Maria Ida Catalano

Il 29 maggio 1969 Lionello Leonardi scriveva a Francesco Arcangeli per congratularsi del saggio composto dal critico sul fratello, lo scultore Leoncillo Leonardi, in occasione della famosa mostra antologica tenuta quell’anno a Spoleto. La lettera recuperata è parte di un esiguo numero di autografi di Leoncillo conservati all’Archiginnasio di Bologna tra le carte del fondo Arcangeli(1). Si tratta di testimonianze che, insieme ad altre sparse corrispondenze, restituiscono una delle declinazioni della scrittura dello scultore, considerabile oggi in una quantità più consistente di pagine, sufficienti a restituirci un possibile quadro d’insieme, nonostante si tratti di materiali estrapolati da contesti differenti, riferibili a generi diversi di scrittura. La voce di Leoncillo ci giunge quindi, oltre che dalle disseminate lettere fin qui emerse, dai saggi critici pubblicati, dalle risposte alle interviste(2), dai titoli scelti dallo scultore a completamento delle sue opere, dal famoso Piccolo diario (insolita dichiarazione di poetica pubblicata postuma attraverso la mediazione del fratello) ed infine dal magma degli appunti manoscritti e delle pagine dattiloscritte custoditi ad Umbertide dagli eredi ed in questa occasione recuperati(3). Dentro tale varietà di registri si imposta l’attuale discorso, che prova ad individuare il valore della parola e della pagina nell’opera di Leoncillo, trovando nella citata lettera di Lionello Leonardi a Francesco Arcangeli uno specifico punto d’avvio. Verità di Leoncillo - così si intitolava il saggio di Arcangeli(4) - appariva a Lionello “splendido, penetrante, lirico, per ‘affinità patetiche”. Lo scultore era morto alcuni mesi prima e le parole usate dal fratello mostravano un’ evidente intenzionalità allusiva. Lionello vi racchiudeva tutto quanto aveva saputo cogliere intorno al vissuto di un legame particolare, quello appunto con Arcangeli, verso cui Leoncillo, nelle sue lettere, dichiarava di sentire una rispondenza “esatta” di coscienza, mentre rivelava, nel colloquio col critico: “solo con te provo questa adesione interna ed assoluta”(5). Ma quelle “affinità patetiche”, se richiamavano l’intensità elettiva di un’esperienza umana particolare, intendevano con ogni evidenza accennare al titolo che accompagna una delle più note realizzazioni del periodo informale di Leoncillo, serrando in un unico nesso scultura e scrittura, sentimenti, opere, vita ed arte. Lionello percorreva così, seppure nella rapidità dell’accenno, una prospettiva più volte individuata dalla critica, riferibile al riconoscimento di una serrata trama di rinvii, dimensione interpretativa funzionale alle stesse valenze assunte dalla scrittura, esito di un particolare “sdoppiamento metaforico e poetico”, che si incontra spesso nelle carte d’artista(6). Affatto occasionale, la parola era quindi per Leoncillo profondamente correlata alla forma e la scultura viceversa poteva apparirgli come una forma particolare di scrittura, in uno scambio osmotico che i titoli delle opere aiutano bene ad evidenziare. Era una direzione di ricerca condivisa dalle “scomposizioni grafiche e spaziali” dell’informel poetico di Emilio Villa(7), che esplicitamente dichiarava: “è il solo artista con cui io abbia potuto coniugare verbi di una nostra arcana (magari arcaica) gnosi, esercitare accanitamente una nostra impagabile, implacabile, generosità mentale, in verbis, o in argilla, fa lo stesso; una porzione della nostra drammatica impresa verbale: possesso di alacre intuito, di iniziativa primaria”(8). In verbis o in argilla, quindi. Ed è significativo che a tale “drammatica impresa verbale” contribuivano, nella loro costitutiva prossimità all’opera, proprio i titoli composti, nel periodo informale di Leoncillo, di uno\due termini e potevano accogliere parole quali Diario (1960), Appunto (1960), oppure brevi frasi: Racconto di notte I (1961), Racconto di notte II (1963) Racconto rosso (1963), nell’ evidente richiamo alla scrittura, predisposti a denotare ed evocare un singolare genere di narrazione. Quel genere di narrazione “di racconto patetico” di cui già lo scultore parlava intorno al ‘54 in una lettera a Roberto Longhi quando, commentando la sua opera Colomba, si diceva “più libero per una scultura”, appunto, “di racconto patetico”(9). Con una funzione di rinvio aumentativa rispetto all’opera, la scrittura trasmessa attraverso i titoli era in Leoncillo allusiva nelle metafore ed evocativa nelle sinestesie. Teso a sviare ogni evidenza dichiarativa, l’artista vi indirizzava il contenuto esistenziale della sua ricerca plastica e, volto ad una significazione problematica nei confronti dell’opera, sfruttava consapevolmente la funzione semantica delle intestazioni, di natura ad un tempo ambivalente ed ellittica. Qui, tra presagi, tagli, impronte e luci perdute, il Corpo appariva dolente e si configurava l’aporia di un Supplizio azzurro (1960). Il Tempo poi, personificato, appariva ferito, mentre il ricordo delle stagioni privilegiava l’estate con i suoi giorni. Nella breve scrittura dei titoli, oltre l’ora della notte con la sua insonnia, emergeva la predilezione per le prime luci dell’alba. Quell’alba, quel senso dell’alba, che lo accompagnava da sempre, di cui lo scultore parlava a Toti Scialoja nella lettera del 1946, quando evocava la notte che, passata, aveva portato via “il peso scuro del mio corpo e nel momento in cui non era né giorno né notte e la luce palpitava come se fosse per nascere o per morire mi sono sentito scorporato con tutte le cose, un vento pieno di colorata luce, una gioiosa sensualità di annichilimento”(10). Scorporato dalle cose, lo si segue ascoltare, nel proseguimento della lettera, le ossa del suo scheletro, come un vento di cui udiva il rumore o ancora richiamare il senso di una “spiritualità estrema ma non astratta”, insieme al “bisogno di essere un idiota”, accompagnato dal desiderio profondo di “liberarsi di qualsiasi ideologia”. D’altra parte, nella scultura e in tutta la sua scrittura, Leoncillo sentiva l’urgenza dell’emozione e rifuggiva dalle codificazioni. La sua era una ricerca del senso ampio della vita. Inseguiva tutto ciò che è vivente ed insieme gli richiamava mille forme di memoria, talvolta inscritte tra i segni nascosti di imprevedibili ricorrenze. Così, nel tronco sentiva il tempo e nell’architettura, secondo una metafora di antica data, riconosceva i boschi, come si legge nell’articolo del ’56 Uno scultore giudica l’architettura(11). Qui, alla suggestione delle strutture degli alberi collegava quella della “materia delle foglie e delle cortecce”, la cui natura ritrovava poi sulla sua mano, per tornare al “ricordo delle pietre tarlate e patinate dai secoli”. Se, consapevole dei depositi stratificati della memoria, nei percorsi della sua coscienza infelice(12), poteva sostenere, nell’introduzione al catalogo della mostra del ’57 alla Tartaruga, che noi “non siamo naturali”(13), al contrario, nella scelta di azzerare ogni linearità, tra le pagine dattiloscritte rinvenute emerge (con varianti rispetto al testo pubblicato del Piccolo diario) l’integrale assimilazione ad un albero: “Perché faccio un albero? Perché sono io un albero. E allora tanto vale fare ‘l’essere io un albero’”. D’altra parte, sempre in queste pagine, si continuava ad interrogare: “Perché un paesaggio può a un certo momento somigliare a un corpo umano? Perché si dice un volto di pietra? Un fiume di capelli?”. Così, anche Borromini- è ancora il suo giudizio sull’ architettura - cercato “di notte con le strade deserte”, era sentito ‘naturalmente’ ed orgogliosamente rivendicato dentro “una profonda ignoranza di nomi e date studiati ma dimenticati in modo perfetto”.
Negli autografi recuperati, come in altri scritti, il gesto, il tempo e la storia si intrecciavano secondo la prospettiva di un “metodo di lavoro moderno attuale” - si legge - di un “modo diverso di avere la rappresentazione”. Natura e materia, tempo e storia, arte e gesto vivevano quindi dentro la sua sensibilità ben oltre le idee, per le quali precisava, sempre nel ’57, di avvertire un “rancore sordo”(14). Scrutava la complessità del primigenio, nella scultura come nella scrittura, perciò prediligeva l’aurora. E non è forse un caso se l’esordio di una delle pagine recuperate, che cita il trauma appena trascorso della notte insonne, quel tempo di trapasso indistinto quando, sorta la luce, emergeva il bisogno confuso di scendere nello studio a lavorare, coincide con l’apertura significativamente selezionata del Piccolo diario, veicolo di una poetica in cui, ben oltre gli esiti di una ricostituzione filologica e cronologica, risuona tutto il travaglio del Novecento(15).
Sempre sul crinale tra il nascere e il morire, pressato da un grido interiore afono, da quel pathos indeterminato da cui sorgono l’opera e la parola, poteva percorrere la scrittura come flusso vitale e coscienziale, anche con frasi disarticolate, libere dalle rigidità della sintassi, talvolta indifferenti all’ortografia, nel senso in cui la materialità delle nuove pagine emerse contribuisce a mettere meglio in luce. Il discorso messo in campo era ininterrotto, si legge, “scorre come l’acqua di un fiume con modificazioni continue del suo tessuto costitutivo solo che rimane uguale nei suoi elementi”. Nel “tempestoso dominio dell’evento” per dirla con Argan(16), nel continuum, che non è figura e non è paesaggio, lì dove manca il centro e tutto germina verso un orizzonte informe, sempre uguale e sempre diverso, si racchiudeva quindi per Leoncillo la ricerca impossibile dell’origine, dentro un approdo costantemente desiderato ed insieme negato, che la concitazione di molti tra questi fogli ritrovati fa emergere. Eppure, anche nel groviglio di tali pagine sparse, persiste il rovello dei ragionamenti mai acquietati nell’enunciazione, come le affermazioni e le domande volte a se stesso, per esempio proprio sui titoli: “Il titolo viene dopo – è scritto - e deve essere concreto, secco. O verso un continuum atteggiato diversamente, espressione basata nel tempo” e di qui i tentativi appuntati: “taglio: sovrapposizione IIa ecc.”, oppure “verso una rappresentazione \ Col titolo esplorativo dell’ immagine letteraria”, o ancora “Continuum basato sul tempo \ Con immagine basata sul tempo \ Con titolo non romantico \ Generico ma più preciso \ Per esempio Vecchio santo combattente \ S. Sebasti [cancellato] La luce taglia”. Si configura allora, scorrendo queste pagine, una lingua insieme strutturata ed indistinta, deliberatamente disordinata e scomposta, eppure concepita per la volontà di mettere ordine ai pensieri, nata dalla sorgente dell’ inquietudine e gettata verso il lettore con la tensione della carica pulsionale. Un lettore previsto, come perlomeno nel caso delle pagine donate ad Arcangeli, o probabilmente imprevisto, ed è il dubbio che sorge leggendo il vorticoso caos degli appunti. Qui appare evocata la forma che – scriveva scandendo le parole con ritmo incalzante – “per metafora \ dice una \ cosa: \ cristo, uomo, \ montagna,\ testa \ graffiare e aggiungere con \ lo stesso significato mai \ mediato con \ “cose” vere, :\ ombra, ferite, occhio, piaga, buco”. A volte franta, altre volte più integra, questa scrittura poteva quindi costeggiare i margini del caos, seppure con l’intento ostinato di arrivare alle cose, a quelle “vere”. Una scrittura sempre più auto interrogativa e dubitativa che, verso il limite degli anni sessanta, si poneva le sue retoriche domande: se sono finiti “il puro gesto artistico”, “l’ informale viscerale”, “la protesta, il grido inarticolato, la reazione”, la “materia come esibizione esistenziale”, mentre dichiarava che c’è solo bisogno di “ridere, piangere, auto confessarsi” per l’affermazione di una realtà nuova, lasciata però, purtroppo per noi, sospesa nell’indefinito della sua morte prematura.
Un tipo di scrittura sintomatica, quindi, assimilabile alla linea formale dell’ essai e ai modi del preludio che, senza mai raggiungerla, anelandola e forse progettandola, annuncia eternamente la monumentalità dell’opera(17). Una scrittura messa continuamente alla prova di un’impossibile coerenza, dove ricorre la cancellatura, segnale di sosta e di ripensamento, che evoca insieme l’incoerenza del gesto concitato della mano, sincronizzato alla coscienza e percepibile nell’alternanza tra ordine e disordine delle righe, in cui compaiono pure schizzi circondati da appunti posizionati in ogni direzione, rendendo mobile la lettura di un pensiero, in verità mai dispersivo. Forse, la sua era quella lingua “della phisis senziente e sofferente”, di cui parlava proprio Antonio Prete a proposito di una linea intellettuale giunta fino a Valery, che avrebbe affermato, nel segno comune a molti autori di essais, di fare sempre thèorie de soi même(18). Interna quindi al proprio flusso inarrestabile, attraversata “dal vento della vita”, lontana dalla memorialistica come dal trattato, tale forma di scrittura, che cerca l’adesione al vivente, si spingerà, nel corso del Novecento, fino al limite della dissolvenza, insorta a mostrare “la vanità della scrittura stessa”, situata lì dove il pensiero incalzante fa “percepire il confine del pensiero, il suo sporgersi sul nulla”, nell’attesa e nella ricerca di una forma che la sottragga “al tempo del discorso”(19). Tempo che anche Leoncillo si era impegnato a consumare dentro l’orizzonte del suo racconto patetico, racconto di un io diviso, oscillante tra lo scavo interiore e la scoperta. Un racconto particolare, di opere e di parole, che non intendeva certo descrivere bensì costituirsi, essere esperienza, anche lì
dove, oltrepassando la frammentazione sintattica, perseguiva la forma di una più sistematica dichiarazione di poetica.
Luglio 2018

*Il testo elabora la comunicazione tenuta al Convegno curato da Anna Leonardi e Stefania Petrillo dal titolo Natura ed espressione l’approdo sofferto di Leoncillo, Spoleto 9 – 10 Luglio 2015.
1) Bologna, Biblioteca Comunale dell’ Archiginnasio, U. O. Manoscritti e rari e Gabinetto disegni e stampe, Fondo Arcangeli. Il testo della breve lettera di Lionello Leonardi è il seguente: “Spoleto 29. 5. 69. Caro Arcangeli, il suo saggio è splendido, penetrante, lirico, per “affinità patetica”. Capisco ora come eravate legati da vincoli fraterni. Ed io te ne sono assai grato. Penso che non ci sarebbe gran che da aggiungere. Forse una premessa che diceva della Sua morte e che il saggio è stato scritto quando era ancora in vita. Vorrei dirti di più. Le tue parole per Leoncillo meriterebbero un discorso assai più lungo e significativo, ma sono sfinito per le grandi fatiche di questi ultimi giorni e spero che saprai perdonarmi di questa lettera avara. Non dimenticare la scadenza della prima settimana di luglio. Affettuosamente. Tuo Lionello Leonardi”. L’insieme dei materiali del fondo Arcangeli relativo a Leoncillo, ancora in fase di riordino, concerne attualmente oltre alla citata lettera del fratello, nove lettere dell’ artista che vanno dal 5 marzo 1960 al 1 febbraio 1968; una lettera di Federico Quadrani del 9 novembre 1968 con riferimento ad alcune sculture di Leoncillo; una lettera di Antonello Trombadori ad Arcangeli del 16 novembre 1968, dove si chiede al critico la collaborazione per un catalogo in ricordo dello scultore. Nel fondo si trovano poi cataloghi di mostre e testi a stampa. Per la disponibilità alla consultazione dei materiali si ringrazia la dott.ssa Patrizia Busi.
2) Molti livelli di scrittura di Leoncillo sono stati selezionati da G. Appella (a cura di), Vita, opere, fortuna critica in Leoncillo. Opere dal 1938 al 1968, catalogo della mostra (Matera, 6 luglio - 30 settembre 2002), a cura di G. Appella, V. Rubiu, F. Sargentini, Edizioni della Cometa, Roma, 2002. Particolarmente significativa la lettera del 7 settembre 1946 a Toti Scialoja che, pubblicata per
stralci da Appella (pp. 120 – 121), si può leggere integralmente alla Fondazione Scialoja. Un’altra rilevante occasione epistolografica è quella con Roberto Longhi (si veda oltre alla nota 8) che riporta brani di una lettera inviatagli da Leoncillo a proposito dell’ opera Colomba presentata dal critico in occasione della XXVI Biennale di Venezia del 1954. A Brandi scrive già dal ’43, mentre si trova al Reparto Infettivi dell’Ospedale militare di Monteluce (Perugia), cfr. “Il gusto della vita e dell’arte” lettere a Cesare Brandi di Afro, Burri, Capogrossi, Cassinari, Ceroli, Conti, De Pisis, Leoncillo, Maccari, Mafai, Manzù, Marini, Mastroianni, Mattiacci, Morandi, Ontani, Pascali, Paolucci, Perez, Raphael, Rosia, Romiti, Sadun, Scialoja, Stradone, Tacchi, a cura di Vittorio Rubiu Brandi, Gli Ori, Pistoia, 2007, pp. 116 - 117. Per il carteggio con Enzo Rossi, donato da Orietta Rossi Pinelli alla Biblioteca Carandente di Sopleto cfr. O.Rossi Pinelli, Villa Massimo 1948 – 1956: Un laboratorio di ricerche per un nutrito gruppo di artisti italiani, in Brunori. Una poetica del colore nel secondo Novecento, a cura di Enrico Crispolti, catalogo della mostra, Vittoriano 24 aprile – 16 maggio 2008, De Luca Editori d’Arte, Roma, 2008, pp.37 – 47. Una scrittura di tipo più propriamente saggistico si recupera in L. Leonardi, Uno scultore giudica l’architettura, in «L’architettura», novembre 1956 (13), a. II, p. 532, ripubblicato da Appella (pp.139 – 140); nella presentazione di se stesso alla mostra del ’57 (L. Leonardi, Leoncillo, catalogo della mostra, Galleria La Tartaruga, Roma 1957), sempre riedita da Appella (pp.141 – 142); in Leoncillo Leonardi, Arte moderna e tradizione, in «Realismo», 1953 (8), a. II, ripubblicato nella parte terza sulle poetiche del volume di M. De Micheli, Scultura italiana del dopoguerra, Milano 1958, pp. 206 – 208.                      
3) È in corso di pubblicazione da parte di Marco Tonelli una puntuale ricostruzione dell’intricata vicenda del cosiddetto Piccolo diario di cui, grazie alla cortese mediazione di Anna Leonardi, si sono potute recuperare presso gli eredi le pagine dattiloscritte inclusive di correzioni manoscritte autografe di Leoncillo. Lo studioso,in occasione della imminente mostra su Leoncillo alla Galleria dello Scudo di Verona, presenterà un saggio introduttivo, la trascrizione aggiornata e una copia anastatica. Nel confronto con il testo a stampa e con le trascrizioni manoscritte del fratello, recuperate a Spoleto alla Biblioteca Carandente (Spoleto, “Biblioteca Giovanni Carandente”, Archivio Leoncillo, cfr. M. I. Catalano, Memoria della materia nel ‘Piccolo diario’ di Leoncillo, in M. I. Catalano, P. Mania, Arte e memoria dell’arte, Viterbo, Atti del convegno, 1 – 2 luglio 2009, Gli Ori, Pistoia, 2011, pp. 296 – 306) si offrirà certamente un quadro più chiaro di tutta la questione. In ogni caso, volendo ripercorrere sinteticamente la storia del testo, si parte dalla testimonianza di Francesco Arcangeli che, nel citare alcuni brani, scriveva di avere ricevuto le pagine – una “sorta di diario”, precisava - direttamente dall’artista (Leoncillo, catalogo della mostra, Roma, 25 ottobre – 21 novembre 1958, L’Attico, Roma, 1958, testo riportato anche in Vita, opere, fortuna critica, cit., p. 152). Dopo questo accenno, il Piccolo diario (1957 – 1964) sarà pubblicato in diverse occasioni (cfr. Leoncillo.(Leoncillo Leonardi). Spoleto 1915 – Roma 1968, catalogo della mostra, Spoleto, Chiostri di San Nicolò, 8 luglio – 8 settembre, Edizioni Alfa, Bologna, 1969, pp. 73 – 94; Leoncillo, la metafora della materia, a cura di Giorgio Cortenova, catalogo della mostra, Verona, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, 5 luglio – 30 settembre, Mazzotta, Milano, 1985, pp. 91 - 100; Leoncillo: sculture, opere su carta, catalogo della mostra, Bologna, Galleria d’ Arte Maggiore,  G.A.M., Bologna, 2002, pp. 10 – 24) e verrà frequentemente commentato dalla critica. Nel catalogo della mostra spoletina, tra le righe della breve nota introduttiva intitolata Verità di Leoncillo, che precedeva la prima pubblicazione del testo, sempre Arcangeli precisava: “parleranno abbastanza le splendide pagine autobiografiche, scelte da chi gli ha voluto veramente bene” (p. 9). La selezione per la stampa e la consegna delle pagine a Francesco Arcangeli fu effettuata infatti dal fratello di Leoncillo, Lionello Leonardi, a cui Arcangeli alludeva nella sua nota. Lionello dovette realizzare la collazione delle pagine ed attribuire forse anche il titolo, poi divenuto famoso, di Piccolo diario. I fogli inerenti il Piccolo diario conservati nell’archivio di Spoleto, sciolti e privi di una numerazione consequenziale, sono infatti preceduti da una introduzione del fratello, che dichiarava i suoi scrupoli a rendere pubbliche pagine (definite taccuini) nate per una ricerca interiore di carattere personale. Considerando tutte le corrispondenze, le omissioni e le sostituzioni presenti nei dattiloscritti conservati dagli eredi, il testo a stampa e le trascrizioni manoscritte di Lionello, si perverrà certamente ad una maggiore chiarezza dell’intera questione. Per quanto riguarda l’insieme delle pagine inedite è possibile sostenere che si tratta di fogli sciolti, sia manoscritti che dattiloscritti, la maggior parte privi di una consequenzialità cronologica ma anche successivi agli anni del Piccolo diario. Le carte giungono infatti fino al 1968 e vi si palesa l’alternanza tra una scrittura più sistematica, quella prevalentemente dattiloscritta per lo più corrispondente ai contenuti del Piccolo diario, caotici appunti lasciati ancora allo stato manoscritto e la presenza di disegni. Alcuni aspetti intorno alla natura di questi ultimi, manoscritti e disegni, sono affrontati nell’ambito del presente contributo, progettando successivamente una più ampia pubblicazione, che tenga conto del riordino e della trascrizione degli stessi effettuati dalla dott.ssa Martina Codiglione, di cui si allega qui una breve nota riepilogativa, che propone i primi risultati intorno al lavoro filologico effettuato.
4) F. Arcangeli, Verità di Leoncillo, cit., pp. 9 ss..
5) Lettera del 5 Marzo 1960 (cfr. nota 1)
6) M. Pozzati, Racconti d’ arte. Quando le parole incontrano le immagini, Presentazione di Vera Fortunati, Editrice Compositori, Bologna, 2013, p. 22. Ma vedi anche S. Zuliani, Scritture dell’ Arte. Riflessioni Figure Incroci, La città del Sole, Napoli, 2002, pp. 9 – 14.
7) G. Zanchetti, Altre libertà: pratiche performative e comportamentali nella poesia visuale italiana degli anni Sessanta e Settanta, in “Ricerche di Storia dell’Arte”, 114, 2014, p.30
8) 15 Opere di Leoncillo con saggio di Emilio Villa esposte a L’Attico Esse – Arte, L’Attico Esse – Arte, Roma, 1983, s.n.p. Su Villa vedi A. Cortellessa, Poesia informe?, in Emilio Villa poeta e scrittore, a cura di Claudio Parmiggiani, Mazzotta, Milano, 2008, pp. 36 - 61
9) Longhi nel suo saggio del 1954 sullo scultore (edito per De Luca Editore in Roma e ripubblicato nelle Edizioni delle Opere Complete di Roberto Longhi, Scritti sull’Otto e Novecento, Sansoni, Firenze, 1984 (XIV), pp. 67 – 74) riportava il brano della lettera che Leoncillo gli aveva appena scritto: «I piani tornano ad essere rotondi e legati l’uno all’altro, non più squadrati o accostati per continua contrapposizione; e questo perché la immagine mi si era formata prima internamente (com’era già avvenuto anni prima con l’Arpia e con il San Sebastiano) e poi si era tradotta in un altro oggetto con un suo colore, una sua plastica. Questa scultura mi aperse un campo nuovo dove mi sto muovendo ora. Mi sento ora più libero per una scultura di racconto patetico, ecc.». L’ opera Colomba era stata esposta alla Biennale di Venezia quell’anno insieme a Bombardamento Notturno (cfr. ancora R. Longhi, Leoncillo Leonardi, in XXVIIBiennale di Venezia, catalogo della mostra, Venezia, Palazzo Centrale ai Giardini, 19 giugno - 17 ottobre 1954, Venezia 1954, pp. 116 - 117).
10) Lettera del 7 settembre 1946 a Toti Scialoja cfr. nota 2
11) Cfr. nota 2
12) C. Spadoni, Leoncillo. Prefazione di Cesare Brandi, l’attico – esse arte, Roma, 1983, p. 24
13) L. Leonardi, Leoncillo, catalogo della mostra, Galleria La Tartaruga, Roma 1957, s.n.p.
14) L. Leonardi, Leoncillo, cit., s.n.p.
15) Da quanto finora detto non possiamo più sostenere che l’avvio del Piccolo diario sia stato selezionato da Leoncillo o non costituisca piuttosto una scelta narrativa del fratello. Sta di fatto però che la pagina dattiloscritta citata corrisponde puntualmente al testo a stampa e riporta manoscritta (ma qui la grafia è di Leoncillo che riordina le sue carte o del fratello?) la data 1957. 
16) Leoncillo. Opere recenti, Testi di Giulio Carlo Argan, Maurizio Calvesi, «Quaderni dell’ Attico» 1, Azienda Tipografica  Beneventana Editoriale, Roma 1960.
17) www.zibaldoni.it/tag/antonio-prete/HYPERLINK "http://www.zibaldoni.it/tag/antonio-prete/" I manifesti di Zibaldoni, 10/04/2003, da A. Prete, Sulla scrittura dello Zibaldone: la forma dell’essai e i modi del preludio, in Lo Zibaldone 100 anni dopo. Composizione, edizioni, temi, Atti del X Convegno internazionale di studi leopardiani, Recanati – Porto Recanati, 14 – 19 settembre 1998, Leo – Olschki, Firenze, 2001. Ringrazio l’amico Marco Esposito per il confronto su tale linea interpretativa. 
18) Ibidem
19) Ibidem