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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Pasquale Polidori

 

I fotografi professionisti mi considerano un dilettante. I pittori, un fotografo (1).

Traggo questa frase da un’intervista rilasciata da Luigi Billi un anno prima della morte, avvenuta troppo all’improvviso e di recente perché la sua esperienza artistica si possa osservare con distacco e come qualcosa di compiuto e già perfetto. Alla richiesta di autodefinirsi, l’artista risponde assumendo lo sguardo degli altri sul suo lavoro e la sua particolare posizione rispetto ai campi della fotografia e della pittura: una posizione considerata eccentrica poiché situata al di là del perimetro espressivo comunemente assegnato alle due tecniche.

Essere percepiti come outsider è una condizione comune a molti artisti, almeno a quelli che si ostinano a rimanere tali al di là delle conferme di mercato; e il più delle volte un tale giudizio ha a che vedere fondamentalmente con lo scandalo che, oggi più che mai, destano le scelte economicamente improduttive, nonché la fatica e l’intelligenza che costa il proseguire una ricerca perennemente in debito di significato. Tuttavia, nel caso di Luigi Billi, non è di questi aspetti esistenziali che si parla quando egli stesso pronuncia la personale inadeguatezza ai sistemi della pittura e della fotografia. Si tratta invece di una questione di metodo, ossia di un insieme di modalità espressive e operative, quelle di Billi, le quali, pur se in principio congrue alle due tecniche, ne divengono estranee per un eccesso di radicalità. Allora, i fotografi non accettano che si possa fare fotografia senza scattare fotografie, ma bensì ritagliando e fotocopiando e incollando e magari infine scattando, sì, ma in un modo del tutto funzionale a un al di là fotografico; e i pittori non si rassegnano al fatto che la pittura possa completamente confondersi con il collage, né con le varie rifiniture e sottolineature a pennello che contraddistinguono l’operato di Billi sulla fotografia. Dunque lo sguardo che, dall’interno delle due tecniche, spinge al di fuori la ricerca artistica di Billi, insiste su un punto di vista che non ammette nella propria giurisdizione i metodi che sostengono la sua ricerca. In ciò consiste la doppia inadeguatezza: nel caso della fotografia, nell’oltrepassare il limite della tecnica fotografica in funzione oggettuale; nell’altro caso, la pittura, nel ridurre totalmente il segno a ‘segnatura’ di dettagli su di una immagine già data.

Oltrepassare e ridurre sono i cardini di molte operazioni svolte da Luigi Billi sulle immagini. Una fotografia è recuperata per quello che essa significa socialmente o culturalmente, e se ne oltrepassa così il valore formale e la qualità artistica; lo stesso avviene per le frasi, accolte nelle opere per un loro potenziale pragmatico comunicativo, per il fatto che sintetizzano un modo di rapportarsi al mondo, e non per un qualche grado di pregnanza poetica o per un condivisibile valore di verità. Quanto alla riduzione, essa interessa il metodo in diverse maniere: semplificazione, come si è detto, della pittura a puro tratteggio di linee, qualche volta a una grafia; ma anche il ritagliare e ingrandire e accartocciare le immagini prese da una rivista, è una riduzione dell’immagine a qualcosa di volumetrico, un diverso volume sia del materiale sia del senso stesso dell’immagine; e infine, sempre di riduzione si tratta quando è in atto un procedimento di spogliazione e trasmutazione della realtà in un piano iconografico e simbolico, quando egli per esempio assegna alle figure femminili dei nomi che sono quelli di altrettanti caratteri teatrali (la homeless, la pazza, la suffragetta, l’affettuosa proterva, la sposa, la prigioniera,...), o quando, parimenti, scambia delle figure maschili per mere ombre, idee prive di materia e consustanziali a un elemento che le accompagna e che ha valore nominativo (il fiasco di vino per il vizio, le manette per la schiavitù, le forbici per la censura, la bandiera per l’ideologia, il violino per l’arte, il mappamondo per il potere,...).

Vorrei precisare che quanto sto scrivendo vale soprattutto per il primo periodo della ricerca di Billi, quello che va dagli inizi fino a Hombres (1999) e Cara mamma... (2000), e dunque gli anni Novanta, che sono gli anni in cui il metodo di Billi è più radicalmente ambiguo e in grado di sottrarsi alla definizione univoca di una tecnica.

Ricordo in particolare il ciclo dei lavori derivati dai fotoromanzi (Inconsci collettivi, 1996 circa), e mi sembra che in quelle opere si trovino incrociate tutte le sue linee operative. Innanzitutto l’importanza straordinaria assegnata alla scelta del materiale su cui lavorare:

“(...) i fotoromanzi sono immagini preesistenti, pensate e prodotte da altri. Questo ciclo ha un titolo di per sé esplicativo: Inconsci collettivi. Mi interessa cercare quei filoni che si nutrono di riconosciute banalità, di luoghi comuni, di canzonette, di detti, di proverbi, di aspettative che sono un terreno comune alla collettività, benché non si eleggano a punto di crescita della personalità, della propria vita» (2).

L’individuazione di un repertorio, come si vede, è per Billi non già un atto preparatorio e preliminare, ma invece, e di certo in questi lavori, la parte principale del suo metodo, architrave dei lavori e tecnica artistica tout court. Infatti, per pochi altri artisti italiani operanti in quel periodo si può parlare di appropriazione in un senso così pieno come per Billi: la scelta e il prelievo delle singole immagini rappresenta un atto artistico che non ha bisogno di altre giustificazioni tecniche, di altri interventi operativi che non siano il ritaglio, l’ingrandimento e la giustapposizione a uno sfondo, che poi è una seconda immagine a sua volta scelta e convocata ad attivare una dialettica con la prima, tracciando così in modo netto ed essenziale le coordinate di un discorso sul singolo ritaglio/fotogramma di partenza.

Scegliere significa assumersi una responsabilità che è estetica in quanto capace di critica culturale. E indagare gli aspetti culturali e psicologici di una immagine significa fare estetica, anche quando il fare consiste in un prelievo di frammenti e nella loro messa in evidenza. Fare significa stabilire un piano di lettura, innescare un discorso attraverso un procedimento di isolamento e inquadratura dell’immagine, prelevata da una sequenza narrativa, il fotoromanzo, che molto si avvicina al cinema: un’arte con cui Billi per più versi si è relazionato, pur senza mai adottarla come tecnica artistica, compresa l’esperienza non trascurabile di un impiego in una casa di distribuzione cinematografica. Fare significa tentare un’analisi dell’immagine parlante; anzi, farla parlare fino in fondo, cioè al di fuori del flusso narrativo di provenienza, indirizzandone appena la parola a un fine analitico; e ciò facendo, accettare la trivialità dell’immagine, la sua retorica di poco conto; e la sua finzione morale prenderla sul serio, e per autentica rivelazione di un inconscio.

Luigi credeva nei sistemi interpretativi, aveva in grande considerazione tanto la psicoanalisi quanto l’astrologia; e in questo era uno spirito positivo e ottimista: confidava totalmente nella sensatezza del linguaggio e delle sue manifestazioni; e intendeva ascoltarle e studiarle, specie se frutto di distrazione e non curanza, di abitudine e mancanza di intenzionalità razionale, come appunto nel caso dei fotoromanzi, o delle frasi dei Baci Perugina, o dei motti e proverbi e lapsus usati in diverse altre opere.

Nella serie dei fotoromanzi è in atto, in modo esemplare, un procedimento a cui Billi è stato sempre fedele. Da un lato l’estrazione dell’immagine dal suo contesto originale: un’operazione che si fonda sulla certezza che il significato dell’immagine è sempre esterno ad essa ed è tanto forte da sorpassare la sua collocazione materiale, sia in un fotoromanzo, o in un film oppure in una pubblicità; l’immagine, sembra si possa dire, è evocativa per se stessa, per il fatto che comunque rimanderà a un complesso di valori e di significati socialmente, e profondamente, condivisi. E in questo principio, oltre a una riveduta tradizione del ready made, è facile riconoscere tanto l’influenza della Neo Avanguardia quanto, in particolare, quello della Poesia Visiva; e ricordiamo che gli anni di formazione universitaria di Billi sono trascorsi a Firenze. Dall’altro lato, vi è l’inserimento dell’immagine in una parabola visiva, di cui l’artista è autore, che è asciutta e procedurale (Billi ha sempre lavorato per cicli, una sequenza di opere che tendono tutte a una stessa frase); si definisce attraverso un metodo costruttivo dichiarato in partenza; tenta il poetico per vie razionali e dialogiche, fino alla messa a fuoco tramite una battuta secca e ironica; e infine si fa forza della nudità delle immagini ritagliate, trattenendo al massimo, nel semplice gesto dell’inquadratura, l’impulso soggettivo al ri-componimento artistico.

Non solo l’immagine ha in sé una matrice semantica che è tutta collettiva, ma anche l’opera d’arte, che fa spazio a quella immagine, si consegna ai nostri occhi in una anemia di soggettività che però è, paradossalmente e nello stesso tempo, ricchezza del dire e invito a parlare. Attraverso l’esattezza di un metodo il cui fine è evidenziare l’immagine, portarla a chiarezza, spesso le opere di Luigi Billi ci chiamano direttamente all’adozione del significato dell’immagine; nessuno escluso, io per io.

è l’appello alla consapevolezza culturale: la grazia di un lavoro che ha tanto da fare per preoccuparsi di essere definito.

aprile 2016

1) «Storie Reali presenta: Intervista a Luigi Billi. La costruzione fotografica di Luigi Billi». In: storiereali.blogspot.it, 9 gennaio 2015.

2) «Come stai? Bene, grazie e tu?, Luigi Billi intervistato da Paolo Balmas». In: Opening n. 28, aprile 1996

Caro Luigi, ti scrivo ...