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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Patrizia Mania e Lucilla Meloni hanno incontrato Bertille Bak alla sua prima personale italiana “Radice” svoltasi negli spazi di The Gallery Apart a Roma

P.M. All’ingresso in galleria colpisce un’installazione raffinata che si compone di nove tavoli di diversa lunghezza, tutti dello stesso sottile spessore, sui quali poggiano su un fondo bianco dei disegni a biro che riproducono e documentano lo stato, la condizione d’essere di alcuni edifici del piccolo villaggio minerario di Barlin destinati ad essere soppressi. Dopo un’attenta ricognizione fotografica il profilo degli stessi è stato ripercorso a tratto di biro a testimonianza di ciò che era. Un archivio rielaborato e ricomposto. Una rappresentazione che coniuga il design del tavolo al rilievo dell’edificio. Edifici che sono una selezione di quelli che l’artista chiama Untitled block nel senso di fabbricati senza titolo, anonimi e così straordinariamente unici nella particolareggiata resa. Di questi edifici sono stati assemblati in accrochages alcuni loro residui. Si tratta di alcune loro porte -letteralmente strappate dall’artista alla loro scomparsa-   che mantengono nella loro rude possanza un che di costrizione. Frammenti non più predisposti a consentire l’ingresso o il passaggio e che invece si accumulano in monumenti all’impossibilità. Sono porte accatastate, de-funzionalizzate, quasi fisarmoniche incatenate, sigillate e compattate a dar prova di una riottosità alla sparizione.

Mi sembra che ci sia nei tavoli la determinazione a mantenere viva la memoria dell’edificio d’appartenenza; mentre nelle porte si costruisca un monumento all’efficacia perduta. L’archivio dell’immagine e il monumento alla sua materia.

L.M. Jessica Castex ha scritto “Bertille Bak est une conteuse qui part de faits réels”.Mi sembra questa una appropriata definizione del tuo lavoro, dove la tua voce narrante sostituisce la mera documentazione della realtà. A quale tipo di narrazione fai riferimento?

B.B. I racconti che visualizzo in ogni progetto partono da situazioni reali. I gruppi incontrati provengono spesso da contesti sociali fragili, in situazioni d’ingiustizia; il declino di un mondo operaio, o gli zingari residenti a Parigi spinti a partire, gli abitanti in Thailandia in attesa di espulsione, o ancora i marinai sfruttati su navi da crociera (...), si tratta di sottrarsi alla semplice constatazione sociale, di evitare la proiezione di disperazioni quotidiane e l’estetica compassionale.Tra etnografia, finzione e documentario, al centro c’è l’umano.

Si tratta di assimilare le tradizioni, la cultura, i riti, gli oggetti e le architetture che costituiscono questi gruppi, li uniscono e li saldano. Poi di servirsi di questa ricchezza interna al collettivo al fine di immaginare insieme dei modi per apprendere differentemente il reale, di dire altrimenti il presente.

Nonostante io resti il direttore d’orchestra dell’impresa, non si tratta solo della mia voce, ma di un condensato della singolarità di voci e degli argini inventivi attivati per tentare di contrastare l’inesorabile sconfitta.                                                                                                                                 

La questione del vivere insieme è essenziale nella prospettiva utopica del mantenimento del legame sociale. Provare a trovare insieme delle nuove forme d’inventiva per raccontarsi in un movimento di reciprocità e di oscillazione tra diverse zone del reale.

P.M. Seguendo l’itinerario espositivo, si passa dalla materia diversamente declinata del piano superiore della galleria all’immaterialità dei video del piano seminterrato dove sono le comunità a parlare e a restituire in forma solo apparentemente documentaristica una memoria di ciò che era e di ciò che resta. Corre sottotraccia un elemento di spiazzamento che asseconda il desiderio di riformulare la propria ritualità culturale in una quotidianità creativa.

L.M. Nei video, i cui protagonisti sono gli abitanti delle ex città minerarie del Nord della Francia, la linearità della narrazione è interrotta da un lieve umorismo, che trasforma la realtà in finzione cinematografica. Concordi con questa lettura?

B.B. Questo argomento, di per sè grave e profondo, non è trattato con pathos perché l'humour può essere una difesa o un modo per trasformare il quotidiano. Il racconto non è un documentario tende piuttosto ad apportare una verità sul gruppo. Non si tratta di sfuggire alla realtà, ma al contrario, io spero, per via della fiction, di delineare una verità sui gruppi avvicinati, una testimonianza attuale anche se per arrivarci utilizziamo dei percorsi indiretti.

I modi per raccontare la propria situazione e di rappresentarsi sono pensati insieme agli abitanti, divenuti così attori, decoratori, soggettisti...Bandita ogni descrizione frontale e veemenza, la narrazione si fa più prossima al racconto che al documentario, una piccola poesia più che una «presa d'assalto».

Insieme all'invito a rendere conto della veridicità dei fatti, della loro vita, del loro quotidiano e della possibilità di arrivarvi si fa ricorso a dei simulacri. Così convalidati e interpretati dagli stessi protagonisti, essi iscrivono la comunità in una forma di resistenza ottimista, una lotta collettiva alternativa. Si tratta innanzitutto di tentare di riunire la comunità intorno a nuove attività, di sollecitare nuove regole nel gruppo. Ciò che nel video appare come fiction è il risultato di azioni collettive realmente condotte con il gruppo.

Aver fatto ricorso all'assurdo per mettere l'accento su qualche assurdità di questo mondo....

L.M. Come reagiscono usualmente i membri delle comunità con cui lavori di fronte al tuo progetto di includerli nell’opera d’arte?

B.B. Occorre che tra noi scorra energia! Per il progetto presentato, io conoscevo gli abitanti di questa città mineraria perché i miei nonni ci vivevano, ed il lavoro è stato dunque facilitato dalla fiducia che riponevano in me. Ma i progetti successivi non rientrano in questa fattispecie, sono stati principalmente i luoghi dove vivo che mi hanno indotta a incontrare le persone non facenti necessariamente parte della cerchia delle mie conoscenze. Mi presento come un'artista che vuole mettere in luce la loro situazione e la rete di collegamento tra persone appartenenti ad uno stesso gruppo, unito dal lavoro, dalla cultura, da un territorio o nell'avversità. Fino ad ora non mi sono mai scontrata con gruppi reticenti, forse perché la mia indignazione di fronte a delle situazioni politiche inaccettabili e l'intento di dare visibilità a queste ingiustizie è primario. Delle volte è più difficile coinvolgere le persone in queste proposte. E' il caso attuale di un progetto concernente dei montanari del nord del Marocco che hanno un differente rapporto con l'immagine, si tratta allora di trovare dei sotterfugi per mostrarlo.

Passare insieme ogni volta un tempo considerevole è estremamente importante. Molti mesi sono essenziali per poter condividere il loro quotidiano e raccogliere tutti gli individui intorno alla questione della loro propria rappresentazione. Una nuova scrittura della loro storia può così essere immaginata con la piena consapevolezza dell'immagine che intendono dare a vedere. In tal modo è possibile innestare degli strati addizionali alla loro propria identità o introdurre degli stratagemmi per meglio individuare certe specificità del gruppo.

P.M. L’opera Shelving Banner, ospita dei ricami che riproducono immagini di opere d’arte famose, potremmo dire “a largo consumo”, dove le mani di ricamatrici esperte che ne hanno completato le varie parti sembrerebbero ciascuna rivendicare il riconoscimento della propria qualità. Anche qui come nei video l’artista è il regista che riconosce l’autore delle singole frazioni di ricamo riportandone il nome ed orchestra il tutto in un insieme condiviso, un repertorio presentato in espositori seriali.

Boetti mi sembra un artista chiave per accedere alla tua poetica. L’impiego del ricamo, del disegno a biro, della tassonomia e della catalogazione, saldati ad altri medium e ad un’osservazione del mondo che rispecchia una procedura che oggi si direbbe “etnografica”, richiamano il suo lavoro, anche se credo si pongano in maniera sostanzialmente diversa…Quale debito eventuale riconosci a Alighiero Boetti, uno dei primi artisti a veicolare le proprie immagini attraverso opere di ricamo la cui esecuzione viene affidata ad altri?

B.B. Per risituare la storia delle tappezzerie esposte, bisogna risalire a quando gli abitanti della cité n°5 di Barlin formavano una tribù in cui ciascuno aveva il proprio ruolo, ma la ristrutturazione delle loro abitazioni e l'aumento degli affitti li obbligò ad andarsene. Furono quindi rialloggiati in differenti città del Nord della Francia; ciò mise fine a questo vivere insieme e all'organizzazione di quel microcosmo solidale.

Nel film «Faire le mur» che riporta questa situazione, molte donne tessono un quadro molto noto «Le radeau de la Meduse» di Gèricault, simbolo della loro perdizione. Gli abitanti, oggi separati, non hanno più avuto l'opportunità di riunirsi durante la settimana per condividere la realizzazione di questo passatempo popolare che è la confezione del ricamo. Ciò nonostante io ho continuato a passare tra di loro delle tele raffiguranti importanti quadri della storia dell'arte, di paradisi perduti, di esodi, di battaglie che questi vecchi vicini hanno ricamato di volta in volta. Circolando di casa in casa, questo lavoro fa simbolicamente rivivere i legami e i valori della comunità scomparsa. Ogni anno, il numero dei ricami cresce, aumentando anche le bandieruole brandite da un «corteo fantasma».

Il grande artista Boetti ha aperto una pagina nella costruzione di progetti artistici che non possono esistere senza qualcuno che vi contribuisca, così come ha reso possibile sviluppare una creazione collettiva lontana dalla proposta di artisti solitari. Questa eredità, che mi è cara, può riscontrarsi anche nell'importanza data all'artigianato o ancora in un certo spirito ricreativo che può avere una portata geopolitica. Penso in particolare alle celebri «Mappe» realizzate da tessitrici afgane, dove mi sembra che il suo lavoro abbia un intento universale che concerne la percezione del mondo, la sua evoluzione nel tempo e i cambiamenti politici. Per quel che mi riguarda, io mi interesso a dei piccoli insiemi più concreti, dei piccoli gruppi di persone che mostrano le loro situazioni e le loro rivolte. Il progetto di questo processo è di agire con i gruppi incontrati, di mobilitarli per ricostruire la loro stessa storia. In questo senso, io sono più prossima ad un traghettatore delle diverse vicende di un gruppo preciso anche se fenomeni di delocalizzazione forzata possono trovarsi ovunque.

Un altro elemento in comune risiede nello spazio lasciato agli imprevisti, alle decisioni e alle libertà dei vari partecipanti che completano in tal senso i pezzi realizzati.

L.M. In definitiva, in che modo pensi che l’arte possa incidere sulla realtà?

B.B. Io non penso che l'arte influenzi la realtà, piuttosto, solamente la percezione del reale che ha lo spettatore. Relativamente ai gruppi con i quali costruiamo i nuovi racconti il corso delle cose si manterrà immutato e di ciò ne abbiamo tutti coscienza. Semplicemente riunire un gruppo di persone sulle questioni del suo presente e utilizzare l'arte come nuova forma di rivendicazione, risveglierà, io spero, il suo desiderio di insubordinazione.

 

Texte Français


Narrer les racines dans une perspective politique et relationnelle: Bertille Bak

 

Patrizia Mania et Lucilla Meloni ont rencontré Bertille Bak à l’occasion de sa première exposition personelle en Italie dans les espaces de la Gallery Apart à Rome

P.M. A l’entrée de la galerie, on reste frappé par une installation sophistiquée qui se compose de neuf tables de longueurs différentes, toutes de la même largeur, sur lesquelles il y a des dessins à bille qui reproduisent et documentent l'état, la condition d'être de certains bâtiments du petit village minier de Barlin avant d’être supprimés. Après des photographies, les dessins portent témoignage de ce qu'il était. Des archives retravaillées et remontées. Une représentation qui combine le design de la table avec le relèvement de bâtiments. Bâtiments qui sont une sélection de ce que l'artiste appelle Untitled block, dans le sens propre de bâtiments sans titre, anonymes, mais au même temps extraordinairement uniques dans l'interprétation détaillée qui nous est donnée. A côté de ces bâtiments, certains accrochages semblent accueillir des leurs résidus. Il s’agit des séries de portes, littéralement déchirées par l'artiste à leur disparition, et qui maintiennent dans leur puissance une certaine contrainte. Des fragments qu’ont fait partie des bâtiments et qui ne permettent pas non plus l'entrée ou le passage en s’accumuler dans des monuments à l’impossibilité. Ces portes sont empilés les unes à côté des autres, de-fonctionnalisés, enchaînées comme s’il s’agissait d’un accordéon, scellées et compactées presque à démontrer une sorte de rébellion à la disparition. D'une part, donc, l'obstination à garder vivante la mémoire de l'immeuble d'appartenance; de l'autre, un monument à le rôle perdu. Les archives de l'image et le monument à sa matière ...

L.M. Jessica Castex a écrit " Bertille Bak est une conteuse qui part de faits réels". Je pense que ceci est une définition appropriée de ton travail, dans lequel ta «voix narrante» remplace la simple documentation de la réalité. Comment on pourrait définir ta narration?

B.B.Les récits qui sont donnés à voir dans chaque projet ont en effet pour point de départ des situations réelles. Le groupes rencontrés sont bien souvent dans des contextes sociaux fragilisés, en situation d’injustice; ici le déclin d’un monde ouvrier, puis des tsiganes vivant à Paris poussés au départ, des habitants en Thaïlande en attente d’expulsion, ou encore des marins exploités sur les paquebots de croisière (…), mais il s’agit de s’écarter du simple constat social, d’éviter la projection de désespoirs quotidiens et l’esthétique compassionnelle.

Entre ethnographie, fiction et documentaire, l’humain est au centre. Il s’agit d’assimiler les traditions, la culture, les rites, objets et architectures qui constituent ces groupes, les unissent et les scellent. Puis de se servir de cette richesse interne au collectif afin d’imaginer ensemble des manières d’appréhender différemment le réel, de dire autrement le présent.

Bien que je reste le chef d’orchestre de l’entreprise, il ne s’agit pas uniquement de ma voix, mais d’un condensé de la singularité des voix rencontrées et des barrages inventifs nouvellement mis en place pour tenter de contrer l’inexorable défaite.

La question du vivre-ensemble est essentielle dans une perspective utopique de maintien du lien social.

Tenter ensemble de trouver de nouvelles formes inventives pour se dire dans un mouvement de réciprocité et d’oscillation entre plusieurs zones de réel.

P.M. En suivant le parcours de l'exposition, on passe de la matière autrement déclinée de la galerie supérieure à l'immatérialité des vidéos du sous-sol où sont les communautés à parler et à rendre dans des formes apparemment documentaires une mémoire de ce qui a été et ce qui reste. On perçoit à un niveau souterrain un élément de déplacement qui favorise le désir de reformuler leurs propres rituels culturels dans une créativité plus quotidienne.

L.M. Dans les vidéos, dans lequels les protagonistes sont les habitants des anciennes villes minières du Nord de la France, la linéarité du récit est interrompue par un humour doux qui transforme la réalité en fiction cinématographique. Est-ce que tu es d'accord avec cette interprétation ?

B.B. Ce sujet à priori grave et profond n’est pas traité avec pathos parce que l’humour peut être un rempart ou une façon de démonter le quotidien. Le récit n’est pas un documentaire et tend pourtant à apporter une vérité sur le groupe.

Il ne s’agit pas d’échapper à la réalité, bien au contraire, je souhaite via la fiction apporter une vérité sur les groupes côtoyés, un témoignage sur leur situation actuelle même si nous utilisons des chemins détournés pour y parvenir. Les moyens de dire sa propre situation et de se représenter sont pensés avec les habitants, devenant alors acteurs, décorateurs, scénaristes...

Ecarté de toute description frontale ou de toute véhémence, le récit se veut alors plus proche du conte que du documentaire, d’une frêle poésie que d’une prise d’assaut.

Se mêle l’envie de rendre compte de la véracité des faits, de leur vie, de leur quotidien et la possibilité d’y arriver en ayant recours à des simulacres. Alors validés et joués par les protagonistes eux-mêmes, ils inscrivent la communauté dans une forme de résistance optimiste, une lutte collective alternative.

Il s’agit avant tout d’essayer de rassembler la communauté autour de nouvelles activités, tenter d’impulser de nouvelles règles au sein du groupe. Ce qui apparaît comme de la fiction dans la vidéo est alors le résultat d’actions collectives réellement menées avec le groupe.

Avoir recours à l’absurde pour mettre le doigt sur quelques absurdités de ce monde…

L.M. Comment ils réagissent généralement les membres des communautés avec qui tu travailles devant ton projet de leur inclure dans l'œuvre d'art ?

B.B. Il faut que le courant passe entre nous! Pour ce projet, je connaissais les habitants de la cité minière parce que mes grands-parents y vivaient, ce travail a donc été facilité par la confiance qu’ils avaient en moi. Mais les projets qui ont suivi n’entrent pas dans ce même cas de figure, ce sont principalement les lieux où je vis qui m’amènent à rencontrer des personnes qui ne font pas forcément partie de mon cercle de connaissances. Je me présente comme une artiste voulant mettre en lumière leur situation et le maillage existant entre ces personnes appartenant à un même groupe uni par le travail, par la culture, par un territoire où unis dans l’adversité.

Je ne me suis pour l’instant pas heurté à des groupes réticents, peut-être parce que mon indignation face à des situations politiques inacceptables et l’envie d’apporter une visibilité sur ces injustices est première. Parfois il est plus difficile d’impliquer les personnes dans cette proposition, c’est le cas actuellement pour un projet avec des montagnardes au nord du Maroc car le rapport à l’image est différent, il s’agit alors ensemble de trouver des subterfuges pour se montrer.

Un temps considérable passé ensemble est à chaque fois extrêmement important. De nombreux mois sont essentiels, pendant lesquelles je partage leur quotidien afin de rassembler les individus autour de la question de leur propre représentation.

Une nouvelle écriture de leur histoire peut ensuite être imaginée avec cette pleine conscience de l’image qu’ils donnent à voir.

Il est dès lors possible de greffer des couches additionnelles à sa propre identité ou mettre en place des leurres à spectateurs pour mieux pointer du doigts certaines spécificités du groupe.

P.M. Il y a à l’entrée de la galerie un drapeau-soutirage, Shelving Banner, qui expose des toiles avec des broderies qui reproduisent des images des oeuvres d’art fameuses, où les mains expertes des brodeuses, qui ont rempli les différentes parties des images, sembleraient demander chacune la reconnaissance de sa propre qualité. Ici, comme dans les vidéos, c’est l'artiste qui, en reconnaissant la contribution de chacun (en riportant leur nom), fait la mise en scène de l’ensemble . Alighiero Boetti me semble-t-il un artiste-clé pour accéder à ta vision: l'utilisation de la broderie, du dessin à bille, les taxonomies et les catalogages soudés à d'autres médiums à côté d’une observation du monde «ethnographique» puissent rappeler son travail. Est-ce que tu reconnait une relation?

B.B. Pour resituer l’histoire des tapisseries exposées, alors que les habitants de la cité n°5 à Barlin formaient une véritable tribu où chacun avait son propre rôle, les rénovations de leur habitation et par conséquence l’augmentation du loyer les a obligé à partir. Ils ont alors été relogés dans différentes villes du Nord de la France, mettant le point final sur ce vivre ensemble et l’organisation de ce microcosme solidaire.

Dans le film « faire le mur » qui relate cette situation, plusieurs femmes tissent un tableau très connu, « le radeau de la méduse » de Géricault, symbole de leur perdition. Les habitants aujourd’hui séparés, n’ont plus l’opportunité de se regrouper au cours de la semaine pour réaliser ce passe-temps populaire qu’est la confection de canevas. Je continue néanmoins à passer des toiles représentants d’importants tableaux d’histoire de l’art de paradis perdus, d’exode ou de batailles que ces anciens voisins brodent tour à tour.

Circulant de foyer en foyer, ce travail fait symboliquement revivre les liens et les valeurs de la communauté disparue. Chaque année le nombre de canevas grandi, augmentant ainsi les banderoles brandies par un cortège fantôme.

Le grand artiste Boetti a ouvert une page dans la construction de projets artistiques qui ne peuvent exister sans contributeurs ainsi que la possibilité de développer une création collective loin des propositions d’artistes solitaires. Cet héritage qui m’est cher peut se retrouver également dans l’importance donnée à l’artisanat, ou encore un certain esprit récréatif qui peut avoir des portées géopolitiques. Je pense notamment aux célèbres «Mappa» réalisées par des tisserands afghans, par contre il me semble que son travail à une visée plus universelle, ici, la perception du monde, son évolution à travers le temps et les changements politiques.

Pour ma part, je m’intéresse à des petits ensembles plus concrets, de petits groupes de personnes qui donnent à voir leur situation ou leurs révoltes.

Le dessein de cette démarche est d’agir avec les groupes rencontrés, de les mobiliser pour rendre compte de leur propre histoire.

Je suis en ce sens, plus proche d’un passeur de faits divers d’un groupe bien précis même si les situations de délocalisations forcées se retrouvent partout.

Un autre commun serait la place laissée aux imprévus, aux prises de décisions et de liberté de certains contributeurs qui complètent en ce sens les pièces réalisées.

L.M. En définitive, comment pense-tu que l'art puisse influencer la réalité?

B.B. A vrai dire, je ne pense pas que l’art influence la réalité mais uniquement la perception du réel qu’a le spectateur. Concernant les groupes avec lesquels nous construisons de nouveaux récits, le cours des choses en restera inchangé et nous en avons tous conscience.

Simplement, rassembler un groupe sur la question de son présent et utiliser l’art comme nouvelle forme de revendication réveillera je l’espère leur désir d’insoumission.