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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Serafino Amato

 

Lo scorso anno ho curato alcune mostre in una piccola galleria di Roma. Luigi Billi ha esposto in una di queste nel febbraio 2015. Questo è quanto ho scritto in relazione al suo lavoro:

“Luigi Billi mostrerà nuove opere in tecnica mista su fotografia dalla serie “Cara mamma stiamo tutti bene, caro babbo siamo tutti morti”. Nelle immagini di Luigi Billi il recupero di memorie private, provenienti da un passato storicamente lontano, la guerra in Corea (…). I suoi militari forzano la persona che osserva a riformulare modelli culturali e antropologici del contemporaneo. Seppur traslati in senso diacronico, corpi ed eventi che sembrano ispirati a un’idea di classicismo, pregni di densità psichica e affettiva, restituiscono ingenuità, delicatezza e fragilità in forma maschile e obbligano, noi, spettatori del contemporaneo, a riformulare codici di comportamento per un presente che riscopre una nuova brutalità verso la persona, a cui si è antropologicamente inadeguati”.

Luigi lo conoscevo dai primi anni novanta, eravamo coetanei, glielo ricordavo sempre, lui più grande di qualche mese. Da subito ho sentito una familiarità nei suoi confronti, tanto che gli ho chiesto un piccolo, strano “favore”: la sua disponibilità a farsi fotografare la nuca. Stavo preparando una mostra e mi serviva la nuca di Hans. Hans era l’uomo idealizzato da Ingeborg Bachmann (stavo realizzando una mostra “Ihr Worte”, utilizzando dieci sue parole). Gli spiegai quanto fosse importante per me nella comprensione della sensibilità di una persona questo dettaglio così vulnerabile del corpo e la delicatezza che può esprimere. Nonostante avesse i capelli abbastanza lunghi, la sua nuca era scoperta, il suo collo lungo ed elegante. Luigi con curiosità affettuosa si offrì al mio obiettivo ma le foto non vennero come me le ero immaginate.

Consideravo Luigi uno psicologo, non so nemmeno se lo fosse. Aveva una sensibilità speciale, una sincera curiosità nei confronti dell’altro. Era interessato agli altri, a ogni dettaglio, e mai dimenticava le persone che incontrava. Di me voleva conoscere di più, riguardo una storia complicata che stavo vivendo, e io mi aprii a lui senza reticenze.

Il suo stesso lavoro, in molti casi, trattava di persone e di memorie.

Questa parola ha ricominciato a girarmi nella testa dal giorno in cui se ne è andato.

Personalmente mi sto confrontando da tempo con una certa perdita della mia memoria, che del resto non è mai stata particolarmente salda. Luigi, invece, ogni frammento lo rendeva memorabile. Luigi era un artista che dialogava con l’oblio rendendo presente il passato prossimo e remoto. Penso che il verbo dimenticare, che fonda le radici nel trascorso, non sia così bello come il verbo francese “oublier”. Su Luigi non potrà cadere l’oblio, perché lui stesso dalla memoria era ispirato e la sua memoria era integra quando ci ha lasciato.

Lo avevo incontrato dopo molto tempo, e lui, come se niente fosse, aveva ripreso il discorso da dove era stato interrotto molti anni prima. Nomi, fatti, persone, ricordava ogni cosa meglio di me, e finii per sentirmi un po’ più nudo davanti a lui. Da giovani anziani talvolta si può iniziare ad essere reticenti o semplicemente si cede all’oblio, a ciò che ci sembra poco sopportabile. Luigi, invece si nutriva del ricordo e secondo me questo ha reso assurda la sua scomparsa improvvisa. Molti di noi, a lui, abbiamo affidato una parte della nostra vita.

Dopo la mostra mi ha regalato un’opera: un militare di guardia che imbracciava il suo fucile. Gli ho detto che ero molto contento di questo inaspettato regalo e consideravo il suo dono come una sorta di protezione. Sapevo che lui mi percepiva ancora come un uomo in difficoltà e quindi ero certo che il suo bravo soldato armato mi avrebbe sorvegliato e protetto nelle notti difficoltose. La cosa lo aveva fatto sorridere e mi aveva risposto come lui solo sapeva fare.

 

Caro Luigi, ti scrivo ...