’epica non circostanziale, bensì appunto mitica, entra nella nostra coscienza nella sua dimensione, anziché cronachistica di coscienza storica, nel senso più estensivo, legandosi cioè al passato, e trovando nel passato echi altrettanto tragici, di terrori, eroismi, disperazioni, parimenti patite e consumate(9).
L’unicità della strage delle Fosse Ardeatine deriva dal fatto di esser stata perpetrata nel cuore di una grande città e di aver colpito, indistintamente e trasversalmente, l’identità romana del tempo. Un memoriale contribuisce a ricomporre la “frattura di civiltà” epocale causata dall’Olocausto e dalla Seconda guerra mondiale non solo quando viene costruito nel luogo stesso dei crimini ma, soprattutto, se riflette la vita corrente delle comunità che lì hanno vissuto e vivono. Il Mausoleo Ardeatino è un fondamentale lieu de mémoire, poiché consente di attualizzare costantemente la storia e il ricordo e rappresenta quei «punti fissi, sui quali vari gruppi identitari possono proiettare simboli condivisi in modo da rafforzare le proprie concezioni di orgoglio collettivo, di eredità comune, di potere e di sé»(10).
Qualche settimana prima, il 22 gennaio 2017, nell’area della Sinagoga della città romana di Ostia Antica, si è inaugurata la nona edizione di Arteinmemoria, rassegna internazionale di arte contemporanea curata da Adachiara Zevi. A cadenza biennale, in prossimità della Giornata della Memoria, la curatrice invita alcuni artisti a realizzare interventi site specific che indaghino il luogo e il tema del ricordo dell’Olocausto.
Arteinmemoria trae spunto da Synagoge Stommeln, un’iniziativa promossa nell’omonimo sobborgo della città tedesca di Pulheim dove, dal 1991, ogni anno un artista è chiamato a realizzare un lavoro pensato per la Sinagoga, tra le poche salvatesi in Germania durante il regime nazista. La Sinagoga di Stommeln risale alla fine dell’Ottocento e resiste ai pogrom perché già nel 1930, in seguito all’abbandono della città da parte dell’intera comunità ebraica, viene venduta a un agricoltore. A quarant’anni dalla fine della guerra, la volontà di fare i conti con il passato risveglia nella cittadinanza di Pulheim l’interesse per la Sinagoga, che viene restaurata e inaugurata nuovamente nel 1983, a cent’anni dalla fondazione. Lungi dall’essere solo una testimonianza del passato, la Sinagoga ha il compito di intersecare arte e vita e di diventare un «punto d'intersezione fra passato e futuro, scuola di memoria, punto di partenza per la speranza, latore di responsabilità»(11).
Gli artisti sono chiamati a interpretarne i caratteri di vuoto e di assenza e, attraverso un dialogo con le forme e la luce, a trasformarli in strumenti conoscitivi contro l’oblio. Tra gli artisti chiamati a Stommeln, nel corso degli anni, spiccano i nomi di Jannis Kounellis, Carl Andre, Richard Serra, Giuseppe Penone e, più recentemente, Daniel Buren e Tony Cragg. I progetti riflettono sull’identità ebreo-tedesca e sulla relazione del luogo con il tempo, come l’“innesto” tra passato e presente creato da Kounellis – primo degli artisti a partecipare – un’installazione composta da tre pilastri lignei congiunti, per mezzo di altrettante pietre, al soffitto della Sinagoga. Georg Baselitz esegue una gamba di legno giallo (Das Bein, 1993) che, mutilata e frammentaria, catalizza il vuoto dell’ambiente e della storia della comunità locale (fig.4). Refraction House di Misha Kuball (1994), invece, è un fascio luminoso che si sprigiona dallo spazio interno e irradia i dintorni della Sinagoga. La luce proiettata da Kuball «appartiene a un periodo diverso, è l’urlo muto di un passato che ci raggiunge solo oggi»(12) e illumina un conflitto identitario irrisolto, come dimostra l’intolleranza verso le minoranze ancora viva nella Germania attuale.
L’alto valore storico della Sinagoga di Ostia –situata lungo la via Severiana, ai margini del parco archeologico verso il litorale– deriva dal fatto di essere la più antica d’Occidente. Costruita nel 70 d. C. e ingrandita nei due secoli successivi, è il primo tempio della diaspora e testimonia la vivace presenza della comunità ebraica nel sistema sociale della Roma imperiale. La struttura architettonica è formata da quattro colonne che dividono gli avancorpi dallo spazio rituale, dove sono ancora visibili l’altare e l’edicola semicircolare per la custodia dei rotoli della Torah (fig. 5). La presenza di ambienti come la cisterna, la fornace e di banconi, indica come la Sinagoga fosse non solo un luogo di culto e di studio, ma anche centro di scambio e di accoglienza.
Il progetto di Ostia Antica discende direttamente da quello di Stommeln poiché, pur nella diversità del contesto, intende esprimere le stesse condizioni di insicurezza e precarietà, prerogative specifiche dell’identità ebraica e dell’arte contemporanea(13). Del resto, la scelta di un sito archeologico deriva dall’intenzione di sottolineare il ruolo primario, nella tradizione giudaica, dalla memoria “invisibile” rispetto alla storia scritta e al monumento. Un luogo di reperti e di stratificazioni rimanda alla frantumazione delle Tavole della Legge e rappresenta la tradizione orale, che trasforma il ricordo in memoria viva e parte di una cultura dinamica. Il principio ebraico che vede nella “rovina” il più sacro dei luoghi e l’immagine manifesta di un Tempio spirituale sembra legarsi, in Arteinmemoria, al concetto di Eternità delle rovine individuato da Salvatore Settis:
Secondo la tradizione occidentale, le rovine segnalano al tempo stesso un’assenza e una presenza: mostrano, anzi sono, un’intersezione tra il visibile e l’invisibile. Ciò che è invisibile (o assente) è messo in risalto dalla frammentazione delle rovine, dal loro carattere “inutile” e talvolta incomprensibile, dalla loro perdita di funzionalità (o almeno di quella originaria). Ma la loro ostinata presenza visibile testimonia, al di là della perdita di valore s’uso, la durata, e anzi l’eternità, delle rovine, la loro vittoria sullo scorrere irreparabile del tempo!(14).
Gli artisti scelti sono chiamati a indagare questo confine tra visibile e invisibile e a descrivere il valore perpetuo della frammentazione. Sol LeWitt, invitato nel 2002, in Untitled ricostruisce l’abside dove erano conservati i Rotoli della Legge, in una forma identica ma con un colore diverso e materiali moderni. La rigida modularità minimalista dei blocchi costruttivi è contraddetta dalla forma curva della scultura, che si sovrappone visivamente alla nicchia preesistente. L’absidiola di Lewitt evoca un senso di assenza poiché, decontestualizzata al di fuori del perimetro della Sinagoga, perde del tutto la sua natura e la sua funzionalità. L’opera è stata donata dall’artista ed è oggi parte integrante del paesaggio dello scavo (fig. 6).
Nella stessa edizione espongono anche Fabio Mauri, Jannis Kounellis e Giulio Paolini. Con La resa, una bandiera bianca issata davanti all’ingresso della Sinagoga, Mauri rinnova quella sospensione del giudizio, tante volte espressa dalla scritta The End vergata sui suoi schermi. La bandiera bianca spunta dalle barricate di una “guerriglia” non bellicosa, ma intesa come «potenza seduttiva in cui la natura dei percorsi e la qualità delle congiunzioni diventa la cosa più importante»(15). Kounellis lavora sul concetto di presenza e installa, all’interno del luogo di culto, una grande voliera a tre piani popolata da uccelli vivi, evidente richiamo al pappagallo sul trespolo esibito nel 1967. Nell’ambiente adiacente, in un’area di sessanta metri quadri, Paolini dissemina sul pavimento sessanta frammenti, corrispondenti ai minuti di un’ora. Rovine sulle rovine, i frammenti sono ispirati all’enigmaticità metafisica e indagano l’incognita e il passaggio del tempo, anche attraverso l’iscrizione sulla superficie di testi “a memoria”, destinati a svanire durante il corso della manifestazione (16).
Negli anni successivi, a conclusione delle diverse rassegne altri artisti donano le loro opere, come le 21 colonne di mattoni realizzate dal portoghese Pedro Cabrita Reis nel 2005, le monete sparpagliate nel sito da Lawrence Weiner nel 2007 (Ignoti Nulla Cupido) o Stella polare di Liliana Moro nel 2011. In occasione di Arteinmemoria 6, Moro colloca un palo di luce perennemente acceso all’interno dell’area della Sinagoga, emblema della centralità del luogo e di una presenza costante e discreta della memoria. Nella stessa edizione partecipano Giuseppe Penone con Spazio di Luce, Richard Long con A Line of 682 Stones e Jochen Gerz con Noi e loro. L’opera di Gerz rientra nell’ambito dei suoi interventi a scomparsa ed è composta da 82 targhette che, disseminate nel campo che separa l’area sinagogale dal resto del parco archeologico, recano i nomi di alcuni cittadini di Ostia prelevati a caso dall’elenco telefonico (fig.7). I nomi rappresentano persone vive, che né l’artista né il visitatore conoscono ma che sono invitate a un dialogo, in «un’opera che non è eterna come un monumento ma temporanea e reversibile come un incontro»(17). Effimero come un ricordo, il lavoro tende a scomparire nel tempo, sommerso dalla progressiva ricrescita dell’erba del campo. Nel 2013, l’ebreo americano di origine irachena Michael Rakowitz dona ad Arteinmemoria una Gheniza, ossia un archivio di frammenti di Torah, libri di preghiere e accessori liturgici, che sotterra nei pressi della Sinagoga. L’intervento di seppellimento, inverso rispetto all’azione di scavo stratigrafico, implica una conservazione della sua cultura e della duplice identità arabo-ebraica, minata dal passaggio temporale e minacciata dalla persecuzione e dalla guerra. Nella stessa edizione, il giapponese Hidetoshi Nagasawa erige un monumento formato da tre colonne triangolari che, tagliate ad altezze diverse, formano un andamento rotatorio che disegna una stella di Davide.
I protagonisti di Arteinmemoria 9 sono Luca Vitone, Sara Enrico, Alen Schlesinger e Horst Hoheisel. La biellese Enrico, con Mirroring, lavora sul concetto di superficie e mette in relazione i motivi effimeri di due tessuti con le decorazioni musive delle aule destinate alle abluzioni. Vitone richiama direttamente le Scritture e ne Le cinque pietre di Davide colloca cinque sassi sotto un ombrello, riferimento alla tradizione ebraica che, come la memoria, resiste solo se adeguatamente protetta (fig.8). Schlesinger omaggia gli Stolpersteine, i sampietrini rivestiti di ottone che, fin dal 1995, il tedesco Gunter Demnig depone davanti alle abitazioni originarie dei deportati politici, razziali e militari nei lager nazisti. Ma le Pietre d’inciampo di Schlesinger sono quasi l’antitesi di quelle di Demnig, poiché non si radicano in nessun luogo specifico, non sono interrate e, «mute e alienate, sono “pietre senza luogo”, pronte ad accogliere altri nomi e a viaggiare altrove»(18). Horst Hoheisel, infine, in Felt Stones intraprende un vero e proprio intervento di restauro conservativo di alcune murature dell’area sinagogale. Il lavoro di Hoheisel è spesso incentrato sul tema della memoria, come dimostrano la sua partecipazione al concorso per il Memoriale all’Olocausto di Berlino – dove propone una provocatoria distruzione della Porta di Brandeburgo – o la ricostruzione contro-monumentale della fontana Aschrott di Kassel del 1987. A Ostia Antica, l’artista promuove e partecipa al consolidamento murario della scalinata accanto al pozzo romano, in un’opera “chirurgica” che, al contempo, salvaguardi la struttura e consenta la registrazione della memoria del luogo. Del resto, costantemente volto a rinverdire la memoria e a sanarne i traumi, il lavoro di Hoheisel agisce lì «dove i nostri pensieri possono esser trascinati nelle profondità della storia, dove forse incontreremo sentori di smarrimento, di un luogo disturbato, di una forma perduta»(19).
1)Cfr. A. Zevi, Monumenti per difetto. Dalle Fosse Ardeatine alle pietre d'inciampo, Donzelli, Roma 2014, pp. 9-10. Della stessa autrice cfr. anche «Fosse Ardeatine», Roma, n. 69 di Universale di Architettura, testo&immagine, Torino 2000. Una buona fonte di informazioni è il sito ufficiale del Mausoleo, www.mausoleofosseardeatine.it.

aprile 2017


2)Cfr. A. Zevi, Monumenti per difetto. Dalle Fosse Ardeatine alle pietre d'inciampo, cit., p. 14.
3)A. Zevi, Monumenti per difetto. Dalle Fosse Ardeatine alle pietre d'inciampo, cit., p. 15.
4)Cfr. M. De Micheli, La scultura italiana del Novecento, UTET, Torino 1981, pp. 135-36.
5)Cfr. C. Maltese, Mirko. Cancelli delle Fosse Ardeatine, a cura di Id., Accademia Editrice, Roma 1968, pp. 19-20.
6)C. G. Argan in, C. Maltese in, Mirko. Cancelli delle Fosse Ardeatine, cit., p. 19.
7)C. Maltese in, Mirko. Cancelli delle Fosse Ardeatine, cit., p. 15.
8)Ivi, p. 16.
9)E. Crispolti, La scultura di Mirko, Bora, Bologna 1974, p. 90.
10)S. Milton in S. Totten, «Memoriali», voce dal Dizionario dell’Olocausto, tomo M-Z, a cura di W. Laqueur, Gruppo Editoriale l’Espresso S.p.A., Roma 2012, p. 454.
11)M. Scheps, «La Sinagoga di Stommeln. Progetti artistici dal 1990 al 2000«, in Arteinmemoria, catalogo della mostra (Scavi di Ostia, Centrale Montemartini di Roma, ottobre-novembre 2002) a cura di A. Zevi., Incontri internazionali d’arte, Roma 2002, p. 115. Per approfondire, cfr. anche il sito www.synagoge-stommeln.de.
12)Ivi, p. 125
13)Cfr. A. Zevi, «Una memoria “storicamente scorretta”», in, Arteinmemoria, cit., p. 50.
14)S. Settis, Futuro del ‘classico’, Einaudi, Torino 2004, p. 85.
15)F. Alfano Miglietti, «Fabio Mauri. La memoria come guerriglia», in, D’Ars, 34.1992/93, 138, p. 35.
16)Cfr. A. Zevi, «Una memoria “storicamente scorretta"», in Arteinmemoria, cit., pp. 64-
17)A. Zevi, Monumenti per difetto. Dalle Fosse Ardeatine alle pietre d'inciampo, cit., p. 85.
18)Citazione dal testo del pieghevole di presentazione di Arteinmemoria 9.
19)H. Hoheisel in J. E. Young, At Memory’s Edge: After-Image of the Holocaust in Contemporary Art and Architecture, Yale University Press, New Haven 2000, p. 100.