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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Patrizia Mania

 

La telefonata di una comune amica, Cosma, la stessa che ci aveva fatto rincontrare dopo una pausa durata qualche anno, mi ha annunciato l’accaduto. Ho appreso così della morte di Luigi con incredulità e rabbia! Come se non potesse essere possibile che dopo averlo ritrovato la sorte mi strappava la possibilità di potermi di nuovo confrontare con lui su qualche sofisticato paradigma.

Ho condiviso con lui, Alberto, Domenico, Lucilla, Natalia, Angela e tutti gli altri che si sono avvicendati nella storia di Opening, una rivista durata poco più di un decennio, la furia e la gioia di poterla fare. Ricordo in particolare quanto fosse per lui assolutamente irrilevante il parere di quanti ci vedevano, allora giovanissimi, osare entrare a gamba tesa nel mondo dell’arte contemporanea senza padrini o particolari pedigrees che non fossero la nostra testardaggine ad esserci, a volerci essere nonostante tutto. Lui, per questo, è stato sempre in prima linea. Anzi, guardava con una certa irritante snobberia, l’impossibilità cui altri avrebbero forse voluto relegarci. A me a volte, nelle discussioni che animavano la nostra realtà, sembrava un marziano: talmente distante da certi pragmatismi da farmi sentire inadeguata e, in fondo, anche irritarmi. Sempre incline a rovesciare i comuni sensi del quotidiano. A sovvertire e scavalcare i recinti del senso comune. Come attrezzarsi a corrispondervi?

Non si è trattato solo di rivendicare un territorio, a puntellare il suo impegno c’era anche e soprattutto il suo pensiero, la sua arte. Una produzione febbrile, a tratti inafferrabile, davvero estranea ad ogni sorta di luogo comune. La cui chiave di volta credo vada individuata in un accento di leggerezza, a tratti, per dirla con Kundera, quasi insostenibile. Non si è tuttavia mai peritato più di tanto a convincerci della necessità sua di imporre la levità come prassi dell’operare e dell’essere artista. Sottotraccia, c’era la convinzione, ne sono persuasa, di poterselo permettere in virtù della forza imponente della sua passione. E poi questa stessa leggerezza interpellava di frequente l’implacabile gravità della condizione umana finendo per lambire il suo contrario e aumentarne il coefficiente di senso.

Su questa linea mi sembra si iscriva parte della sua personalità e tutta la sua arte. Uno dei fili conduttori privilegiati si è configurato nel mettere accenti su immagini di consumo virandone lo stesso loro soggetto verso inattesi territori. Ricorrendo ad una metafora si potrebbe dire che l’apostrofo che negli abecedari della prima infanzia si descriveva come una piuma lasciata da un uccello è analogo a quello che lui ha messo alle sue immagini. Le sue sono per lo più, ma non solo, immagini preesistenti, predate dai rotocalchi, dai biglietti dei cioccolatini o dai cassetti della propria e dell’altrui memoria familiare. Immagini costrette, loro malgrado, ad interrogarci sulle griglie del consenso. Un anticonformista sui generis, come testimonia il suo lavoro che, pur sconfinando di continuo nei territori del divieto e della censura, non rinunciava poi a ricondursi entro cornici più rassicuranti come il quadro. O anche semplicemente componendosi dentro una delimitazione, una specie di squadratura imposta di volta in volta all’immagine. E sembrerebbe sia stata una condizione irrinunciabile. L’aporia era non disdegnare la forma, ma quasi sempre, quasi a suo dispetto, ricorrere alla confezione più o meno tradizionale. Potremmo dire allora di una poetica che affidava il proprio coefficiente sovversivo più ai contenuti che alla forma prescelta, distinguendo nettamente l’una dall’altra. Ma si rischierebbe di essere riduttivi in considerazione dell’enorme gamma di linguaggi sperimentati e di un bricolage costante istituito tra le immagini trovate e quelle invece pianificate e costruite ex novo. Si vede bene come ogni tentativo di definire troppo rigidamente la sua ricerca, la sua poetica, s’infranga su argomenti opposti e contrari. Come a renderci impossibile un’univoca definizione.

Capace di mostrarci la durezza nella leggerezza e di compiere il cammino inverso.

In questo molteplice plurale creativo, spesso Luigi Billi ha fatto ricorso alla serie: non una ma tante opere a declinare un tema, una nozione, una possibilità. Ad esplorare e a narrarcene le pieghe e le stratificazioni. E’ un aspetto riscontrabile in molta parte della sua produzione, anche se non può essere considerato rigidamente normativo. Piuttosto una delle sue peculiari componenti.

C’è una serie di opere iniziali fatta dagli ingrandimenti dei bigliettini d’amore dei baci Perugina stropicciati dall’uso. In quel caso, le pieghe, le tracce di quel vissuto si fanno plasticamente scultura e audacemente invadono nel loro aggetto più spazio di quanto ordinariamente avrebbero avuto se si fosse trattato di quadri sic et simpliciter. Monumento scultoreo al banale gesto di furtiva lettura del frammento d’amore…La tendenza a mescolare il frammento “usa e getta” del quotidiano con l’aspirazione a farsi opera è divenuta credo nel tempo una delle sue cifre distintive unitamente alla polisemia di immagini che coadiuvate dai titoli si inoltrano in territori di riflessione imprevedibili, ben al di là dei potenziali limiti. E se la sua sfida fosse stata proprio questa? Valicare i confini, violare di continuo gli interdetti per poi quasi paradossalmente andarsi a stabilire all’interno di altre delimitazioni? Quasi travolto dall’urgenza di delineare e circoscrivere attraverso nuove linee di demarcazione le nozioni indagate.

Presentando in un breve testo la sua partecipazione alla XII Quadriennale nazionale d’arte di Roma nel 1996 mi era apparso evidente che nella serie di opere intitolate “Ho proibito a mio padre di chiamarmi figlio” la metafora sottesa dal titolo e dalla consistenza delle opere risiedesse nell’identificazione della figura genitoriale con la “società dell’arte” e che l’insieme ordito potesse significare un invito ad attraversare criticamente i divieti sommersi del sistema dell’arte contemporanea per potersene affrancare ed eluderli affermando la necessità del lavoro artistico traslata e rivendicata. Certamente anche l’introspezione psicologica e l’analisi degli stereotipi giocava un ruolo fondante ma innegabilmente accresciuto dalla comparazione con il contesto sociale nel quale andava ad innestarsi.

Proprio incentrandosi sullo scambio continuo tra la dimensione privata e quella sociale, Luigi Billi ha coltivato e praticato l’attitudine a riconoscere e a palesare i limiti. Ne ha fatto immagini, mondi, visioni che sono ai nostri occhi oggi la testimonianza più eloquente della sua poetica, della sua arte così ardentemente pregna della spinta incontrovertibile ad andare oltre.

 

Caro Luigi, ti scrivo ...