Tra tessuti vintage e ispirazioni d’arte, intervista alla giovane designer romana. Con un parere di Sofia Cacciapaglia.

Teresa Lucia Cicciarella

Broderie è il ricamo, frutto di una sapiente azione creativa che molte volte da artigianale diviene artistica, con ordinate sequenze di punti che man mano rivelano decori floreali, lineari, di sapore classico e raffinato o talora, invece, dal retrogusto demodé. Il ricamo è per molti, forse, la petite Madeleine di Proust, la cui vista rievoca presto ricordi d’infanzia, fili e piccoli telai; è idealmente l’ago di Oldenburg e van Bruggen a piazzale Cadorna a Milano, l’atto del legare la città alla sua espressione amatissima, la Moda, con la maiuscola che si ben addice alla tradizione italiana.

Broderies, ricami sono al tempo stesso, a mo’ di sinonimo, divagazioni e sconfinamenti da un racconto all’altro e, anche in questo senso, il sostantivo sigla la fluida rubrica che qui s’inaugura, a un anno dalla prima pubblicazione di Unclosed.

Su queste premesse, ricercando con piacere nel campo della moda  (delle giovani proposte, in particolare: osservando quelle che si distinguono per piglio e buona sostanza) abbiamo conosciuto Caterina Gatta, una stilista che proprio della ricerca ha fatto il suo motivo propulsore.

Conseguita a pieni voti nel 2011, alla Sapienza, la Laurea Magistrale in Scienze della Moda e del Costume (un percorso universitario dapprima intrapreso, come ci ricorderà immediatamente, con l’idea di sperimentarsi nell’ambito della moda in altre vesti, magari come fotografa, ma non come designer) e frequentati corsi di Fashion Styling al prestigioso Central Saint Martins College of Art and Design di Londra, la trentenne romana ha avviato nello stesso anno un brand destinato ben presto a contare sulla fiducia di blasonati protagonisti del sistema internazionale quali Vogue Italia – con la direttrice, Franca Sozzani, finalmente interpellata dopo parecchi tentativi mail andati a vuoto – e in particolare il Vogue Talents Corner di Palazzo Morando, Milano e l’istituzione AltaRoma, con la presidenza di Silvia Venturini Fendi. Fiducia pienamente meritata, dato il biglietto da visita col quale Caterina ha proposto – con garbo e appassionata determinazione – il lavoro fino a quel momento condotto privatamente, con capi demi-couture di ricercato design realizzati a partire da tessuti vintage prodotti da grandi aziende europee per conto dei massimi esponenti della creatività del secondo Novecento. Capofila, in questa preziosa raccolta, una seta di Irene Galitzine stampata alla fine degli anni Sessanta, momento di assoluta affermazione per la principessa russa residente a Roma, dapprima collaboratrice delle Sorelle Fontana e poi inventrice, nel 1962, del raffinato (e intramontabile) pijiama palazzo.

Da quel primo acquisto effettuato nel 2008, Caterina ha sviluppato una curiosa avida ricerca di magazzino, talora tra gli “invenduti” o, altrimenti, nei preziosi archivi di aziende e negozi, mettendo da parte tessuti di Fausto Sarli, Gianni Versace e Gianfranco Ferrè – acquistati in Italia – dunque quelli, coloratissimi, di Ken Scott a Londra e di Pierre Cardin e Christian Dior a Parigi. Via via, a seguire, è una vertigine ripercorrere nomi e pattern selezionati dalla stilista, da Lancetti e Balestra a Raffaella Curiel, Yves Saint Laurent, Valentino, Givenchy, Mila Schön, Emanuel Ungaro.

Le preziose stoffe – di assoluta ricercatezza nella concezione grafica e tessile – sono divenute per Caterina Gatta la materia con la quale dar foggia ad abiti dapprima realizzati per sé stessa e le amiche (specie negli Stati Uniti, durante un periodo di lavoro con un’agenzia di Public Relations internazionale), poi timidamente presentati alla Soho House di New York (2010) su suggerimento di quanti ne avevano intuito il potenziale creativo e d’innovazione.

Ha inoltre collaborato – per una collezione di borse, ancora partendo da tessuti vintage – con la designer viterbese Benedetta Bruzziches, oggi presente in boutique di tutto il mondo.

Caterina Gatta racconta di sé e del proprio lavoro con una freschezza disarmante, ben lungi da quanto vorrebbe l’immaginario legato al mondo del glamour cosmopolita; parla senza reticenza alcuna delle difficoltà incontrate agli inizi del suo percorso, specie in ragione dell’alto costo al quale i tessuti vintage da lavorare successivamente venivano e vengono venduti, tanto in Italia quanto, soprattutto, all’estero e, inoltre, del vincolo costituito dalle piccole quantità di stoffa reperibile (pezze di 10, 15, massimo 20 metri, ci racconta: misure proibitive per la realizzazione e distribuzione di un buon numero di capi).

“Comunque, tuttora” – spiega –  “operare con quei tessuti rimane l’esperienza più bella che abbia mai fatto, lavorativamente parlando. E’ una cosa che per me non ha prezzo, perché significa avere la possibilità di rispolverare la grande moda italiana degli scorsi decenni (si tratta soprattutto di tessuti degli anni Ottanta e Novanta) e renderla nuovamente fruibile in tutto il mondo, commercializzabile, seguendo un progetto che di fatto non era stato proposto prima. Da parte mia, un progetto incentrato solo su tessuti vintage e di altissima qualità”. E, aggiunge, su un’intenzione sartoriale da sempre attenta – per passione – al mondo delle immagini e delle forme delle arti contemporanee. La scultura e i volumi di Frank Gehry, ad esempio, letti e percepiti come elemento femminile, attraggono la giovane designer che inizia a sviluppare modelli propri prediligendo la piega, la sovrapposizione materica e la strutturazione semirigida, d’ispirazione scultorea, per alcuni capi. Talora alcuni modelli impiegano diversi metri di tessuto, proponendo preziose stratificazioni e pieghe che, specie sui fianchi – a formare delle particolari “ali” – sembrano richiamare l’origami, senza tuttavia indulgere ad alcuna forma di dichiarato orientalismo.

Nel lavoro di Caterina, specie nell’utilizzo degli straordinari tessuti retrò, riconosciamo l’intuito e la precoce adesione a un trend, oggi generale, che passando dalla moda arriva fino alle arti visive e viceversa: un gusto che, ai nitidi tagli e al rigore cromatico imperante fino a pochi anni fa oppone l’esplosione gioiosa delle stampe, dei decori e d’ogni sorta di pattern, talora fino alla sovrapposizione parossistica e alla sensazione di un horror vacui non privo d’ironia.

“Credo, in effetti, che l’essere appassionata d’arte si veda anche nel mio lavoro” – ci racconta – accennando anche a un parallelismo avvertito tra i due ambiti della creazione di moda e della creazione d’arte, in Italia ancora non del tutto “aperti” ad accogliere il nuovo e la creatività degli esordienti, in nome – a volte – di una malcelata esterofilia.

L’amore per l’arte, in Caterina Gatta, si manifesta con evidenza quando, a Super – evento milanese organizzato da Pitti Immagine, nonché vetrina per i nuovi talenti individuati insieme a Sara Maino, senior editor di Vogue Italia – presenta una mini-collezione per l’Autunno/Inverno 2013-2014 richiamante, lucidamente, Frida Kahlo la pittrice, l’icona di stile, l’atipica bellezza messicana ammantata di colori e decori floreali. In un intervista rilasciata in seguito, Caterina dichiarerà di prediligere gli autoritratti di Frida: da quelli classicheggianti e composti degli anni Venti a quelli drammatici, in crinoline e merletti come il notissimo Autoritratto come Tehuana (o Diego nei miei pensieri) del 1943, recentemente a Roma per la grande retrospettiva a cura di Helga Prignitz-Poda che ha fatto tappa alle Scuderie del Quirinale.

Raccontandoci la concezione degli abiti, a partire da quattordici stampe (di Versace, Lancetti, Balestra, Curiel, Ferrè e Galitzine) acquistate tra Roma Firenze e Torino, nota innanzitutto: “quando lavoravo con i tessuti vintage l’ispirazione veniva da ciò che trovavo, partiva tutto dal tessuto. Dato che in quel periodo avevo trovato delle stoffe floreali folk molto belle, il primo desiderio è stato quello di poterle collegare a Frida Kahlo, vera e propria icona, riprendendo l’immaginario legato al suo stile ma rendendolo molto più moderno. Ho studiato il plissettato delle sue gonne, riportandolo con diverse variazioni, adatte a dare contrasto e modernità ai capi. E’ stata un’ispirazione immediata, ho pensato a lei, i piccoli fiori sembravano gli stessi dei suoi dipinti e degli abiti che indossava; infine ho trovato uno straordinario e raro tessuto di Gianni Versace, molto pop, con un decoro realizzato con le maschere dei lottatori della lucha libre, il famoso wrestling messicano e da lì quella mini-collezione ha preso forma, giocando con i tessuti e le loro diverse consistenze”. Rivedendo infatti le immagini dei capi, dal lookbook alla presentazione milanese, fino alle fotografie scattate da Caterina stessa a Catalina Giangrandi Restrepo, amica modella per passione, notiamo una raffinatissima altalena tra sete e tessuti pesanti, tra maxi-pieghe e accessori di chiaro rimando al folclore messicano, come il medaglione che completa un rigido e voluminoso abito corto in nero. Grande è stato il successo ottenuto con la collezione-“Frida”, con un ampio riscontro internazionale da parte della stampa del settore e il parallelo desiderio, da parte della designer, di andare oltre progredendo professionalmente e commercializzando più largamente il frutto di quello che, dalle sue parole, è raccontato come una grande passione gestita fino a quel momento totalmente in solitaria, in ogni aspetto: dalla scelta e acquisto dei tessuti alla confezione, fino alla distribuzione.

Ed ecco, nel 2013-2014, il salto: “Oltre che per una soddisfazione personale, volevo poter realizzare un’idea totalmente mia e di conseguenza commercializzare i capi facendolo diventare di fatto un vero e proprio lavoro. Ho voluto iniziare concependo io stessa i tessuti: la prima capsule collection (piccolissima, solamente sedici pezzi) per l’Autunno/Inverno 2014-2015 è nata in collaborazione con un’artista, Sofia Cacciapaglia. Ci siamo incontrate casualmente: è stata un’esperienza interessante, perché inaspettata da parte di entrambe e nata da un interesse reciproco; i suoi disegni si prestavano benissimo alla stampa su tessuto ma l’idea è stata quella di aggiungere qualcosa di mio, realizzando non una ripresa totale dei suoi dipinti ma qualcosa di più sperimentale. Di Sofia non ho stravolto tutti gli elementi, qualcuno è rimasto fedele ai dipinti; ad altri ho aggiunto dei particolari – le stelle, ad esempio, che vorrei rimanessero la mia sigla personale, riconoscibile – per rendere il tutto pop, insolito”.

Sofia Cacciapaglia (1983) è una sofisticata pittrice milanese, formatasi a Brera con un’attenzione particolare all’arte italiana degli anni Venti-Trenta del secolo scorso e alla sospensione di certo Surrealismo. Il nitore delle sue composizioni, dalle forme spesso affini al déco, ha prestato al lavoro di Caterina Gatta nugoli di grandi pesci rossi - carpe koi, fiori sottili estremamente stilizzati ma anche – e soprattutto – volti femminili e infine piccoli ovali debitori della sintesi e della levigatezza di un Brancusi. A Sofia abbiamo chiesto un parere sull’esperienza di lavoro condotta con la stilista romana e ha commentato: “Sono felicissima di aver collaborato con Caterina Gatta: è stata una fantastica opportunità poter vedere i miei quadri reinterpretati in abiti, da una designer che stimo moltissimo, della mia stessa esatta età”. Ha poi continuato: “La forza di Caterina è la sua riconoscibilità che, come per un artista, penso sia la cosa più importante. La sua creatività è completamente libera e la rende unica. Caterina rappresenta perfettamente il nostro tempo attraverso i suoi abiti: sento il mio lavoro affine e vicino al suo mondo fiabesco e surreale e nello stesso tempo classico e leggero. Credo che il mondo stia cambiando in modo sempre più veloce, sia nell’arte che nella moda: viviamo nell'epoca delle contaminazioni e sono felice di vedere che il mio lavoro diventi ispirazione per una collezione. In questo modo la mia pittura diventa fruibile su diversi livelli e da persone diverse”.

Alla notevole capsule ha infine fatto seguito, per Caterina Gatta, una prima vera collezione completa (circa cinquanta pezzi) di prêt-à-porter: “Nel nostro gergo, una main collection”, precisa, introducendo un nuovo lavoro che immediatamente colpisce per i volumi e la fine scelta delle tinte e dei tessuti impiegati. Prodotta, al pari della precedente, con una nota azienda mantovana che si distingue per qualità sartoriale – la buona scuola italiana – e organizzativa, la collezione è un lungo prezioso omaggio allo stile di Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena, al gusto della corte di Versailles, emblema di un mondo destinato a esser reciso insieme all’Ancien régime.

Tutto è nato, oltre che da un personale interesse di Caterina verso le lavorazioni e le fogge degli abiti del Settecento, dall’incontro con il proprietario di un’azienda tessile di Como chiusa negli anni Novanta. “In azienda”, ci racconta, “c’era un immenso archivio di tessuti  che io ho acquistato in piccola parte, specie in riferimento al Settecento internazionale. Ho operato una selezione e con mio grande stupore ho trovato un piccolissimo campione d’organza siglato 1770,  con un giglio molto stilizzato  [il Fleur de lys francese, n.d.a.] color ocra. Ricordavo qualcosa; mi sono documentata e ho visto che la data combaciava con il matrimonio di Maria Antonietta con il delfino di Francia: da lì l’idea di fare una collezione ispirata a lei, recandomi lungamente a osservare e studiare a Versailles, per arrivare a forme ispirate al Settecento ma con tagli attualizzati”.

In questa linea di abiti, vero connubio tra antico e moderno, colpisce immediatamente il preziosismo dei tessuti, fatti stampare da Caterina Gatta prendendo spunto da decori (ad esempio, le stelle) presenti sulle tappezzerie, sul parquet, nel marmo o in altri più piccoli particolari della reggia francese, dal giglio impresso su piqué bianco o ancora dal fiore di buddleja, l’albero delle farfalle, stampato in lilla sul grigio-argento, il favorito di Maria Antonietta. Sontuosi, infine, lo straordinario moiré di seta nero stampato – non senza alcune difficoltà tecniche – con un motivo a grandi fiori d’invenzione, in viola e arancio e gli affini tessuti adoperati per la confezione di capi nei quali – come un leitmotiv – la grande austerità delle cappe viene contraddetta dalla modernità degli shorts o di mini-abiti, molto sofisticati.

“La cosa che per me contraddistingue i modelli” – aggiunge la designer – “è la pulizia delle forme, il fatto che siano molto minimal, che gli abiti siano strutturati in una maniera molto moderna che contrasta con la ricchezza delle stampe dei tessuti, chiaramente di stampo vintage”.  Caterina Gatta ha dunque lavorato sulle variazioni, evidenziando uno studio attento che ha analizzato le voghe aristocratiche dell’epoca accostandole per stridente contrasto al linguaggio della moda attuale.

“La mia intenzione è stata rendere moderno tutto quello che appare retrò: non sono interessata a rifare un vintage tout court ma a fare delle ricerche sul passato fino a giungere all’oggi”, racconta: nonostante la giovane età infatti, è evidente un atteggiamento, un’attenzione che può senza esitazione definirsi d’altri tempi verso la qualità, la bellezza. Interessata non alla creazione di un lusso fine a sé stesso ma rivolto alla vera qualità, dichiarata e durevole. Aggiunge: “non è il lusso che si manifesta nell’utilizzo dell’oro, delle placche preziose: è – se così può dirsi – l’attenzione, il lusso che riconosci nella scelta dei tessuti così come nelle cuciture, nella scelta dei più piccoli particolari. Una ricerca che non tutti riescono a cogliere, in tempi talmente abituati alla produzione di marchi low-cost da aver in parte tralasciato la tradizione italiana, che è quella dei grandi marchi ma anche delle sarte d’un tempo, delle nonne che confezionavano abiti per le amiche o per i nipoti. Spero quindi di poter riprendere questo discorso: per me l’importante – facendo un lavoro così di superficie, perché di fatto produco abbigliamento – è cercare di dare un valore culturale, di ricerca, d’approfondimento”.