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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Il Padiglione del Messico presenta una proposta in sé particolare: un lavoro a due realizzato da Tania Candiani e da Luis Felipe Ortega, nato dall’idea curatoriale di Karla Jasso. Abbiamo intervistato Luis Felipe Ortega.

Lucilla Meloni / Luis Felipe Ortega

 

Lucilla Meloni   Possessing Nature, la “scultura sonora” che occupa la nuova sede del Padiglione del Messico nello spazio dell’Arsenale, si presenta come un’installazione transitabile che culmina in una vasca d’acqua dove scorrono, mischiandosi, immagini provenienti  da Città del Messico e da Venezia. Seguendo l’idea curatoriale di Karla Jasso, che ha concepito il progetto per la Biennale di Venezia come una messa a confronto della storia e della realtà delle due città, tu e Tania Candiani avete creato un luogo denso di riferimenti, che è innanzitutto una riflessione sul potere e i suoi simboli. Immagini cartografiche, architettoniche, di sistemi idraulici, emergono e fluiscono dall’acqua drenata dal canale vicino al Padiglione.  Come nasce e come si sviluppa l’articolazione del progetto?

Luis Felipe Ortega   Questo progetto nasce da un’idea curatoriale di Karla Jasso, in relazione alla proposta complessiva di Okwui Enwezor per la Biennale. In quanto studioso del colonialismo e del post-colonialismo, Okwui  aveva già definito il taglio storico del suo progetto, che Jasso riprende con la lettura di Città del Messico e di Venezia come città anfibie. Inoltre Jasso ha “ri-letto” i luoghi attraverso i quali il Messico ha partecipato alle precedenti edizioni veneziane, fuori dallo spazio ufficiale della Biennale. Carla è una storica e, in quanto tale, è capace di identificare e definire questi eventi storici. Da qui, fu chiaro che il progetto era quello di riflettere sul potere e sulle modalità in cui questo si manifesta, attraverso la strutturazione di una città. Con questi due concetti in mente, Carla mi mandò l’invito a prendere parte al progetto, in collaborazione con Tania Candiani. In precedenza non avevo mai avuto nessuna forma di collaborazione con Tania, nessun dialogo, apparteniamo a due differenti generazioni e lavoriamo con idee e media diversi. La proposta di condivisione proveniva dalla curatrice e per questo iniziammo a portare avanti le nostre idee sui processi scultorei e visivi e a definire l’idea di una scultura che si dispiega in diversi momenti, che nei suoi percorsi trasforma la sua funzione e la sua consistenza. Sarà poi compito dei critici analizzare i procedimenti di ognuno di noi, per indagare gli aspetti formali e concettuali di Possessing Nature.

L. M.  Tra i concetti di “traccia” e “tragitto” (di cui parli nel testo in  catalogo) si sviluppa una narrazione che ha come centralità l’idea dello spazio pubblico come spazio politico. E’ un lavoro politico, questo?

L. F. O.  Mi poni una questione molto importante. Innanzitutto, ti rispondo con un’altra domanda: che significa, oggi, pensare politicamente a partire dall’arte? Penso che questo sentimento sia frequentemente cambiato e che ogni momento dell’arte generi differenti risposte. Se pensiamo a Bruce Nauman o a qualche artista italiano dell’Arte Povera, traiamo per lo meno due risposte. Ambedue ci lasciano intuire che stanno pensando politicamente, però il politico passa per due strade: nel caso di Nauman questo è incentrato sul soggetto (per il suo interesse per Beckett), nel caso di qualcuno come Paolini si svilupperà nella sua condizione di passante della strada, per gli oggetti carichi di vita quotidiana.

Penso che Possessing Nature sia un lavoro politico, in quanto si appella a un sentimento storico, che inquadra i suoi elementi concettuali e formali in momenti specifici: in una città, Città del Messico, che fu sezionata e tracciata dall’idea coloniale e dalla forza del potere economico e politico con un’arroganza che si è ripetuta sistematicamente. E’ anche una condizione storico-politica, se consideriamo l’idea della monumentalità nell’arte, nei processi formali che dal Rinascimento stigmatizzarono il monumento come un trofeo e come una dimostrazione di forza. Questa azione monumentale nell’arte si rinnova di tanto in tanto e l’arte moderna ha voluto tenerla il più lontano possibile.

Bisognerebbe dire che pensare politicamente e agire politicamente nell’arte, significa accertarci che ci siano elementi estetici che si vanno problematizzando, che questo non si risolve in una denuncia, che bisogna andare più in là, molto più in là della denuncia di un’ingiustizia. L’arte ha il compito di guardare più lontano e, in questo senso, pensare politicamente significa intessere complesse relazioni di pensiero, per fare di ogni opera una solida idea supportata da questioni complesse (queste questioni provengono generalmente dalla filosofia e sto pensando a filosofi come Spinoza o Foucault). Sto pensando anche a una rilettura dei nostri spazi, tanto di quelli quotidiani, tanto di quelli che trasformiamo nei supporti della nostra produzione visuale, spazi che possiedono una carica politica specifica: lo spazio pubblico, dove ho lavorato per molto tempo, contiene sempre questa carica (che deve permeare l’opera, così come l’opera lo deve permeare). 

L. M. Nel corso della tua carriera, hai lavorato più volte con altri artisti (con Daniel Guzman nel 1994 per Remake) o ti sei confrontato con le loro opere, come in Doble exposición (2012), dove sei intervenuto su un lavoro di Fischli & Weiss. Che senso ha, per te, la condivisione di un progetto?

L. F. O.  Penso che esistano diverse maniere di realizzare una collaborazione e che questa debba intendersi a sua volta in differenti modi. Vengo da una generazione che ha discusso criticamente tali processi, e che anche, naturalmente, ha lavorato insieme. Nella mia generazione ero l’artista che aveva maggiore esperienza con il video e dunque sempre - o quasi sempre - era mia la camera, quando qualcuno aveva un’idea e aveva bisogno di girare un video. Discutevamo l’idea e poi mi incaricavo di girare il video e di fare l’editing. Contemporaneamente scrivevo e pubblicavo regolarmente, la scrittura era anche un’estensione dei processi che condividevamo nella produzione dei nostri pezzi. Era un’altra maniera di intendere la collaborazione. Rispetto a Remake, devo fare qui una speciale menzione, poiché è l’unico lavoro che io abbia firmato con un altro artista, prima di Possessing Nature. Daniel Guzmàn è uno dei miei più grandi amici e uno degli artisti della mia generazione che più ammiro; abbiamo condiviso l’interesse per l’arte, la musica, la letteratura, i film. Così realizzare Remake era una dichiarazione di quello che ci interessava e della maniera in cui sentivamo la necessità di fare l’arte. Rispetto a Fischli & Weiss: ho sempre affermato la necessità di studiare gli artisti che mi interessavano e che a volte diventavano miei maestri. Ho appreso molto da questi artisti, così intervenire su uno dei loro libri ha significato una via per riconoscerli e per riconoscermi nei loro procedimenti, e anche per generare un minuzioso processo di osservazione. Ho lavorato tre mesi, dieci ore al giorno intervenendo sul libro. Così ho conosciuto ogni millimetro di Flowers. Potrei dire che avrei voluto continuare ad imparare da loro. Durante il mio lavoro “sul” loro lavoro, David è morto, loro interruppero un processo di collaborazione pluriennale, io ho cessato il mio rapporto con loro e ognuno continua per conto proprio.

L. M. Se in Possessing Nature le due autorialità si mischiano, nondimeno riconosco come tuoi alcuni elementi, quali l’acqua, che porta con sé il silenzio e il rumore, il fluire come metafora del passaggio... Sei un artista multimediale, che usa il video, il disegno, materiali vari per le installazioni, con riferimenti costanti alla filosofia e alla letteratura. Nel testo in catalogo parli di “scultura come sistema”. In questo caso, questa scultura sonora che invita il visitatore a percorrerla nella sua lunghezza, è metafora della modernità, intesa come “divenire costante”. A quest’idea di velocità sembra opporsi il tempo “lento” delle tue immagini, che scorrono trapassando l’una nell’altra. La temporalità, infatti, è centrale in tutto il tuo lavoro, e per quel che riguarda le immagini video, hai parlato della volontà di ridurle, quasi ad essere dei fotogrammi...Mi spieghi meglio questo concetto?

L. F. O. Penso che a causa della mia educazione nel mio lavoro siano sempre latenti alcuni concetti che provengono dalla filosofia; sono interessato ad alcuni concetti forti, che sono stati una costante ossessione per alcuni pensatori. Lo spazio e il tempo sono due di questi. Ambedue i concetti hanno un numero di sfumature e di propaggini che li rende molto complessi, possono andare dal politico al poetico e fare molti giri durante il loro cammino. Quando penso allo spazio e alla maniera di problematizzarlo, penso sempre a un soggetto che lo sta attraversando, allo stesso modo posso spostare l’idea dello spazio dall’astrazione alla materializzazione (in relazione alla scala e ai materiali, per esempio; penso anche allo spazio come lo ha definito Foucault nella sua conferenza del ’69). Quanto al tempo, attraverso scrittori come Borges, sono stato meravigliato della sua condizione lineare e mi meraviglio di tutte le altre possibili vie che usiamo per comprenderlo (la simultaneità o l’assenza di movimento). Ho costruito opere di grande formato (come La verdad habita en el fondo del túnel, 2010), che toccavano problemi scultorei ma anche il contenuto del suo intimo itinerario, la possibilità di generare un’esperienza nello spettatore nel percorrerlo (camminare in un luogo oscuro, sopra vetri che saranno rotti dal suo stesso peso, infine prendere il cammino inverso per cercare l’uscita), questo viaggio è puro tempo, è reale e concreto come un tempo parallelo al nostro tempo ordinario. E’ un processo in cui il corpo determina il funzionamento delle idee e delle immagini (assenti in questo caso).

Un altro aspetto essenziale nel mio lavoro, e che naturalmente sta nel video, in cui il problema del tempo è permanente, è l’osservazione. Penso che ciò che ha occupato buona parte della mia produzione è l’esercizio dell’osservazione, tanto nella mia quotidianità, quanto di fronte a certi paesaggi e luoghi. In questo senso, voglio portare l’osservatore nel lavoro attraverso un’alterazione del tempo di osservazione, a volte rallentando l’immagine o realizzando movimenti molto lenti con la camera.

Nel caso di Possessing Nature ho filmato con una camera ad alta velocità (240 frames al secondo), che mi permetteva di avere un’immagine che contiene tutte le informazioni visuali in una definizione che vent’anni fa era impossibile avere. Ho filmato con l’intenzione di generare un’osservazione molto minuziosa di Venezia e di Città del Messico da un punto di vista che nessun passante o viaggiatore può avere.

La relazione spazio-tempo è definita dalla presenza di un individuo che è capace di pensare mentre non succede nulla nell’immagine, mentre la narrazione si congela, tanto da chiedersi: che sto facendo qui? Intendo dire, le domande sull’ambiente, sul lavoro, sulla scultura, sul suono e sull’immagine si rivolgono contro se stesse: chi è il soggetto che osserva? O, detto in un’altra maniera: che tipo di soggettività si costruisce lungo il sentiero di questo viaggio, di questo tempo di osservazione? Se qualcuno è capace di pensare a se stesso, in qualsiasi momento la sua risposta avrà una carica politica, poiché pensare a se stessi è già un’azione politica che potrà divenire un’esperienza estetica, ambedue sono, senza dubbio, spazi di rischio in termini di soggettività.

Testo in spagnolo

El Pabellón de México presenta una propuesta en particular:  una obra creada por dos, Tania Candiani y Luis Felipe Ortega, nacida de la idea curatorial de Karla Jasso.  Entrevistamos a Luis Felipe Ortega:

Lucilla Meloni  Possessing Nature, la “escultura sonora” que ocupa la nueva sede del Pabellón de México en el espacio del Arsenal, se presenta como una instalación transitable que culmina en una tina donde fluye el agua y se mezcla con imágenes provenientes de la ciudad de México y de Venecia.  Siguiendo la idea curatorial de Karla Jasso, que concibió el proyecto para la Bienal de Venecia como un equilibrio entre la historia y la realidad de ambas ciudades, tú y Tania Candiani crearon un lugar lleno de referncias, que es principalmente una reflexión sobre el poder  y sus símbolos.  Imágenes cartográficas, arquitectónicas, de sistema hidráulico, emergen y fluyen del agua drenada del canal cercano al pabellón.  ¿Cómo nace y cómo se desarrolla el proyecto conjunto?

Luis Felipe Ortega  Este proyecto nació de una idea curatorial de Karla Jasso, que a la vez estaba tratando de ser consecuente  con la propuesta de Okwui Enwesor. Como estudioso del colonialismo y el postcolonialismo, Okwui definía un corte histórico en su proyecto y Jasso lo retomó a través de una lectura de la ciudad de México y Venecia como ciudades anfibias. Además releía los lugares por los que México había pasado en otras ediciones, fuera del espacio oficial de la Bienal. Karla es historiadora y como tal pudo definir estos cortes históricos. Desde ahí era evidente que el proyecto trataba sobre el poder y la manera en que se manifiesta desde la estructuración de una ciudad para desplegar su poderío. Con estos dos ejes en mente Karla nos hizo la invitación para realizar el proyecto, en colaboración con Tania Candiani. Nunca había realizado ningún tipo de colaboración con ella, no tenía ningún diálogo con ella, pertenecemos a dos generaciones distintas y trabajamos con medios e ideas distintas. La propuesta de que podríamos colaborar fue de la curadora y esa es la razón por la que comenzamos a desplegar las ideas hacia procesos escultóricos y visuales, a plantar la idea de una escultura que se desdoblara en diversos momentos, que en su recorrido transformara su función y su consistencia. Será tarea de los críticos revisar los procesos previos de cada uno para indagar sobre los intereses formales y conceptuales de Possessing Nature.

L. M. Entre los conceptos de “traza” y “trayecto” (de los cuales hablan en el texto del catálogo) se desarrolla una narrativa que tiene como idea central el espacio público como espacio político.  ¿Esta es una pieza política?

L.F.O. Haces una pregunta muy importante. Primero voy a responder con una pregunta: ¿qué es, actualmente, pensar políticamente desde el arte? Pienso que éste entendido ha cambiado frecuentemente y que cada momento del arte genera una respuesta distinta. Si pensamos en Bruce Nauman o en algún artista italiano del Povera, tendríamos por lo menos dos respuestas. Ambos dejan ver que están pensando políticamente, pero lo político pasa por dos cortes: en el caso de Nauman está centrado en el sujeto (por eso su interés en Beckett) y en el caso de alguien como Paolini pasa por su condición de transeúnte, por la calle, por los objetos cargados de una vida cotidiana.

Pienso que Possessing Nature es una pieza política en tanto que apela a un sentido histórico, a recargar sus elementos conceptuales y formales en momentos específicos: en una ciudad, la de México, que fue disecada y trazada desde una actitud colonial y desde la fuerza del poder económico y político cuya arrogancia no deja de repetirse sistemáticamente. También es una condición histórico-política si consideramos la idea de monumentalidad en el arte, en los procesos formales que desde el Renacimiento impulsaron al monumento como un trofeo y como una demostración de fuerza.  Esta acción monumental en el arte se retoma cada cierto tiempo y el arte moderno quiso llevarla lo más lejos posible.

Habría que decir que pensar políticamente y actuar políticamente desde el arte implica asegurarnos de que existen elementos estéticos que se están problematizando, que no se detiene en una denuncia, que se debe ir más allá, mucho más lejos que solamente  denunciar un acto cualquiera de injusticia. El arte tiene la tarea de ir más lejos, y en ese sentido pensar políticamente es tejer relaciones de pensamiento complejas que hagan de cualquier obra una idea sólida apoyada en preguntas complejas (esas preguntas generalmente vienen de la filosofía -estoy pensando en filósofos como Spinoza o Foucault). Estoy pensando también en una relectura de nuestros espacios, tanto cotidianos como aquellos que convertimos en soportes de nuestra producción visual, espacios  que tienen una carga política específica: el espacio público, donde he trabajado por mucho tiempo, siempre tiene esa carga (y debe impregnar a la obra y es importante que la obra lo impregne también).

L. M. En el curso de tu carrera, has trabajado en varias ocasiones con otros artistas (con Daniel Guzmán en 1994 para Remake) o te han enfrentado con el trabajo de otros, como en Doble Exposición (2012) donde has intervenido una pieza de Fischli and Weiss.  ¿Qué sentido tiene, para ti, la colaboración en un proyecto?

L. F. O. Pienso que hay distintas maneras de realizar una colaboración y que la colaboración debe entenderse también de varias maneras. Vengo de una generación que así como discutió críticamente sus procesos, también vivió naturalmente el trabajo en colaboración. Dentro mi generación yo era el artista que más experiencia tenía con el trabajo en video y entonces la cámara siempre –o casi siempre- era mía cuando alguien tenía una idea y había que hacer un video. Discutíamos la idea y entonces me encargaba de realizar la cámara y la edición. También  escribía y publicaba regularmente, la escritura era también una extensión de los procesos que compartíamos en la producción de nuestras piezas. Era otra manera de entender la colaboración. Respecto a Remake hay que hacer una mención aparte pues es la única pieza que había firmado con otro artista antes de Possessing Nature. Daniel Guzmán es uno de mis mejores amigos y uno de los artistas que más admiro de mi generación, compartíamos intereses en relación al arte, a la música, la literatura y el cine.  Así que realizar Remake era un statement de lo que nos interesaba y de la manera en que entendíamos la necesidad de hacer arte. Respecto a Peter Fischli & David Weiss: siempre he hablado de la necesidad de estudiar a los artistas que me interesan y que se volvieron mis maestros. Aprendí mucho de esos artistas, de modo que intervenir su libro era una manera de reconocerlos y de reconocerme en sus procesos, pero también de generar un proceso de observación minucioso. Trabajé tres meses, durante diez horas al día interviniendo su libro. De modo que conozco cada milímetro de Flowers. Podría decir que quería seguir aprendiendo de ellos. Durante ese proceso de mi pieza ‘sobre’ la obra de ellos murió David, ellos cerraron un proceso de colaboración de muchos años; y yo también cerré ese proceso con ellos y todos seguimos en solitario.

L. M. Si en Possessing Nature la autoría de ambos se mezcla, no obstante reconozco como tuyos algunos elementos, como el agua que trae consigo el silencio y el rumor, el fluir como metáfora del paso… Eres un artista mutimedia, que utiliza el video, el dibujo, diversos materiales para las instalaciones, con referencias constantes a la filosofía y la literatura.  En el texto del catálogo hablan de “la escultura como sistema”.  En este caso, esta escultura sonora que invita al espectador a recorrerla en su longitud, es metáfora de la modernidad entendida como “devenir constante”.  A esta idea de velocidad parece oponerse el tiempo lento de tus imágenes, que fluyen pasando de una a otra.  La temporalidad, de hecho, es central en todo tu trabajo, y respecto a las imágenes de video, has hablado del deseo o voluntad de reducirlos casi al nivel de fotogramas… ¿Me puedes explicar mejor este concepto?

L. F. O. Pienso que debido a mi formación siempre hay conceptos latentes en mi trabajo que vienen de la filosofía, conceptos duros que han sido una obsesión permanente para algunos pensadores que me interesan. El de espacio y tiempo son dos de ellos. Ambos conceptos tienen una serie de matices, de aristas y de capas que los hacen muy complejos, pueden ir de lo político a lo poético y hacer muchos giros en el camino. Cuando pienso en el espacio y la manera de problematizarlo, siempre pienso en un sujeto que lo estará atravesando, de esa manera puedo mover la idea del espacio, desde la abstracción hasta su materialización (en relación a la escala y los materiales, por ejemplo; también pienso en los espacios como los definió Foucault en su conferencia del 69). En cuanto al tiempo, junto con escritores como Borges, me he preguntado sobre su condición lineal y me pregunto sobre otras maneras posibles que tendríamos de entenderlo (la simultaneidad o el no movimiento). He construido piezas de gran formato (como “La verdad habita en el fondo del túnel”, 2010), que abordan una serie de problemas escultóricos pero también el asunto de su recorrido interno, de la posibilidad de generar una experiencia en el espectador al recorrerla (caminar por un lugar oscuro, sobre vidrios que serán rotos por su propio peso, y luego hacer el camino inverso para salir), ese recorrido es puro tiempo, es real y es concreto a la vez que es un tiempo paralelo a nuestro tiempo ordinario.  Es un proceso en que el cuerpo estará condicionando el comportamiento de las ideas y de las imágenes (ausentes en este caso).

Otro aspecto que es fundamental en mi trabajo y que, por supuesto, está en el video donde el problema del tiempo es permanente, es el de la observación. Pienso que lo que ha ocupado buena parte de mi producción es el ejercicio de observación tanto en mi cotidianidad como frente a ciertos paisajes y lugares. En ese sentido quiero llegar al espectador a través de una alteración del tiempo de observación en la piezas, a veces alentando la imagen o realizando movimientos muy lentos con la cámara.

En el caso de Possessing Nature filmé con una cámara de alta velocidad (a 240 cuadros por segundo), eso me permitió tener una imagen cuya materialidad contiene toda esa información visual en una definición que no podía tener hace veinte años. Filmé con la intención de generar una observación muy minuciosa de Venecia y México desde un punto de vista que ningún transeúnte ni navegante puede tener.

La relación imagen-tiempo está definida por la presencia de un sujeto que es capaz de pensarse mientras no sucede nada en la imagen, mientras la narrativa se congela y él puede preguntarse: ¿qué estoy haciendo aquí? Es decir, la pregunta sobre el entorno, sobre la pieza, sobre la escultura, el sonido y la imagen se vuelve contra él mismo: ¿quién es ese sujeto que observa? O dicho de otra manera: ¿qué tipo de subjetividad se construye a lo largo de ese recorrido, de este trayecto, de ese tiempo de observación? Si alguien es capaz de pensarse a sí mismo, en algún momento su respuesta tendrá una carga política pues pensarse a sí mismo ya es una acción política que podría devenir en una experiencia estética, ambas son, sin duda, espacios de riesgo en términos de subjetividad.