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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

L’Italia dell’alta moda 1945-1968 al MAXXI

Domenico Scudero

 

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare il mondo dell'arte contemporanea è un microcosmo in cui vigono alcune regole molto tradizionaliste. Si tratta di una serie di codici che in qualche modo smentiscono l'idea che fare arte sia un'attività segnata dalla libertà più completa. Uno di questi codici che spesso marchia anche discorsi molto eruditi è quello che delimita l'idea dell'arte ad un rigido corollario di regole che vedono l'attività creativa sganciarsi dal mondo produttivo, di conseguenza qualsiasi attività che sia in misura anche minima funzionale alla riproduzione seriale venga etichettata come frutto di pensiero commerciale. La moda ha spesso determinato valutazioni supponenti e tendenti alla sua lateralità proprio perché senza una reale ricaduta nel sistema 'commerciale' risulta priva di scopo,  estranea alla possibilità di rappresentare elevati standard estetici. Di questa mentalità immune ai trascorsi storici di movimenti sperimentali, quali Futurismo, Surrealismo, Costruttivismo, che hanno invece adeguatamente trattato delle relazioni stringate che legano la forma del tempo al contenuto della moda, non sono rimasti estranei i grandi musei. Sebbene la moda sia stata identificata durante le avanguardie come elemento fondamentale dell'empatia formale di uno specifico sentire sperimentale - il Bauhaus è il luogo dell'evidenza di questa ricerca - l'idea che la forma della moda sia laterale rispetto alla centralità della 'poiesis' è stata accettata anche dagli stessi creativi di moda, spesso in antagonismo con la vitalità dell'arte e in forma autonoma. Solo con un evidente ritardo le grandi istituzioni hanno veicolato l'immagine della moda come parte sostanziale del mondo della forma estetica, il Moma di New York probabilmente nella maniera più credibile.

Sebbene l'Italia debba molto al mondo della moda, l'idea che una creazione sartoriale resa al suo massimo possa restituire l'immagine complessa di un'opera d'arte ha qui incontrato ostacoli e ostracismo anche in misura maggiore. Visitando la mostra che il Maxxi dedica finalmente alla moda italiana, anche considerando la ristrettezza dell'esposizione, viene da domandarsi perché avevamo bisogno di un direttore internazionale, come Hou Hanru, per poter finalmente dedicare uno sguardo scevro da determinati preconcetti sugli oggetti che la moda ha prodotto e continua a produrre. Che la cultura italiana soffra di un palese complesso di inferiorità e che continui a preferire l'idea dell'isolazionismo creativo di singoli individui geniali, da poter celebrare internazionalmente, piuttosto che difendere patrimoni che peraltro il mondo ci invidia, è, mi sembra, un fatto sotto gli occhi di tutti. Questa mostra nella sua efficiente simpatia estetica fra arte e moda celebra finalmente le opere sartoriali nella giusta misura e con razionale evidenza. Forse se la stessa operazione fosse stata compiuta da scelte interne e non decise dalla professionalità curatoriale di chi conosce bene il sistema dell'arte globale la mostra non sarebbe riuscita a definire così nettamente l'elevata realtà estetica delle creazioni della moda italiana. Non è un caso, a mio giudizio, che i piccoli singoli frammenti di arte contemporanea, Burri, Accardi, concorrano a sostenere questo giudizio propositivo sulla moda, ma probabilmente le creazioni sarebbero potute apparire nella loro eclatante austera solitudine formale anche senza. In fondo i lavori d'arte presentati sono del tutto marginali, neppure didascalici.

Non ho mai amato senza riserve la costruzione del Maxxi. Il progetto e la sua realizzazione dai costi faraonici mi sono sempre sembrati fuori misura rispetto all'usufruibilità reale dei suoi spazi e la reale necessità: nei confronti dell'arte e degli artisti, dei quali riconosciamo le difficoltà, il contenitore mi è sempre apparso snobisticamente sopra le righe. Sfido chiunque a percorrere filologicamente questo luogo senza cadere nelle perplessa constatazione che la ridondanza dello spazio determina buona parte della distrazione e dell'insoddisfazione per le installazioni. Si tratta di problemi che non discuto in questa sede, ovvero se non si sia ceduto troppo nella celebrazione oggettuale del singolo progettista, tuttavia mi riservo l'autorità da ignoto visitatore nel dire che a alcuni spazi di questo museo, al suo interno, sono progettati per uccidere qualsiasi intervento gli si voglia rappresentare. E questo è vero soprattutto nel caso di alcune sale, e in primo luogo la cosiddetta 'sala 5', irraggiungibile se non dopo aver potuto osannare la bravura di Zaha Adid, sperdendosi nei corridoi pensili che disegnano spazi sprecati, rubati. In questa sala dall'inaudita pendenza, che da sola determina un elevato costo supplementare per l'allestimento, unitamente ad una luminosità altamente biocomplessa, la problematica della rappresentazione oggettuale porta all'assurdo. Nel caso della mostra sulla moda, una mostra che nel suo interno ha fortissimi elementi di plauso, si arriva all'incredibile constatazione di non poter osservare gli oggetti in esposizione per via della pendenza della sala e della difficoltà di dover allestire con una inderogabile distorsione visiva gli elementi prescelti. La realizzazione fattiva ha notevoli suggestioni. Costruire una passerella su cui esporre con una prospettiva elevata quei singoli lavori selezionati e produrre tutta una serie di elementi documentali sulle pareti della stessa è stato certamente un fatto positivo, tuttavia in alcuni casi è davvero difficile poter leggere le didascalie, a meno di non essere, e non è il mio caso, alti due metri. Se a costoro è dato visualizzare le didascalie nella loro interezza, certamente soffriranno ugualmente nel visionare alcune opere in mostra, relegate ad un'altezza e con un'inclinazione tale da poter essere osservate solo da angolazioni complesse, quali quelle dello spazio contenitore. Gli abiti che percorrono la serpentina della passerella sono tuttavia uno spettacolo di luci, rifrazioni, palpitazioni di stoffe preziose, precisione delle cuciture. I singoli dettagli di alcune opere sono talmente preziosi da non cedere alcun terreno persino ai gioielli di Bulgari, marchio coinvolto nella sponsorizzazione della mostra, e se ne intuisce il motivo. Preziosismi a parte è davvero interessante sostare davanti i vari documenti prodotti, archivi Rai, frammenti cinematografici, fino alle lettere manoscritte che discutono le strategie per sganciare la moda italiana dalla sudditanza dal sistema parigino. Antagonismo mai risolto e positivo, fitto di scambi, sgambetti, una specie di battaglia tutta europeo-latina per il controllo del più grande mercato globale. Lì dove la moda francese era la classe per tradizione quella italiana misurava un'idea di distacco usando la preziosità della materia, la migliore tessitura, la migliore cucitura, almeno sino a quegli anni Sessanta durante i quali Valentino inventa un modo sportivo di fare l'eleganza egemone. E sulla sua creazione del 1968 appare il logo -la griffe- sotto forma di V che restituisce riconoscibilità immediata e status per chi ne indossava un capo. Forse è proprio in quel preziosismo l'origine del Fashion design che ha reso celebre in tutto il mondo lo stile italiano, e che oggi, a causa della miopia imprenditoriale e della bassezza politica della nostra realtà stiamo perdendo.

BELLISSIMA

L’Italia dell’alta moda 1945-1968

a cura di Maria Luisa Frisa, Anna Mattirolo, Stefano Tonchi

MAXXI

Creazioni di Emilio Schuberth, Sorelle Fontana, Germana Marucelli, Mila Schön, Valentino, Simonetta, Roberto Capucci, Fernanda Gattinoni, Fendi, Renato Balestra, Biki, Irene Galitzine, Emilio Pucci, Fausto Sarli.

Opere di Carla Accardi, Getulio Alviani, Alberto Biasi, Alberto Burri, Massimo Campigli, Giuseppe Capogrossi, Lucio Fontana, Paolo Scheggi.

Fotografie di Pasquale De Antonis, Federico Garolla, Ugo Mulas.