Domenico Scudero

Ci sono incontri che ti cambiano la vita. Ci sono persone che ti cambiano la vita. Maestri, intendo. Per me lo sono stati, ad esempio, Fabio Mauri, Sergio Lombardo, Carla Accardi. E Dmitri Prigov. Anche molti altri, sempre più giovani, con i quali però è difficile poter vivere la fascinazione della rivelazione. Con i maestri italiani è sempre stato molto confortevole trovare conferme: Fabio Mauri aveva un suo modo di accoglierti e sostenerti quasi religiosamente; con Sergio Lombardo era la certezza di un rapporto paritario, con Carla Accardi la gioia di riconoscere la felicità della pittura, ma con Prigov è stata una visione bruciante, dolorosa. Dmitri Prigov mi ha fatto conoscere la forza dell'arte, la sua ostinazione. Insieme abbiamo lavorato alla sua mostra. Io confesso, lo conoscevo più come artista figurativo che come poeta regista.
Un sera di novembre di un anno dei primi duemila me ne stavo immerso ad osservare le sbavature acquose che la pioggia sottile provocava nei contorni della piazza in cui mi piace stare, appena ne ho il tempo, Campo de' Fiori. Erano le sette, circa, di quella sera. Al mattino al museo dove lavoravo era passato un artista russo, Dmitri Prigov. E io pensavo a quale assurdo destino avesse portato nel mio studio quello stranissimo artista della più spericolata avanguardia, del dissenso politico russo. Mi capitava d'essere impegnato, c'eravamo salutati e poco altro. Alla fine del lavoro me ne stavo quindi seduto ad un tavolo dello Sloppy Sam, un pub molto accogliente e adesso sparito. Avevo sorseggiato la mia birra immerso nei programmi da fare e solo quando il mio bicchiere era quasi vuoto ho iniziato a fissare una figura d'uomo. Da quella postazione può dominarsi l'intera piazza e di tipi strampalati se ne trovano a dozzine. Ma costui era un'ombra, un'ombra immobile. Aveva un profilo evanescente nell'aria umida, ma soprattutto aveva occupato un particolare posto al centro della piazza, assolutamente buio. Un'altra stranezza era costituita dal fatto che costui dal volto nascosto dall'oscurità fissava un punto esattamente opposto a quello della statua nera di Giordano Bruno, un punto in cui sembrava non esserci nulla a parte l'innesto della via dei Giubbonari. Andai a curiosare pensando a Gregory Corso. Tornai indietro verso via dei Giubbonari, poi riandai verso la statua.
Quando mi avvicinai, trovai Prigov. Sembrava assorto, molto più di me che lo scrutavo. Lo riconobbi, e anche lui lo fece. Mi disse che quello era un bel posto per comprendere Roma. E mi parlò, forse pensando anch'egli a Gregory Corso, di come si sentisse, purtroppo, aggiunse, poeta. A me sembrò strano sulle prime. Pensai anche che parlando entrambi un inglese poco oxfordiano avessimo degli impacci comunicativi, ma invece ci si capiva molto francamente. Mi spiegò poi: “In Russia mi accettano soprattutto come poeta e tutto il resto non viene preso in considerazione, mentre all’Ovest sono ritenuto principalmente un artista visivo e la mia produzione letteraria non è conosciuta perché ci sono problemi di traduzione.” (1)
Dmitri Prigov infatti era, e lo è anche di più adesso, molto noto nei paesi di area russa come poeta. La cosa strana è che anche parlare degli atteggiamenti comuni nel mondo accademico della poesia lo annoiava. Era riuscito a fare una deviazione a Roma per un paio di giorni grazie ad un invito che aveva ricevuto da non so quale associazione europea, dove sarebbe andato il giorno successivo, ma nel frattempo risiedeva a Londra. Ci mettemmo d'accordo sulle date di una sua mostra, era felice, diceva, di poter lavorare in un posto dove si formavano i giovani curatori e gli artisti di domani. (2)
Il giorno del montaggio si presentò al mattino alle nove. Aveva voluto allestire di sabato, “quando molti sono in vacanza ma le cose in parte funzionano” disse. Poi mi portò a cercare i materiali per costruire la sua installazione. Mi mostrò il suo progetto. Era un disegno ad inchiostro nero. Mi chiese quanto c'era in cassa. Gli dissi, venti euro, erano gli unici che custodivo nel portafoglio. Lui si accarezzava la testa, con un suo gesto tipico. Mi disse che andavano bene e che avremmo dovuto cercare delle “cose” in cartoleria. Andammo verso il quartiere di San Lorenzo, quasi deserto. C'era una merceria aperta. Prigov comperò una ventina di metri di tessuto nero, credo lo pagammo nove euro, ma forse anche qualcosa in più. In cartoleria prese una corda, un pigmento nero, due tute di carta e due pennelli. Poi ce ne tornammo in sala. Le foto parlano da sole. Nella più completa solitudine, e con una somma di venti euro Prigov realizzò la sua opera così come l'aveva disegnata in uno dei bozzetti preparatori (Fig1).
Ovvio, sono cose che ti fanno rimanere di sasso: c'erano nel frattempo alcune richieste paradossali avanzate da artisti misconosciuti che mi facevano comprendere come a volte la verità fosse semplice. Dmitri Prigov, uno dei più grandi poeti russi, uno dei più severi architetti dell'avanguardia del dissenso, un artista che aveva subito persecuzioni orripilanti, gulag, lavaggi del cervello e molti elettroshock era un uomo semplice, non avrebbe mai preteso le cose che mi venivano richieste con fare sprezzante da qualche poco di buono autoproclamatosi artista. Conoscendo Dmiti Prigov mi sono definitivamente convinto che la grandezza di un artista si misura con la sua capacità di non creare problemi. Prigov aveva subito vessazione e angherie talmente grandi dal mondo che di certo sapeva bene che creare problemi di puntiglio era una perdita di credibilità; me lo disse annuendo sgomento, aveva vissuto esperienze inimmaginabili. Registrammo una lunga intervista in cui mi parlava dei suoi rapporti col potere, con lo stato, con la ricerca e l'arte (3). Mi disse anche: non so come sia possibile che io riesca ancora a pensare. Ed era vero. In alcuni momenti faceva paura, tanto era forte la sua concentrazione lì dove stava. Gli studenti che ci aiutarono nelle ultime fasi di montaggio, solo le ultime perché Prigov preferiva stare da solo nelle fasi progettuali e preparative, ne erano intimoriti. Non era una persona rassicurante, sembrava molto severo, ma anche imprevedibile e questo naturalmente non facilitava la confidenza. Quando ci fu l'inaugurazione della mostra se ne rimase per buona parte del tempo nello studio a scrivere le sue poesie, perché l'indomani doveva leggerle e lui viaggiava sempre senza bagaglio, senza libri, e le poesie preferiva crearle. Oppure disegnava su fogli A4 e con delle biro che consumava a velocità estrema. Parecchi disegni di quelli che aveva disegnato le sere prima, erano circa quaranta, furono esposti in una semplicissima forma appuntandoli sul muro.
Fu comunque un'amicizia nata e subito finita. Doveva ritornare ma morì stroncato dalla fatica di una performance in cui si era obbligato ad essere trasportato dentro un armadio su e giù per le scale dell'università a Mosca, la sua città.
Quando penso a Dmitri Prigov penso comunque al poeta dell'arte. Certo le sue installazioni erano portentose e davvero era un maestro in questo, strutturatosi virtuosamente nella penuria materiale della CCCP. Ma il suo esser poeta era qualcosa di più profondo e, forse, tutta la sua opera è stata la poesia. La poesia era il messaggio che attraversava le sue più complesse installazioni, ma anche le sue molte performance, la maggior parte delle quali documentate soltanto da rari frammenti video d'epoca. Come poeta era sofferto ma anche immediato: se avesse potuto godere di un minimo sostegno economico sarebbe stato quasi un poeta della beat generation sovietica, ma era legato a doppio filo con la glasnost e la perestroika, di cui era stato precursore. Era solitario come alcuni artisti della body art, ma sapeva anche leggere concettualmente un'opera. D'altra parte come sarebbe potuto essere un poeta non concettuale? Ma la sua concettualità prevedeva l'uso abbondante dell'oggetto. Era un oggetto comune, la carta dei giornali, lo spago, la stoffa, un manifesto, un cartone. Nelle idee diventavano opere, opere che tendevano all'elevazione del sé. I due quadri che aveva dipinto e poi nascosto dietro un telo nero, erano neri anch'essi. Erano Leonardo e Malevic, non si distinguevano l'uno dall'altro. Erano uguali. Densi come macchie nere, colmi di segni, minimi nell'aspetto ma spessi di significato, e alla fine bellissimi, incompresi e adesso finiti chissà dove. Il concetto di uguaglianza per Dmitri Prigov era essenziale, consisteva nell'esserci consenziente. Così, infatti, mi diceva di meravigliarsi di riuscire ancora a pensare, perché per anni lo avevano curato per quel suo difetto, ovvero di voler pensare. I suoi frammenti poetici erano raccolti in un piccolo quaderno block notes dove annotava in fretta. “Mantengo ogni attività giornalmente: almeno un paio di poesie al giorno, dieci bozzetti di disegni, senza orari prefissati. In qualsiasi posto mi trovi devo sempre realizzare le mie attività ma non c’è un ordine, non faccio pianificazioni. Tutto dipende dagli eventi concreti che devo realizzare. Evidentemente quando ho la necessità di concludere un lavoro cinematografico mi ci devo dedicare di più, ma non abbandono mai le altre attività.” (4)
Di lui mi incuriosiva soprattutto l'idea che potesse vivere la sua vita d'arte sorvolando sulle tattiche strategiche in voga nel sistema dell'arte. “Il mercato certo, sono connesso col mercato perché lavoro con i galleristi. Vivo di questo lavoro, ma non vivo grazie alle mostre che faccio ma anche perché con tutte le attività che svolgo, poesia, scritture, performance, azioni musicali riesco a trovare i proventi che servono. Non guadagno tanti soldi ma sopravvivo. Quindi non sono coinvolto nel mercato e in fondo non mi piace vivere nel mercato, ovvero entrare nel meccanismo del mercato che pretende un modello definito per fare un sacco di soldi. Credo sia un problema del XX secolo, contemporaneo. Cézanne ad esempio ha fatto una rivoluzione attraverso la pittura, ma oggi si usa ideare un prodotto come un oggetto da design, un quadro da design, da moltiplicare. Ecco il mercato non permette d’essere Cézanne perché non accetta le sperimentazioni. Il mercato protegge questi progetti e li usa per il sistema di committenti, le banche, le istituzioni, ma per me è molto più importante il rapporto con le aspirazioni umane. Anche le grandi esposizioni internazionali, come le varie biennali, sono il frutto di questa idea di produzione e questo non mi piace molto”.(5)

aprile 2017



1) Un'immagine elevata del sé. Dmitri Prigov in un’intervista di Domenico Scudero, http://luxflux.net/un-immagine-elevata-del-se-dmitri-prigov-in-unintervista-di-domenico-scudero/
2) Dmitri Prigov, On the Boundary of the Black, MLAC, Sapienza Università di Roma, maggio 2016.
3) Un'immagine elevata del sé. Op. Cit.
4) Ibid.
5) Ibid.