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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Il Forum dell’arte contemporanea italiana 2015 prosegue i suoi lavori: Lucilla Meloni ha intervistato Cesare Pietroiusti, tra i promotori dell’iniziativa e sostenitore del modello laboratoriale

Lucilla Meloni/Cesare Pietroiusti

Sul sito del Forum (www.forumartecontemporaea.it) è stato pubblicato il resoconto generale emerso dalle tre giornate di lavoro, ossia un documento che sintetizza un modello di sistema a cui il Forum, che si trasforma in struttura permanente, lavorerà nei prossimi mesi, al fine di presentare alle istituzioni  proposte concrete, a partire dalla separazione tra cultura e politica.  Vengono inoltre pubblicati via via i video dei diversi tavoli di lavoro e delle assemblee plenarie e le registrazioni sonore degli interventi.  

Abbiamo intervistato Cesare Pietroiusti, tra gli ideatori del Forum.

Lucilla Meloni. Quando ci siamo incontrati a Prato nella giornata inaugurale del Forum, commentando l’affluenza dei partecipanti e del pubblico, hai subito citato l’esperienza del Link di Bologna, dove nel 1997 si è tenuto il famoso incontro “Come spiegare a mia madre che ciò che faccio serve a qualcosa?

Comunicazione, quotidianità, soggettività. Un convegno sulle nuove ricerche artistiche italiane”, da te curato insieme con Salvatore Falci, Eva Marisaldi, Giancarlo Norese, Anteo Radovan, Cesare Viel, Luca Vitone, che poi è diventato un libro documento editato da Charta.

Quasi un ventennio dopo si è svolto a Prato, organizzato dal Centro Luigi Pecci diretto da Fabio Cavallucci non un convegno sui linguaggi dell’arte promosso da artisti, ma un forum che ha avuto l’ambizione di dibattere i molteplici aspetti del sistema dell’arte contemporanea in Italia, con molti partecipanti ai tavoli, che ha visto in dialogo generazioni diverse di artisti, critici, storici dell’arte, direttori di Musei e di Fondazioni, il mondo delle Accademie e delle Università, economisti della cultura, quanto i testimoni di spazi autogestiti, chiamati a condividere la propria esperienza e a progettare proposte.

Come prima domanda, ti chiedo cosa è cambiato da allora ad oggi. Quali urgenze appartengono al nostro presente rispetto a vent’anni fa?

E poi: come è nata l’idea di questo Forum?

Cesare Pietroiusti. Il più grande ed evidente cambiamento rispetto a venti anni fa è l’allargamento dell’interesse rispetto all’arte contemporanea, la quantità di persone che, con approcci, punti di vista e posizioni professionali diverse, costituiscono una comunità, magari dispersa, ma in grado di riconoscersi e ritrovarsi. Nel ’97, quando organizzammo quel convegno al Link, la posta elettronica la avevano solo pochissimi fra noi (a parte i “Premiata Ditta”, il primo che io ricordi era Norese), e i rapporti si tenevano con agendina e telefono. Dopo pochi mesi già l’avevamo tutti, e questo portò ad una esplosione nel numero dei “contatti”. Forse l’allargamento di cui parlo parte proprio da lì. Internet poi ha consentito una diffusione della conoscenza di ciò che accade a livello internazionale che, ancora alla fine degli anni ’90 era impensabile. Tutto ciò ha determinato trasformazioni che, viste dal mio punto di vista di allora, sono quasi esaltanti: nuove riviste (su carta e in rete), corsi universitari (IUAV, Naba ecc.), programmi di residenza, possibilità di collaborazioni internazionali, e soprattutto un grande numero di giovani entusiasti e sinceramente interessati alla ricerca e alla sperimentazione artistica. Allo stesso tempo l’allargamento di tale interesse ha portato a uno sviluppo di perversioni all’interno delle istituzioni poiché, per esempio, è stato visto da molti degli amministratori della cosa pubblica come un’occasione di visibilità e di autocelebrazione (oltre che di spreco o addirittura di diversione clientelare di denaro pubblico): penso, per esempio, all’assurdità del MAXXI a Roma, il cui progetto fu approvato proprio nel 1997 (e molti di noi lo denunciarono subito – fu una delle iniziative sorte parallelamente ai “progetti Oreste”) e che ha rappresentato una enorme spesa che alla fine ha prodotto un mostro autoreferenziale ingestibile e inutilizzabile, per costi, concezione, estetica, rapporti con la città, elefantiasi burocratica, pressioni politiche ecc.

Questo Forum di Prato è nato dalla volontà di tentare di porre un qualche rimedio alla mancanza di consapevolezza – e, banalmente, di contatti – di cui soffrono le istituzioni rispetto ai linguaggi, ai discorsi, alle possibilità della ricerca artistica. Nasce anche dalla percezione del pericolo che l’allargamento della “platea” dell’arte contemporanea possa corrispondere a una sorta di eclissi del pensiero critico; dalla necessità di rigenerare coraggiosamente i percorsi formativi offrendo a quel meraviglioso humus rappresentato dagli studenti che frequentano le Accademie di Belle Arti la densità conoscitiva, la radicalità critica, e la speranza di una vita pregna di senso che loro meritano e che la ricerca artistica può offrire.

L. M. Sei tra i promotori di questo Forum, insieme con Fabio Cavallucci, Ilaria Bonacossa, Anna Daneri, Pier Luigi Sacco, che è organizzato per tavoli tematici aperti al pubblico. Tanti tavoli, oltre quaranta, molti gli interventi dei relatori e del pubblico. Nel tuo intervento conclusivo hai parlato di orizzontalità della comunicazione, del tavolo come luogo in cui le idee perdono la loro autorialità, del tavolo come figura di una mente collettiva che pensa, che elabora....

L’idea della condivisione del progetto, della comunità, è alla base del tuo lavoro fin dagli anni Ottanta; dall’esperienza di “Oreste” (che approda con un sala alla XXXXVIII Biennale di Venezia del 1999) ad oggi, sono state molteplici le occasioni in cui hai messo in piedi o hai partecipato a comunità fluide e provvisorie.

A partire dunque dalla tua esperienza, credi che questa modalità di intervento e di pensiero collettiva e orizzontale abbia prodotto o sia in grado di produrre ancora piattaforme di senso, visioni del futuro, trasformazione dello stato delle cose?

C. P. Credo di sì. Credo che il “modello del tavolo”, con le caratteristiche che tu hai individuato, sia sostanzialmente lo stesso del modello laboratoriale che, in questi anni molti artisti (in genere sono quelli che, più che vendere opere si dedicano alla formazione) hanno sviluppato, perfezionato, e portato ad “agire” nei contesti più diversi. Credo che, in questo senso, l’esperienza dei laboratori dello IUAV sia stata un’esperienza pilota; l’ipotesi, che ho già formulato altrove, è che quel modello laboratoriale possa rappresentare un interessante e promettente luogo di incontro e di fecondazione fra il modo di concepire e dare senso alle mostre (le grandi Biennali, per esempio) e il modo di concepire la formazione (accademica o universitaria che sia). Penso, per esempio, a quello che è successo a Documenta 13 con i “laboratori permanenti” di And And And (Rene Gabri e Ayreen Anastas), di Theaster Gates, di Critical Ensamble, e molti altri. Oltre a ibridare formazione ed esposizione, i laboratori possono poi creare momenti di scambio tra discipline diverse: io sogno un luogo, in Italia, dove possano discutere e lavorare – e anche “produrre” – insieme, artisti che utilizzano i linguaggi teatrali, musicali, cinematografici, con i cosiddetti artisti visivi. Ma anche, perché no, con biologi, agricoltori, astronomi… Fra l’altro, con gli artisti di quell’inusuale gruppo che è Lu Cafausu (Negro, Presicce, Fantin, Norese, e l’apporto di molti altri fra cui, in primo luogo, proprio Anastas e Gabri) stiamo per tentare di dare una forma a questo sogno…

L. M. Credo che il Forum sia stato un’ottima occasione per una riflessione collettiva e che pertanto abbia centrato il suo primo obiettivo, a cui certamente faranno seguito, come ribadito da Fabio Cavallucci e da voi tutti promotori, ulteriori momenti propositivi. La mia sensazione, alla fine delle tre giornate di dibattiti, di resoconti, di riflessioni, a giudicare dalla professionalità emersa dal dibattito stesso e dalle esperienze condivise, quanto da un certo entusiasmo, è che “lo stato delle cose” non sia senza via di uscita. Certamente, le problematiche legate ad una generale inadeguatezza del sistema dell’arte italiano rispetto ai modelli europei (a partire dal mancato sostegno - e riconoscimento - istituzionale alla ricerca artistica), sono moltissime, ma fondamentalmente di natura politica.

Tu, come promotore, quale idea ti sei fatto, a conclusione dei lavori?

C. P. Sì, l’impressione complessiva è positiva e induce a un certo ottimismo. Sono convinto che le condizioni politiche siano in qualche modo mature per consentire un ripensamento. Si potrebbe anche dire che il ridicolo raggiunto da certe manifestazioni di intrusione della politica nella cultura è talmente grave (vedi gli ultimi tre o quattro Padiglioni Italiani alla Biennale) che necessariamente bisognerà trovare qualche recupero di legittimità della politica culturale. Nessun modello è perfetto però credo che gli esempi dell’Arts Council britannico e di pro-Helvetia possano dare qualche buona idea ai nostri amministratori. Sono d’accordo con il principio dell’arm’s length su cui torna spesso Cavallucci. La cultura, e la ricerca artistica, sono i campi in cui, più di ogni altro caso, l’autonomia va preservata.

L. M. Hai coordinato un tavolo il cui tema era “La lingua italiana”, che ha messo al centro “l’indispensabilità della sua funzione e della sua ricchezza, non riconducibile alla traduzione inglese”.

Ti chiedo perché hai scelto di trattare questo argomento, così particolare, di indubbio interesse rispetto al depauperamento linguistico (e quindi concettuale) di cui siamo purtroppo testimoni. Hai parlato dell’italiano in funzione creativa, immaginativa… E quali sono state le conclusioni uscite dal tavolo.

C. P. Se si parla delle difficoltà, o, come si dice spesso, delle “criticità” di un contesto, bisogna anche provare ad andare alle radici, e non limitarsi alle problematiche organizzative, economiche, o amministrative. La diffusione del basic English, che indubbiamente rappresenta una fenomenale possibilità di diffusione degli scambi, rischia sempre, per i non-anglofoni, di determinare una semplificazione che, dal discorso, si propaga al pensiero. Rischiamo, quasi tutti, di pensare in modo un po’ piatto e infantile (che è appunto il modo in cui, quasi tutti, parliamo in inglese). Oltre al fatto che rischiamo di finire a pensare nel “modo” tecnico-pragmatico-economico (business-market-advertising-show oriented), che la lingua inglese usata internazionalmente (che non è certamente più la lingua di Shakespeare), favorisce, induce, forse addirittura obbliga.

Non propongo di “rivalutare” in chiave nazionalistica o vernacolare la lingua italiana. Dico solo che la diffusione degli scambi può sviluppare il, e trarre giovamento dal, plurilinguismo piuttosto che dal monolinguismo. Perché non proviamo, tutti, nei contesti internazionali, a esprimere certi concetti, almeno quelli più importanti, usando le parole e le espressioni ciascuno della propria lingua, spiegandoli in tutti i modi possibili (compreso l’uso dell’inglese come “sottofondo esplicativo”)? Ci metteremo magari più tempo, ma sarà interessantissimo. Proviamo a dire a degli inglesi, per esempio, che in italiano ci sono tre parole diverse per dire face, faccia, viso e volto, e proviamo a raccontare le sfumature legate al vedere o al voltarsi. Sarà interessante anche per loro. No?

L. M. Dal Forum è anche emersa la presenza di una nuova generazione di critici, di curatori, di operatori del settore formatasi nell’era della globalizzazione. Una generazione che sembra indubbiamente più pragmatica e meno idealista di chi l’ha preceduta…

Mi interessa il tuo punto di vista su questo aspetto.

C. P. Forse soprattutto meno ideologica… Il che non è male. Però è importante, se ci si occupa di questa cosa bellissima che è l’invenzione, la ricerca, ma anche l’inquietudine artistica, non perdere mai di vista l’orizzonte del sogno, della speranza di poter un giorno dare voce e condividere impenetrabili segreti e progetti impossibili.