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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Critica e arte come opposizione militante

 

Dopo la panoramica sui presupposti del Gruppo di Piombino compiuta attraverso le parole di Pino Modica e Stefano Fontana, in questo secondo appuntamento il punto di osservazione è Roma, dove Domenico Nardone delinea uno spostamento di “campo” che non coinvolge solo la produzione artistica, ma anche la funzione del critico e la natura dello spazio espositivo.

Simona Antonacci

Motivato ad allontanarsi dal gruppo Jartrakor e aprire uno spazio in proprio, tra il 1982 e il 1983 Domenico Nardone fonda, insieme a Daniela De Dominicis e Antonio Lombardi, la galleria Lascala[1], ospitata in una chiesa sconsacrata nel complesso del Santuario Pontificio della Scala Santa.   

Nelle prime mostre sperimentali viene indagato il rapporto tra oggetto scientifico e artistico attraverso la presentazione di strumenti tecnici esposti come sculture[2]: L’intervento è concepito come un esperimento che presuppone un progetto, una reazione differenziata, e una verifica rigorosa[3]. Se per un verso, questo approccio costituisce fattore di continuità rispetto all’esperienza di Jartrakor, per l’altro, l’elemento di divergenza è rappresentato dal contesto di applicazione di quell’apparato sperimentale, che viene individuato nella vita quotidiana.

Quattro lavori di Antonio Lombardi, la prima mostra presentata a Lascala, è già riferibile all’area piombinese[4]. Una delle opere consiste in una targhetta adesiva con la scritta “non asportare” attaccata in vari punti della città: la reazione dei passanti è documentata da fotografie. Come nell’Eventualismo l’opera è concepita come esperimento percettivo, ma con la differenza di eliminare quello che Domenico Nardone definisce il “falso di laboratorio”[5] dovuto alla realizzazione di esperimenti in un ambito artificiale fortemente connotato, come quello della galleria che censura alcuni comportamenti da parte del pubblico.

Con Interpolazioni urbanequesta posizione si rafforza: la mostra, curata da Domenico Nardone, non presenta alcun autore “consapevole” o riconosciuto, ma disegni murali e graffiti trovati. Sulla stessa linea di ricerca si pongono altre due esposizioni realizzate in quell’arco di anni, Segnali e Progetti e lavori in corso, nelle quali l’intervento degli artisti si situa nello spazio urbano con forme di interferenze e  induzione di un comportamento creativo[6].

Gli esperimenti esuberanti dei tre artisti di Piombino non potevano non incrociare la propria strada con il modello operativo di opposizione militante elaborato da Domenico Nardone che investe, come si vede fin dalle prime mostre, tanto la figura del critico, tanto la natura dello spazio espositivo.Di fronte al rischio della «dissoluzione morfologica dell’arte – scrive Nardone - non potremo certo, come critici, seguire le evoluzioni del gambero citazionista o ipermanierista, saremo, viceversa, al fianco degli artisti che, dinanzi al baratro, non arretrano ma si addestrano al volo»[7]. La visita nello studio dell’artista è sostituita dalla passeggiata per la strada: «non certo quella stralunata e sognante di Talete, quanto quella, attenta e partecipante, dell'antropologo»[8].

Il sodalizio tra la pratica subliminale dei Piombinesi e questo modello critico - che non interviene con una riflessione filosofica a posteriori, ma che agisce come e insieme all’artista nello spazio pubblico - è celebrato con la presentazione a Lascala del progetto Sosta Quindici Minuti nel novembre-dicembre 1984 (cfr. numero 1, unclosed.eu), seguito da tre mostre personali.

La prima è dedicata a Stefano Fontana. L’esposizione riprende un intervento realizzato a Piombino: cinque scatole gialle con la scritta Contenitori ideologici vengono posizionate in diversi punti della città per quindici giorni. In mostra l’artista presenta ogni contenitore affiancato dal contenuto rinvenuto al suo interno.

L’ambiguità dell’intestazione della scatola lascia al passante la possibilità di interpretare in modo diverso l’invito dell’artista. I Contenitori ideologici costituiscono una sorta di “microfoni” disposti nelle strade frequentate ogni giorno, a disposizione dei cittadini che volessero comunicare. Comunicare non con qualcuno o per qualcosa, ma comunicare e basta. L’ambiguità dell’oggetto (a cosa serve? Chi lo ha posizionato?) e il fatto che non vengano esplicitate le regole di comportamento (a chi è rivolto il contenitore? Chi è il destinatario delle missive? Quale forma comunicativa bisogna utilizzare?), in altre parole l’assenza di regole, intende stimolare una forma di espressione latente e costituisce un piccolo atto di guerriglia cui l’arte fornisce gli strumenti.

Nell’ottobre 1985 Pino Modica presenta il Rilevatore estetico. Si tratta di uno strumento espressamente realizzato dall’artista: una cinepresa è camuffata all’interno di un finto misuratore della pendenza della Torre di Pisa. Posizionato di fronte a quest’ultima, il rilevatore attiva di nascosto la videocamera attraverso un sensore ogni volta che qualcuno si avvicina[9]. Da questo intervento l’artista ricava un cortometraggio composto da una selezione delle riprese fatte dall’interno dell’apparecchio, aggiunte a quelle realizzate esternamente che documentano l’interazione dei passanti. La realizzazione dell’opera è demandata a un pubblico inconsapevole ma che agisce in modo volontario attraverso un oggetto di stimolo credibile.

Questa funzione corrisponde a quello che lo stesso artista definisce “alibi” dello strumento di attivazione rispetto alla situazione. L’idea di alibi corrisponde a una tattica di camuffamento, alla ricerca di legittimità visiva e funzionale che l’oggetto deve avere rispetto al contesto geografico e d’uso.

Il titolo della mostra di Salvatore Falci, Itai Doshin, significa “diversi nel corpo, uniti nello scopo”[10] e rimanda ad un principio di unità che si sintetizza nel progetto dell’artista con un arretramento dell’autore a favore di una creazione condivisa da più mani che agiscono in uno stesso ambito. Riducendo la propria “invadenza”, l’artista propone una situazione-stimolo di carattere relazionale: una superficie di vetro verniciata di colore è posta su tavoli di scuole, sale d’aspetto, pub, e viene incisa dagli avventori con graffiti, segni, lettere.

Il ribaltamento in verticale in mostra sottolinea il valore grafico dell’intervento. Tra i quattro elementi necessari alla realizzazione dell’opera, ambiente–oggetto–pubblico–artista, quest’ultimo non ha un ruolo privilegiato, possiede soltanto rispetto agli altri la responsabilità di favorire il processo di “coltivazione” dell’esperienza creativa.

Con la personale di Salvatore Falci si conclude l’esperienza di Lascala a Piazza San Giovanni, ma la ricerca dei Piombinesi comincia ad affacciarsi in un contesto più ampio e ha modo di confrontarsi a Roma proprio con l’Eventualismo, cui è ancora legato il futuro Piombinese Cesare Pietroiusti.

In occasione della mostra Nuove avanguardie a Roma, organizzata a Jartrakor, Pietroiusti presenta Scusi, ero distratto.  L’artista va alla ricerca di espressioni che testimoniano l’interruzione di coscienza all’interno di diari scolastici, agende telefoniche, ma anche negli spazi pubblici come muri, sale d’aspetto, negozi. Attraverso l’ingrandimento e la selezione, l’artista concentra l’attenzione sullo scarto e amplia il campo del suo interesse a tutto lo spazio urbano. Proseguendo la sua ricerca sulle tracce umane involontarie, come gli scarabocchi di cui ipotizza nuove possibilità di senso, l’artista attua un significativo spostamento d’attenzione verso forme di creatività presenti nelle situazioni quotidiane. Un’affinità d’intenti e di risultati che indica una vicinanza densa di sviluppi con le ricerche presentate a Lascala.

Fuori da Roma il lavoro dei Piombinesi viene presentato a Siena in due occasioni:  alla mostra  Una nuovissima generazione nell’arte italiana (1985) organizzata da Enrico Crispolti[11] - nella sezione Azione partecipata e collettiva - e alla galleria Il Prisma nella mostra L’arte di ingannare,il cui titoloprende spunto da un articolo di Augusta Monferini[12]. Interpretando il lavoro dei Piombinesi come un revival di pratiche legate al Sessantotto, Augusta Monferini aveva rilevato, con sottile ironia, l’attività clandestina e ingannatrice del gruppo. Forte di questa “garbata ed elegante stroncatura”[13] Nardone utilizza quella stessa definizione, efficace e sintetica, per la prima rassegna dedicata esclusivamente ai Piombinesi fuori dal contesto romano. L’assunto che essi utilizzino l’inganno per la loro produzione artistica e che la loro presenza sia dissimulata all’interno dello spazio urbano è il punto di partenza di Nardone per affrontare nel testo critico della mostra un’approfondita analisi degli aspetti più significativi dell’intervento piombinese: è infatti proprio attraverso l’inganno, l’incongruenza parziale rispetto all’ambiente prescelto che agisce, con apparente funzionalità, l’alibi creato dall’artista.

Il carattere subliminale dell’intervento risponde all’esigenza di svincolare da pratiche omologate l’approccio del visitatore all’opera, eliminare l’idea di contemplazione estetica, ostacolare dunque il comportamento stereotipato di chi frequenta i luoghi d’arte e si relaziona con gli oggetti in esso presentati. D’altra parte non è sufficiente inserire nelle strade sculture e oggetti: essi agirebbero sempre come “monumenti”, elementi appartenenti al campo e al discorso dell’arte. Solo rendendo gli oggetti “non artistici” ma quotidiani il pubblico si avvicina privo di timore reverenziale, o di spirito contemplativo, e dunque solo in questo modo, l’oggetto è in grado di attivare dei comportamenti creativi.

La poetica del Gruppo di Piombino, cui manca ormai soltanto l’apporto di Cesare Pietroiusti, è ormai interamente formulata. La progressiva apertura verso il paese della realtà attuata nel corso di questi anni a Lascala condurrà non soltanto le opere, ma la stessa idea di galleria e di spazio espositivo a confrontarsi con uno spazio altro.

Un Desiderio che sarà a breve realizzato.

 

[1]Lo spazio, precedentemente un magazzino, viene trasformato alla fine degli anni Sessanta dall’artista e Padre passionista Tito Amodei. Avvalendosi di un ulteriore spazio contiguo, il complesso diventa in questi anni contenitore contemporaneamente di iniziative tra loro differenti: Lascala, Laboratorio dello sguardo e Sala 1. Cfr. Mémories. Cronistorie d’arte contemporanea, 1967-2007, a cura di F. Capriccioli e M. A. Schroth, Gangemi editore, Roma 2008.

[2] Cfr.in particolare 16 condizioni di rottura e Sette modelli. La prima (marzo 1983) presenta 16 blocchetti di cemento sottoposti a compressione da una macchina per verificarne il limite di resistenza. La seconda (febbraio 1984) ospita alcuni modelli realizzati in campo scientifico come fossero sculture, molecole del DNA e la macchina delle catastrofi di Renè Thom fatta realizzare da Daniela De Dominicis.

[3] «Il nocciolo della teoria che andavo elaborando verteva sulla possibilità di produrre un’arte sperimentale, la cui efficacia fosse cioè verificabile, analogamente a quanto avviene per le ipotesi scientifiche, attraverso specifiche procedure» D. Nardone in Ritorno a Piombino. Salvatore Falci, Stefano Fontana, Pino Modica, Domenico Nardone, Cesare Pietroiusti, a cura di Domenico Nardone, catalogo della mostra presso Galleria Primo Piano gennaio-febbraio 1999, Roma, pag. 4.

[4]La mostra si svolge nell’ottobre 1983 e presenta le opere PFf, Orizzontale, Senza Titolo e Non asportare.

[5]D. Nardone, in Prolegomeni ad un allargamento del campo d’osservazione in arte, in Quattro lavori, catalogo della mostra a cura di D. Nardone e D. De Dominicis presso Lascala, 1983.

[6]La prima presenta lavori di Antonio Lombardi, Lorenzo Pezzatini e Marino Vismara. In particolare Marino Vismara presenta la documentazione del suo progetto MSEO ART CNTEMPO che aveva previsto la realizzazione di una segnaletica stradale molto simile a quella reale in cui si indicava la direzione di un inesistente Museo d’arte contemporanea a Firenze.. Segue la personale di Andrea Lanini anche lui impegnato in quegli anni nell’elaborazione di interventi di interferenza nello spazio urbano.

[7] D. Nardone, Il profeta e l’archeologo, intervento presso l'Istituto di Storia dell'arte contemporanea dell’Università La Sapienza, Roma 1984.

[8]Idem.

[9]L’opera è composta da un cannocchiale in pvc con una parte fissa e una mobile in senso rotatorio che consente di indicare il grado d’inclinazione della Torre su una apposita scala goniometrica. L’oggetto è completato da una cinepresa nascosta all’interno della struttura che, attivata da un sensore, registra tutte le immagini inquadrate.

[10]Cfr. S. Falci, Itai-Doshin, catalogo della mostra presso Lascala – Roma, dicembre 1985.

[11] Cfr. E. Crispolti, Una nuovissima generazione nell'arte italiana, catalogo della mostraorganizzata in occasione della Festa nazionale de l’Unità “Futura” in collaborazione con il Dipartimento di Archeologia e Storia delle arti dell’Università degli Studi di Siena, Fortezza Medicea- Siena, 9-25 agosto 1985.

[12]A. Monferini, L’arte d’ingannare, in “L’Espresso” - Roma , 31 marzo 1985.

[13] D. Nardone, L’arte di ingannare, nel catalogo della mostra SalvatoreFalci, Stefano Fontana, Pino Modica, a cura di D. Nardone, galleria Il Prisma - Siena, 1985.