Traiettorie e approdi tra il 1988 e il 1991.

Simona Antonacci

 

Da Piombino a Roma, da Milano al resto d’Italia: l’affermazione in ambito nazionale e l’inserimento dell’esperienza dei Piombinesi in un più ampio orizzonte poetico e operativo - monitorato in questi anni da mostre e ricognizioni - determinano sollecitazioni teoriche che nutrono la ricerca di Falci, Fontana, Modica e Pietroiusti.

La tesaurizzazione di questo fermento si riverbera nella pratica artistica, determinando un incremento produttivo e portando a maturazione le istanze elaborate nel tempo. È a queste ultime che si rivolge la IV parte della storia del Gruppo di Piombino: mollati gli ormeggi, gli artisti salpati collettivamente percorrono ora inedite e personali traiettorie disegnando una propria cartografia teorica, poetica, linguistica.

Il monitoraggio sulle istanze di ricerca della generazione post-Transavanguardia si compie attraverso il crescente numero di iniziative che, sotto l’influsso del rinnovato fermento critico e teorico che investe la seconda metà degli anni Ottanta, animano il panorama culturale italiano. Di questo scenario le manifestazioni promosse dal Castello di Volpaia, a Radda in Chianti (Siena), costituiscono una cartina al tornasole: grazie a un promotore impegnato e tenace come Luciano Pistoi, questa rassegna si configura come una delle realtà più incisive in Italia, capace non soltanto di registrare, ma anche di incoraggiare - attraverso un dialogo serrato tra diverse generazioni di artisti - l’aggiornamento delle pratiche e delle riflessioni intorno al fare arte.

La prima partecipazione del Gruppo di Piombino nel 1988, in occasione della mostra Da zero all'infinito[1]a cura di Giacinto di Pietrantonio e Laura Parmesani, assume la forma di una dichiarazione d’intenti: svincolandosi dalle costrizioni di un ambiente concettualmente deputato all’esposizione, gli artisti scelgono l’ibridazione con i luoghi della vita quotidiana, collocando le loro opere in un bar poco distante dalla sede della mostra. Nelle opere di Modica e Pietroiusti, in particolare, si coglie l’importanza dell’intervento site specific come valore aggiunto.

Nelle settimane precedenti l’inaugurazione Pino Modica colloca in una delle sale del bar un flipper modificato in cui il piano di scorrimento della pallina è sostituito da una lastra di plexiglass opacizzata da vernice. Lasciato nel suo “ambiente naturale” il giorno della mostra, ma privo del meccanismo di accensione dunque inutilizzabile, il Flipper mostra i segni della alterazione subìta attraverso l’uso: la pallina ha infatti scavato la superficie verniciata, creando cancellature e sovrapposizioni di percorsi che lasciano affiorare la luce proveniente dal piano sottostante. Si manifestano così le tracce dell’interazione avvenuta, “rughe” sulla pelle dell’oggetto “consumato”.

L’intervento di Cesare Pietroiusti è innescato, come in altri lavori di questo periodo, da un elemento “trovato”: si tratta della porta del bagno del bar la cui facciata interna, nel suo rivolgersi allo spazio del privato, si presenta interamente ricoperta da graffiti, chiamata com’è a raccogliere segni e manifestazioni di esistenza, violentata nel concedersi come spazio di penetrazione segnica, di stratificazione e accumulo di gesti e messaggi personali. L’artista “replica” questa facciata mediante una riproduzione fotografica a grandezza naturale e la applica sulla parte esterna della porta, rendendola dunque identica su entrambi i lati. Con questa riflessione sul rapporto tra lo spazio privato e quello pubblico, va configurandosi quell’interesse per gli ambienti e il modo in cui essi vengono vissuti che Pietroiusti approfondirà a breve.

Entrambi i lavori sono articolati intorno alla vita degli oggetti, agli impieghi eterologhi cui li sottoponiamo, ai comportamenti che assumiamo nell’interazione con essi.

L’inquadramento all’interno del più ampio contesto creativo della giovane generazione si compie per i Piombinesi con la partecipazione ad alcune mostre concepite in stretto dialogo con le iniziative del Castello di Volpaia. Davvero. Le ragioni pratiche dell’arte[2], curata da Carolyn Christov-Bakargiev, Giacinto Di Pietrantonio, Angela Vettese alla galleria L’Osservatorio di Milano nel 1988, ambisce a dar conto di «un orizzonte mobile formatosi in questi ultimi anni all’esterno del sistema dell’arte in un momento in cui si pensava che l’arte si potesse sviluppare solo al suo interno»[3]. Al di là dei singoli lavori presentati – si tratta per Falci, Fontana, Modica e Pietroiusti di interventi rappresentatavi della ricerca allora in corso – l’adesione a questa mostra ha il merito di inscrivere la poetica piombinese nell’ambito di una generazione[4] che, nella lettura dei curatori, prende le distanze dalla filosofia e dai maestri, contravvenendo all’eredità storica attraverso «un’arte che si fa nell’esistenza»[5].

Il momento di notorietà che vive il collettivo in questo arco di anni è coronato dall’invito a partecipare a due edizioni consecutive della Biennale di Venezia. Nel 1988, sotto la direzione di Giovanni Carandente, ad essere chiamato è solo Stefano Fontana, invitato da uno dei cinque curatori di Aperto, Dan Cameron. L’artista, selezionato probabilmente sulla scorta della fotografia dei Contenitori ideologici pubblicata in un articolo di Carolyn Christov-Bakargiev su “Flash art”[6] del 1987, decide di coinvolgere nella manifestazione anche Salvatore Falci: le opere selezionate, Prova resistenza, composte da cinque strutture colorate, vengono imballate e trasportate all’interno delle casse “sperimentali” di Falci e così rimangono esposte per tutta la durata della mostra.

Si pone qui distintamente la questione della difesa di un modello operativo incentrato sull’elaborazione critica collettiva e del suo ineluttabile confrontarsi con la soggettivizzazione a cui tende in questi anni il sistema delle mostre e degli eventi, che rischia di sradicare – come poi avverrà – la saldezza del gruppo.

Diversi sono i presupposti critici con i quali gli artisti sono invitati due anni dopo alla XLIV Biennale di Venezia, curata ancora da Giovanni Carandente. Sarà Renato Barilli a coinvolgere i Piombinesi, presentandoli questa volta come gruppo. Salvatore Falci presenta in questa occasione Colonie a Venezia (1989), un’installazione di 25 vasche d’acqua che riproducono le correnti della laguna, Cesare Pietroiusti Corderie 22/2/1990 (1990), stampe fotografiche su alluminio che riproducono le pareti dello spazio d’esposizione, Pino Modica presenta Finestra, una della opere nate dalle prove di resistenza di materiali, in questo caso il vetro. Barilli inquadra il lavoro dei Piombinesi nell’ambito di un “versante freddo” della pratica artistica contemporanea, che viene tuttavia avvalorato dalla riconsiderazione degli elementi di scarto, che mettono in atto un riuso «ricco, flessibile, ingegnoso, che coglie a meraviglia la poesia, il “sublime” piranesiano, insiti nello spazio delle Corderie»[7].

Tra il 1988 e il 1991 i Piombinesi si inseriscono dunque proficuamente e autorevolmente nel dialogo serrato tra la Toscana, Milano e Torino: una triangolazione ai cui vertici si trovano grandi animatori come Luciano Pistoi, Luciano Fabro, Corrado Levi che porranno le basi critiche e le condizioni concrete affinché questo coacervo intellettivo informi l’esperienza artistica del decennio entrante. Con la galleria Alice, fondata da Domenico Nardone dopo la fase milanese con Casoli, un vertice di quel triangolo sembra allungarsi fino alla capitale. Oltre alle mostre personali degli artisti, Alice ospiterà alcune esposizioni che contribuiranno a fare il punto sulle istanze artistiche di questi anni.

Per la pregnanza critica dell’impianto teorico e per l’estensione di un progetto itinerante che vede coinvolte, oltre ad Alice e Il Campo a Roma, anche lo Studio Casoli a Milano e Noire a Torino, la mostra Storie[8] rappresenta un punto cardine per gli sviluppi artistici di questi anni. Curata da Carolyn Christov-Bakargiev e Domenico Nardone la mostra presenta opere di Henry Bond, SophieCalle, Willy Doherty, Salvatore Falci, Stefano Fontana, Christian Marclay, Pino Modica, Cesare Pietroiusti, Sam Samore. Il prelievo diretto di elementi della realtà e la loro trasmigrazione nel campo dell’arte è l’assunto che fa da cardine ai diversi interventi, linguisticamente eterogenei.

Le modalità operative e linguistiche, le scelte estetiche così come l’impianto teorico e poetico delle ricerche dei Piombinesi giungono nel triennio 1988-1991 alla piena maturità: Falci, Fontana, Modica, Pietroiusti approdano così agli esiti più rappresentativi della propria produzione artistica.

Salvatore Falci. Perché cerchi qualcosa in un ruscello d’acqua?

L’interazione produttiva - che si evolve nel tempo dall’individuo al contesto ambientale - è il baricentro della ricerca di Salvatore Falci.

Nella prima fase della sua produzioneopere quali Itaj-doshin, Pavimenti, Letti, Puff e Cuscini, realizzate tra il 1985 e il 1989, accolgono le tracce dell’interazione inconsapevole dell’individuo in differenti luoghi pubblici, con un progressivo ampliamento delle parti del corpo coinvolte: dai segni grafici accumulati sui tavoli, alle tracce delle andature e delle posture descritte dai movimenti dei piedi, fino al corpo intero sorpreso nel momento della distensione, del rilassamento, nell’assenza di tensione e portatore di un’impronta ineluttabilmente soggettiva e identitaria.

Con le serie Vasche e Fiumi il campo d’indagine si estende: l’interrogazione dell’artista si rivolge a contesti in cui l’azione dell’uomo si ibrida con quella degli elementi naturali. Ne è esempio Colonie, esposta allo Studio Casoli e alla Biennale di Venezia del 1990. L’opera è composta da 25 vasche piene d’acqua nelle quali sono immersi alcuni gruppi di assi di legno di cinque colori differenti. Con questa installazione dalle reminiscenze concettuali, Falci traslittera nel campo dell’arte un procedimento che rimanda al metodo sperimentale scientifico: le assi, infatti, vengono inizialmente gettate nella laguna veneziana in modo casuale poi, nel corso dei sette giorni successivi, l’artista ne monitora le traiettorie. Sotto l’effetto delle correnti le assi si raccolgono in agglomerati formando diverse “colonie”, il cui schema di disseminazione viene riportato nelle vasche in mostra. Queste ultime, dunque, rappresentano una sorta di mappatura delle correnti d’acqua nella città lagunare. Da questo lavoro originano diverse varianti: Effetto lago e Fiume con effetto lago (realizzato con palline da ping pong lanciate a monte di un corso d’acqua) e Guerigny. Fogne di Parigi. In questo caso le palline bianche rivelano la presenza di piccoli corsi d’acqua e deviazioni, sbarramenti e detriti presenti nei canali ai bordi delle strade di Parigi.

Con questi lavori Falci indaga il principio della dispersione e della creazione entropica di una situazione iniziale di tipo caotico che viene poi, grazie all’intervento dell’artista, riportata al suo principio di progettualità. La realtà si rivela percorsa da dinamiche invisibili di cui Falci prova a cogliere il senso ritmico e l’andamento, replicando il metodo dello scienziato nel tentativo di trovare regole nel caos dell’esistenza.

In Ponte S. Eufemia, del 1990,l’artista dissemina segatura e semi su una lastra di forex su un ponte a Venezia per 24 ore. Il passaggio di persone e oggetti modifica, trasforma e diffonde questa miscela, che viene poi umidificata, trasferita in serra e innaffiata: un procedimento che permette di visualizzare il processo di disseminazione compiuto. L’intervento di Falci è in questo caso metafora di un lavoro condiviso, e di un’idea dell’arte concepita non solo come intervento soggettivo, ma esito di una operatività di gruppo, in cui l’artista è detentore della consapevolezza e della progettualità. L’opera è dunque frutto di un incontro “germinativo” tra l’artista, che predispone il terreno d’azione, e il passante inconsapevole che ne stabilisce i caratteri.

Stefano Fontana. Vox populi

La voce del popolo, i modi e le possibilità della sua espressione e le strategie comunicative cui siamo soggetti, con le relative implicazioni in termini di ambiguità, sono tra i temi portanti della ricerca di Stefano Fontana.

Alla galleria Alice nel 1989 l’artista presenta Aula di scienze[9], un insieme di strumenti scientifici che hanno il compito di illustrare didatticamente alcuni principi della fisica. Attraverso una prolungata osservazione ci si rende conto che gli apparecchi sono paradossali, hanno proporzioni non coerenti o sono troppo complessi rispetto alla semplicità della legge che intendono dimostrare. Gli strumenti scientifici, già trattati come “opere” nell’ambito delle primissime mostre a Lascala (16 condizioni di rottura, Sette modelli) sono qui presentati in modo mordace. Se nelle esposizioni dei primi anni Ottanta la presentazione di apparecchi scientifici era occasione di riflessione critica e interrogazione sui possibili rapporti tra arte e scienza, ora l’atteggiamento dell’artista smaschera e ricusa, attraverso l’ironia, qualsiasi possibilità di relazione conoscitiva e fondativa tra le due discipline: la relazione tra le due si instaura attraverso l’opera sul piano della comune decostruzione disciplinare.

In occasione di Storie Fontana presenta Messaggi (1991): si tratta di piccoli basamenti su cui è appoggiato un telefono accompagnato dalla scritta “Messaggi”. Nel momento in cui la cornetta viene alzata entra in funzione un registratore che raccoglie le comunicazioni lasciate dagli occasionali fruitori. In mostra lo stesso telefono emette ciò che prima era stato registrato.

La ricerca sperimentale di Fontana prosegue contemporaneamente anche sul versante operativo delle Prove: i clienti di diversi supermercati sono invitati a manipolare materiali eterogenei quali pongo, rame, tela abrasiva, allo scopo di saggiarne la qualità.

Il progetto Fatanon (anagramma di Fontana), costituisce un’evoluzione di questa serie, incontrandosi con l’indagine sui modelli comunicativi della società contemporanea. L’artista colloca in varie profumerie di Piombino una serie di teste e mani realizzate in gesso per la prova dei cosmetici, che vengono poi raccolte a fine giornata. In questo caso all’oggetto-tester si aggiunge una vera e propria campagna pubblicitaria, con manifesti che ripropongono i busti con la scritta “Fatanon”.

La ricerca di Fontana si configura come un tentativo di adottare, riadattare ed infine piegare i meccanismi propri della società consumistica e le strategie pubblicitarie in una chiave artistica. I piccoli elementi incongrui - come la testa bianca anonima utilizzata per presentare l’oggetto nella campagna di comunicazione, che sostituisce quella più consueta di una figura femminile ammiccante - contribuiscono a determinare l’ambiguità percettiva, che pone l’intervento sul crinale tra verità e finzione.

Tanto nelle Prove materiali, tanto in Emettitore/Ricevitore o Fatanon, l’artista realizza segnali che vogliono richiamare l’attenzione, stimolare l’interazione consapevole e dunque un coinvolgimento volontario, benché non siano evidentemente chiare la finalità e l’uso artistico dell’oggetto. L’opera, dunque, non raccoglie le tracce di comportamenti del tutto involontari (come avviene per Falci) volontari ma non coscienti (negli oggetti trasformati raccolti da Pietroiusti) ma è il risultato di un’interazione cosciente e volontaria che si definisce però a partire da situazioni ambigue, al limite tra il normale e l’incongruo. Tra la finzione e la realtà.

Pino Modica. Spy stories

L’artista come “detective universale”, come lo definisce Renato Barilli[10], il contesto dell’intervento come “luogo del crimine”: questo l’approdo cui giunge Pino Modica in questa ultima fase dell’esperienza piombinese. Lo dimostra l’opera presentata alla galleria Alice in occasione della mostra Storie: le lastre di vetro del bancone di un bar, retroilluminate, evidenziano le sagome degli oggetti che vi sono stati poggiati.

La metafora dell’indagine poliziesca è calzante, e supportata dalle parole dell’autore: l’oggetto ha bisogno di un alibi per inserirsi nella realtà del quotidiano, per non essere riconosciuto come straniante; l’artista agisce come detective che circoscrive e analizza gli indizi; le sagome degli oggetti e le impronte prese sul “luogo del delitto” sono appunto gli indizi, portatori di un’istanza di relazione, di un rapporto instaurato tra l’individuo, l’oggetto, lo spazio, frammenti di un’esperienza quotidiana, di un vivere; il delitto, infine, è quello operato dall’oggetto rispetto alla percezione omologata dell’ignaro avventore, tratto in inganno, autore preterintenzionale, complice suo malgrado dell’artista nella sua delittuosa soppressione-trasformazione degli aspetti ripetitivi dell’esperienza quotidiana.

La ricerca di Modica scandaglia parallelamente l’interazione tra individuo e macchina - come avviene in Labyrinth, Biliardino e Flipper – e quella sulle Prove materiali.

Prova solvente, opera del 1987 costituita da sette light box sui quali i clienti di un supermercato di Piombino possono testare un liquido sverniciatore, evolverà nella serie dei Vetri (Bersagli e Infrangenze) in cui sarà la resistenza dei materiali ad essere testata, attraverso le sollecitazioni e pressioni realizzate dal pubblico. Si tratta di lastre di cristallo antisfondamento usate da inconsapevoli autori che agiscono sulla superficie con strumenti\armi di vario genere (pistole, martelli, ecc.) che rigano, forano, disegnano tracce sui vetri. La superficie è illuminata dall’interno valorizzando la resa estetica finale dell’oggetto-opera[11].

Modica proseguirà su questo filone operativo anche con Prova segatura: tre cassonetti neri, al cui interno è contenuta una luce, sono ricoperti di sabbia. Spostando poco a poco quest’ultima, i clienti del supermercato scoprono la superficie luminosa della struttura. Una scelta, quella dell’uso della luce, volta a rafforzare il valore estetico del lavoro.

Come nelle Prove materiali di Fontana questi esperimenti individuano nell’atto della sollecitazione affrancata da ogni proposito funzionale un modo per elidere le regole dettate dall’uso finalizzato e costrittivo del modello consumistico: forzando lo spazio da esso concesso, l’artista propone un’esperienza comportamentale liberatoria.

Cesare Pietroiusti. Da archeologo a mediatore

Il lavoro di Cesare Pietroiusti muta in un modo significativo all’inizio degli anni Novanta, indirizzandosi verso ambiti e modalità operative che identificheranno la sua opera successiva. La crescente centralità della riflessione sullo spazio coincide con una più accurata indagine intorno alla relazione tra l’individuo e l’ambiente, e in particolare sui significati e sulle implicazioni psicologiche, percettive, emotive di questa interazione.

Prodromi di questo orientamento poetico sono rintracciabili fin dal 1989 quando Pietroiusti propone un’indagine sul limite fisico del luogo d’arte e sulla sua relazione con lo spazio della vita quotidiana. Alice 27-01-89 è l’opera presentata in occasione della sua personale nella galleria di Nardone ed è costituita da una grande scatola, sospesa al centro sala, su cui l’artista ricostruisce fotograficamente in dimensioni ridotte cinque delle sei pareti esterne dello spazio: una parte della facciata sulla strada, un magazzino, un’abitazione.

Nella stessa direzione di ricerca si pone Finestre, presentata alla galleria Vivita a Firenze nel 1990. L’opera è costituita da fotografie che funzionano come vere e proprie finestre, aperte però su uno spazio privato: inserite nelle pareti della sala espositiva, riproducono a grandezza naturale quanto si trova negli ambienti confinanti, in questo caso un deposito della Sotheby's, un studio dentistico e la sede di una loggia massonica. Affine la modalità operativa elaborata in occasione di Something is happening in Italy curata da Carolyn Christov-Bakargiev alla galleria Lia Rumma di Napoli[12]. Dal punto centrale di ciascuna delle 17 finestre della facciata di un palazzo di Napoli viene scattata una fotografia verso l'interno e una verso l'esterno. Il titolo - Via Vannella Gaetani 12, Napoli 25 marzo 1990 – è un riferimento all'indirizzo e alla data di esecuzione delle fotografie[13].

In occasione della tappa milanese della mostra Storie l’implicazione psicologica ed emotiva dell’intervento di Pietroiusti si fa più pregnante: in Quaranta persone scelgono dove mettersi nello Studio Casoli, Milano (1991) l’artista conduce uomini e donne di età compresa fra i 18 e i 55 in una stanza vuota ponendo il seguente quesito:

«Se dovessi passare all'interno di questo spazio circa venti minuti in attesa, da solo e stando fermo in un posto e in una posizione determinati, quale posto sceglieresti e quale posizione assumeresti?»

Le quaranta posizioni scelte vengono documentate da altrettante sagome in legno a grandezza naturale, che abitano lo spazio tutte insieme in occasione dell’inaugurazione della mostra[14].

Il diverso approdo a cui giunge la ricerca di Pietroiusti nei confronti della pratica piombinese delle origini si evince dall’intervento organizzato in occasione della sezione romana di Storie, intitolato Visite: l’artista accompagna il pubblico, raccolto in piccoli gruppi, a visitare alcuni appartamenti dello stabile in cui si trovava la galleria Il Campo. All’interno delle abitazioni gli inquilini continuano a svolgere le azioni abituali, senza modificare il loro comportamento [15].

Negli interventi di questa fase Pietroiusti riflette sui significati simbolici e sulle implicazioni soggettive di cui si caricano gli ambienti, nonché sulla differenza tra lo spazio della quotidianità e quello del sistema dell’arte: «lo scopo è trattare la realtà circostante come fosse una realtà espositiva»[16]. Con Visite il confine tra questi due ambiti, contigui a livello geografico ma distanti a livello di pratiche, significati e convenzioni d’uso, viene messo in discussione: è proprio quella linea della demarcazione e differenza che i visitatori attraversano, diventando così mediatori della relazione tra mondo dell’arte e mondo reale[17].

Questo intervento marca una svolta importante nel lavoro di Pietroiusti: l’artista non è più l’archeologo del quotidiano che spia il reale alla ricerca delle tracce della devianza da comportamenti stereotipati, ma “prende in carico” l’esperienza di relazione attraverso il proprio intervento diretto. Agendo come un mediatore del rapporto tra il pubblico e lo spazio, l’artista è implicato nell’esperienza della realtà, agisce in prima persona come elemento di stimolo, dilatando in questo modo le possibilità relazionali, emotive e psicologiche dell’intervento artistico, prima assegnate al solo oggetto di stimolo.

Un passaggio che disegna il ponte con gli anni Novanta.

 



[1]Da zero all’infinito, catalogo della mostra a cura di G. di Pietrantonio e L. Parmesani, Castello della Volpaia 1988.

[2] Davvero. Le ragioni pratiche dell’arte, catalogo della mostra a cura di C. Christov-Bakargiev, G. Di Pietrantonio, A. Vettese presso galleria L’Osservatorio - Milano, novembre 1988.

[3] G. Di Pietrantonio, Angeli in libera uscita, nel catalogo della mostra Davvero…, Cit.

[4] La mostra presenta opere di: Maurizio Arcangeli, Stefano Arienti, Enrico Bentivoglio, Gabriella Casiraghi, Umberto Cavenago, Mario Dellavedova, Salvatore Falci, Stefano Fontana, Anna Homberg, Massimo Kaufmann, Nobuko Maeyama, Amedeo Martegani, Marco Mazzucconi, Pino Modica, Cesare Pietroiusti, Alfredo Pirri, Bernhard Rüdiger.

[5] Ibidem.

[6]Si tratta dell’articolo C. Christov-Bakargiev, "Oggetti auratici", Flash Art, n.141, 1987. Il lavoro di Stefano Fontana in realtà non sembra essere stato interpretato con chiarezza da Dan Cameron, che ne sottolinea l’aspetto oggettuale: «Stefano Fontana usa forme informatiche per creare mostre d’ambiente di oggetti senza senso», D. Cameron, Quando una porta non è una porta?.. Quando è aperta, in XLIII Esposizione internazionale d’Arte Biennale di Venezia , Fabbri Editori, pag. 312.

[7]R. Barilli, Verso un barocco freddo?, in catalogo XLIV Esposizione Internazionale d’Arte Biennale di Venezia – Sezione Aperto ’90, Fabbri editori, 1990, pag. 263.

[8] D. Nardone, Dal cinema neorealista alla TV della realtà, relazione al convegno Forme narrative di fine millennio, Asilo Ricci, Macerata, 10-11 maggio 2001 (estratto in Forme narrative di fine millennio, AA.BB. Macerata, maggio 2001).

[9]Stefano Fontana. Aula di scienze, catalogo della mostra presso Galleria Alice – Roma, maggio 1989.

[10] R. Barilli, Caso, quanto sei bello, articolo pubblicato su rivista non identificata negli anni Novanta, fornito da Pino Modica.

[11] Le opere sono commentate da Domenico Scudero in “Tema Celeste” n.24, gennaio-marzo 1990.

[12] Something is happening in italy, a cura di C. Cristov-Bakargiev presso galleria Lia Rumma, Napoli 1990.

[13]L’opera è un omaggio a Georges Perec.

[14]L’intervento viene ripetuto anche a Guerigny nello stesso anno. Qui i visitatori vengono condotti all'ingresso delle Fonderie Reali. Ad ognuno viene posta la domanda: "Se dovessi passare circa mezz'ora in attesa in questo luogo stando fermo in un posto e in una posizione, quale posto sceglieresti e quale posizione assumeresti? Puoi scegliere indifferentemente lo spazio esterno o quello interno". Le cento scelte vengono documentate mediante fotografie e in seguito riprodotte utilizzando delle sagome in legno che, a grandezza naturale, riproducono la posizione assunta da ciascuno.

[15]Sulla falsariga di Visite è Eastender properties, realizzato a Londra nel 1992, in cui la presenza dell'artista nel ruolo di guida è sostituita da quella di un vero agente immobiliare, che conduce gli spettatori che si prenotano a visitare quindici appartamenti e negozi realmente in vendita o da affittare.

[16] C. Pietroiusti, in Storie, cit.

[17]Da questo punto di vista l’intervento di Pietroiusti sembra incarnare quello scardinamento della differenza tra spazio espositivo e luogo della vita quotidiana che è alla base del progetto de Lascala c\o Il desiderio preso per la coda.