Alberto Zanazzo in dialogo con Anna D'Andrea

 A.D. - Inizierei parlando di viaggi come benefica sindrome di Sir Patrick Leigh Fermor, e vacanze, come congiuntura favorevole per habitare secum. Mi dicevi che quest'anno il vento fresco di Meltemi ti ha riportato nell'Egeo, raccontami come si sente un artista che parla greco antico nella Grecia di oggi...     

A.Z. - Sulla grecità del mio lavoro artistico c’è un episodio divertente che posso raccontare: un gallerista milanese ormai scomparso, col quale si poteva parlare piacevolmente di teoria dell’arte, si trovò a polemizzare con Paolo Vitolo non ricordo su quale argomento e, per tagliar corto, lanciò quella che nelle sue intenzioni voleva essere un’offesa che mi coinvolgeva: “Tu e quell’artista che parla sempre in greco antico!”. Superfluo dire che la critica mi lusingò. In effetti la mia ricerca si fonda su una esplorazione del linguaggio che presuppone istanti di ‘grado zero’, di silenzio, iconoclastia, sottrazione, come propedeutica per ogni coerente processo di rigenerazione – e quindi, per quanto possibile, non può che guardare all’origine, alla sede delle idee, alla loro geometria, agli archetipi, ai concetti, ai meccanismi del pensiero, ai lemmi. E per fare ciò, risalendo la corrente, s’incontra la Grecia in un nόstos che esclude suggestioni bucoliche e consolatorie, perché il problema vero della comunicazione e della convivenza civile è che “I più non si accorgono di non sapere che cosa sia l’essenza di ciascuna cosa, ma come se lo sapessero non si mettono d’accordo all’inizio della ricerca e, proseguendo, ne subiscono le naturali conseguenza perché non si accordano né con se stessi né fra di loro” (Platone, “Fedro”).

Tu accenni comunque a Fermor, che amava la Grecia e che durante la Seconda Guerra Mondiale visse per mesi travestito da pastore, riuscendo a far catturare il comandante delle truppe naziste a Creta. Più modestamente, ma con intensità, mi vengono in mente ricordi personali molto lontani nel tempo, legati agli stessi paesaggi raccontati dallo scrittore inglese: la penisola incantata del Mani e le aspre montagne di Creta, costellate di minuscole frazioni che si opposero eroicamente all’invasione nazista. Ancora oggi in alcuni piccoli monasteri sperduti su sentieri remoti, fortunatamente poco frequentati da turisti, una stanza è riservata alle memorie fotografiche di quella Resistenza: gruppi di giovani armati e sorridenti, ritratti di bambini e donne anziane annoverate tra le vittime di feroci esecuzioni, scene di montagna con altri protagonisti di quegli eventi rimasti ignoti per la storia. Sembra di sentire l’eco dei loro racconti e da tutti emana una grande dignità.

Negli anni ’70 – era da poco crollata la dittatura dei colonnelli - mi capitò di perdermi tra le montagne di Creta per cercare una delle grotte in cui, secondo il mito, Zeus fu svezzato e sottratto alle fauci di Crono. Giunto a un incrocio deserto e assolato chiesi informazioni all’unica persona che sembrava abitare l’altopiano: un vecchio apparso come dal nulla, seduto davanti a quattro assi di legno con accanto due tini. Mi indicò la direzione che cercavo e mentre stavo per riprendere il cammino mi chiamò per offrirmi con un sorriso, estraendoli dai recipienti di legno, un grappolo di uva bianca e uno di uva nera. Probabilmente era inviato da Dioniso-Zagreo per invitarmi a festeggiare col suo frutto prediletto la liberazione, la rinascita politica, il ritorno alla luce. O forse per ricordarmi altri rami del racconto mitologico che aveva già ispirato alcune mie opere. Tanto per fermarsi ai quattro punti cardinali: Dodoni in Epiro, dove a Dioniso era dedicato un altare accanto alla presenza dominante di Zeus e della Madre Terra, e dove una Quercia suggeriva profezie a chi sapeva ascoltare il suono delle foglie mosse dal vento; poi Delfi dove lo stesso dio, nel corso dell’anno, alternava la sua competenza con quella di Apollo; quindi Naxos, dove aveva consolato Arianna per l’abbandono di Teseo e dove la porta del Tempio incompiuto, dopo duemila e cinquecento anni, continua a guardare verso Delos - l’isola fluttuante e invisibile, prima che ci nascesse Apollo; e Samos, patria di Pitagora, col grandioso Tempio di Era e il Tunnel di Eupalino; il Santuario di Eleusi e quello di Samotracia dal cui monte Fegàri, il più alto dell’Egeo, lo zio Poseidone poté seguire in diretta la guerra di Troia: senza spendere una dracma per connessioni internet o pay-tv.

Sono paesaggi dell’anima come questi, offuscati ormai dal frastuono, a portarmi in queste regioni da circa nove lustri. È un unico lungo viaggio in cui ripercorro memorie che non sono solo personali ma cercano radici comuni tra mithos e lόgos, e attengono a quell’entόs άnthropos (l’uomo interiore di Platone, “Repubblica”) che include il guardare al di fuori di sé, alla vita sociale e politica, alla convivenza civile. Un viaggio immerso nella ricerca di un anello mancante che riecheggi i versi orfici “Sono figlio della Terra e del Cielo stellato” e che ho riassunto in un’opera di grandi dimensioni esposta al Macro di Roma nel 1997 (“Lavori in corso 2”, a cura di Giovanna Bonasegale) e ispirata dalla porta del Tempio di Naxos: “Missing Link”, appunto, con intarsiati sui montanti i concetti di Etica, Estetica, Politica, Metafisica. Avevo comunque esplorato l’idea del viaggio tra immagine e parola, anche con la mostra “Aporie/Odόs” del 1992, insieme a Domenico Scudero (galleria Paolo Vitolo).

Potrei raccontare molti incontri avuti con gli dèi, prima che si dileguassero anche le loro ombre lasciando gli uomini a cavarsela da soli (con esiti disastrosi) in uno di quei momenti di Grande Capovolgimento cosmico – Megiste Metabolé - che Platone descrive nel “Politico”. Periodi in cui prevalgono interessi particolari e le Leggi della pólis si offuscano tra le nebbie della doxa, dei contorsionismi di sofisti e qualunquisti.

Sarà arbitrario pensarlo, ma è curioso che rinascite artistiche e visioni del mondo non dogmatiche in cui convergono e convivono filosofia, politica, armonia geometrica, vita quotidiana, coincidano con il riaffiorare nella storia del pensiero greco, con l’idea di micro e macro cosmo, dell’uomo e del disegno della città come dialoghi con gli altri e con l’universo, piuttosto che con espressioni soggettive e didascalie posticce della realtà che preludono al delirio di onnipotenza.

Nel Rinascimento è accaduto grazie a un mistico ottuagenario che in un monastero di Mistrà, nel Peloponneso, aveva custodito e coltivato i testi di Platone: Giorgio Gemisto, detto per questo Pletone, un eretico approdato in Italia per partecipare al Concilio di Ferrara e Firenze, dove fu accolto alla corte dei Medici per trasmettere le sue conoscenze a filosofi e artisti, e dove iniziò un momento unico nella storia umana. Nel Novecento invece la rinascita si è caratterizzata attraverso percorsi molteplici, esteticamente meno evidenti, del pensiero critico che è alla base della consapevolezza: la psicoanalisi con gli archetipi e la scoperta dei meccanismi del pensiero, le Avanguardie artistiche e il Bauhaus, la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica. Paradossalmente è coincisa con il riconoscimento del limite e degli inscindibili dualismi energia/materia, spazio/tempo, tempo/eternità, distruzione/costruzione (persino la divinità che avesse creato il mondo, ha rotto l’equilibrio del ‘prima’, della beatitudine eterna, per porla come prospettiva escatologica); quindi con lo smascheramento del dogma che invece l’autoreferenzialità della tecnica e del pensiero unico oggi largamente diffuso, hanno ereditato e perseguono per sfuggire ogni tipo di etica, di responsabilità individuale e collettiva - per eludere l’esercizio della Ragione (che è qualcosa di più ampio rispetto al mero raziocinio, al pensiero calcolante).

Dopo questa lunga e purtroppo sommaria contestualizzazione (impossibile affrontare qui un excursus filologico) arrivo alla seconda parte della tua domanda, sulla Grecia di oggi, con un altro aneddoto significativo: l’estate scorsa in un luogo a cui tengo particolarmente, denso di storia e rarità naturalistiche, mi è capitato di interloquire con una giovane coppia italiana benestante che era giunta lì cliccando ‘spiagge più belle’ e affidandosi a un’agenzia che li aveva sistemati in un villaggio turistico. Cercavano un quad da noleggiare per scorrazzare qua e là senza sapere niente di dove si trovavano: così, tanto per fare qualcosa. Naturalmente elargivano le consuete osservazioni da italiani all’estero sul cibo - ‘che è migliore da noi’ - e altre amenità. D’altra parte non era quello il loro viaggio: si trattava solo di trascorrere una settimana al mare d’estate, un mare qualsiasi a portata di mano. Mi dissero che abitualmente facevano vacanze di Natale agli antipodi per conoscere persone interessanti - gli era già capitato – come quel tale che trasferitosi da un paese occidentale aveva aperto un pub su una spiaggia esotica. Immagino dopo essere approdato “su un cargo battente bandiera liberiana...”.

Chissà perché, ascoltando quei racconti, mi è venuto in mente il progetto speciale che la Biennale Architettura ha realizzato con il Victoria and Albert Museum di Londra per individuare i fattori che mettono a rischio distruzione il patrimonio artistico mondiale: lo squilibrio ecologico, gli attacchi violenti e la sempre crescente invasione turistica. Credo che quest’ultimo sia il più pernicioso – una sorta di piaga biblica che ho evidenziato con due lavori presentati tra il 2007 e il 2008 in eventi curati da Gino Gianuizzi: il video “W.A.Y.G. (Where Are You Going?). Apocalisse in classe turistica” al Palazzo dell’Arte, Triennale di Milano (“InContemporanea”) e il manifesto “Fu-Turista”, Parallel Event di Manifesta 7 (“Fuori contesto”).

Orde di peltasti consumisti che, prima dei luoghi fisici, corrodono l’anima e la vita autentica: penso alla scomparsa di cibi tipici a partire dal pane, sostituiti da intrugli precotti e surgelati che soddisfano i gusti più diffusi e grossolani; penso all’abbandono di colture e culture (poi magari qualcuno rispolvera le tradizioni che diventano consumi elitari e spesso farseschi); alle montagne dell’Himalaya invase dall’immondizia e alla prostituzione minorile esportata persino in mete un tempo ritenute spirituali come il Nepal; alle invasioni di croceristi e tuffatori nei canali di Venezia; fino ai più abbienti che s’impadroniscono di beni culturali per uso privato. Il progetto futurista è quasi del tutto compiuto: il ludus che auspicava (etimologicamente inganno, scherzo, e diverso da paideia, il gioco con cui si impara) è adatto a menti elementari e non ha nulla a che fare col Moderno – che è progettualità e non fanatismo o spiritosaggine. Come il mito della velocità che non ha niente a che vedere con la rapidità auspicata da Italo Calvino per il Terzo Millennio (“Lezioni americane”) né con l’antico concetto di festina lente.

Non è l’amore che muove questa umanità-turista, nei viaggi come nella pretestuosa condivisione di rapporti umani, ma la necessità di segnare il territorio con i propri umori, con il proprio narcisismo, con la propria presenza - e autenticarlo grazie a un selfie geolocalizzato: la tecnologia l’assiste e controlla in ogni istante, la informa su tutto senza farle capire niente.

A.D. - Georges Didi-Huberman mette in luce l'importanza di cogliere quei barlumi che resistono malgrado tutto, citando Pasolini che darebbe "l'intera Montedison per una lucciola". Tra le bioluminescenze che illuminano il nostro tempo e il nostro pianeta, non menziona quella degli organismi marini e in particolare del plancton, unica forma di vita visibile dallo spazio. Un curioso paradosso, come possiamo spiegarcelo?

A.Z. - In due libri Didi-Huberman parla di queste illuminazioni: “Phalènes. Essais sur l’apparition, 2” (Les Éditions de Minuit, 2013) - e “Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze” (Bollati Boringhieri, 2010): in quest’ultimo cita esplicitamente la metafora e gli anatemi di Pasolini sulla scomparsa dei piccoli insetti luminosi quanto dei bagliori dell’anima nella società fondata su una nuova forma di fascismo, industria e spettacolo senza scrupoli. Ma l’autore introduce una nota propositiva, una speranza di sopravvivenza, arrivando a riconoscere nei nuovi migranti, nei fuggitivi, lo spirito di popoli-lucciola che si illuminano dirigendosi verso un orizzonte vagamente luminoso. Io temo che si tratti di un miraggio che non porterà equilibrio e diritti nei paesi di provenienza né in quelli di destinazione. Sempre perché manca un progetto di società, perché si è fatto naufragare il concetto di Modernità estraendone utilitaristicamente solo gli aspetti più beceri della tecnica.

Walter Benjamin – citato da Didi-Huberman – ci affida la figura dell’Angelo della storia, che procede verso il futuro tenendo fisso lo sguardo sulle tragedie del passato, insieme all’idea di storia filosofica da considerare come scienza dell’origine: “Essa non emerge dai dati di fatto ma riguarda la loro preistoria e la loro storia successiva”. In altre parole, direi che nessuno può salvarsi privatamente perché il male inflitto si rigenera e riverbera in chi ha subìto torti, per riprodursi in una catena infinita. È sicuramente importante l’accensione di una fiammella, il porgere un bicchiere d’acqua, ma è un atto consolatorio e auto assolutorio, oltre che diseducativo per chi riceve l’elemosina: senza progetto, senza contesto, senza diritto di cittadinanza, resta un esercizio di stile legato alle nostre insignificanti esistenze individuali. “La pólis greca, come la res publica per i romani, è la prima garanzia contro la futilità della vita individuale”, dice Hannah Arendt – e la generazione infinita di soggettività non crea comunità. È come credere alla moltiplicazione delle immagini di uno specchio rotto o dello schermo di un computer. Si esasperano solo le virtualità di spazio e tempo come in un gioco di prestidigitazione. Il passato invece è sempre presente insieme al futuro racchiuso nella dimensione probabilistica, anche se non se ne ha percezione immediata e concreta: ho tentato di suggerirlo col mio lavoro mettendo in rapporto lo sguardo dell’Angelo di Benjamin con quello simmetrico di Orfeo che non può voltarsi indietro (mostra convegno “Orfeo e l’Angelo. Itinerari dell’etica nella complessità”, Casa delle Letterature di Roma, atti pubblicati da Edizioni Fahrenheit nel 2002).

Quindi, tornando alla Grecia, le luminescenze che ho cercato negli anni rispondevano – e rispondono – a una visione unitaria ma non univoca del mondo. Ne sono metafore poetiche, certo, le lucciole che ho visto nei campi quando da noi erano scomparse; ma anche i cieli stellati o il plancton di cui parli tu, carico di fosforo, che si accende nel mare notturno. Soprattutto però ho trovato quei lampi nella dignità degli sguardi antichi, nella lentezza, nella sapienza e nei racconti che risuonavano del canto degli aedi: il senso dell’Arcipelago ne era l’ordito prima che il boom economico cementificasse le coste trasformando in luna-park luoghi sacri dell’umanità, prima che il miraggio delle Olimpiadi 2004 e poi la feroce speculazione internazionale determinassero il tracollo definitivo dell’economia (ne ho accennato nella mostra-convegno “Kairós”, a cura di Patrizia Ferri e Mario de Candia al Museo Laboratorio dell’Università La Sapienza, atti pubblicati da Gangemi Editore, 2004/2006).

Dubito che queste riflessioni possano interessare chi è abituato alla sintesi dell’informazione fornita da ogni tipo di schermo luminoso: bagliori che temo comportino il rischio, a lungo andare, di indebolire la vista fisica e quella mentale. Non dico che si possa emulare Aristarco di Samo con le sue intuizioni sul sistema eliocentrico, ottenute misurando le dimensioni e il rapporto tra le distanze di Sole e Luna soltanto con l’osservazione e l’applicazione della geometria. Ma basterebbe riflettere sull’immagine scelta come simbolo della Biennale Architettura 2016: una donna in cima a una scala in una distesa desertica. La incontrò Bruce Chatwin (amico di Fermor, tra l’altro) durante un viaggio in Sud America: era l’archeologa tedesca Maria Reiche intenta a studiare i grandi disegni di Nazca realizzati con pietre allineate. Cercava uno sguardo dall’alto, passo dopo passo, portandosi dietro la scala di alluminio. Inimmaginabile per un Millennial: senza l’ausilio di devices, droni, mappe satellitari, assistenti vocali. Ma con molto amore, dedizione, tempo, poesia.

A.D. – “Portrait of the artist as a young dog” è il titolo dell'ultima mostra curata da Gino Giannuzzi e Danilo Montanari allestita negli spazi del F.A.R. - Fabbrica Arte di Rimini, a cui hai partecipato lo scorso febbraio. La mostra ricostruisce, anche attraverso i testi in catalogo, quel frangente storico che si colloca a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, così lontani eppure/oppure così vicini?

A.Z. - Il titolo della mostra ha evidenti riferimenti letterari (Dylan Thomas, Joyce) e nei testi è raccontata la storia della galleria Neon a partire dall’atmosfera creativa bolognese del 1977. Io per generazione ho respirato anche l’aria del ’68 e credo che la convergenza con lo spazio di Gino Gianuizzi – all’inizio degli anni ’90 - sia stata sulla visione militante della ricerca artistica, anche se con accezioni differenti - una più apollinea, sintetica, essenziale, l’altra dionisiaca, festosa, estroversa - ma complementari nell’azione di smascheramento dello statu quo, della Restaurazione dell’Ancien Régime.

Sto per dire cose scontate e già consolidate da molti studi e autori, anche da guru pentiti della virtualità: gli anni Ottanta hanno segnato la fine di un mondo (dalla Grecia al Novecento) e l’inizio del periodo in cui ora siamo immersi. Cioè, fondamentalmente il declino del pensiero critico e dell’idea di democrazia su cui si è innestata l’invasività informatica (sembra che tutto debba essere accettato solo perché avviene nel presente indifferenziato, come per la condizione animale). Non è neanche un’orgia dionisiaca, come qualcuno pretenderebbe per nobilitarne il carattere, ma omologazione totale (culturale, politica, creativa). La trasgressione orgiastica avveniva in Grecia con ritualità, in determinati momenti e luoghi - e con grammatiche precise si alternava all’apollineo, all’armonia, alla regola. La trasgressione non è più tale se è continua: semmai è automatismo istintuale e indifferenziato, come se in arte si consegnasse il pennello o il computer a una scimmia per poi farne filologia. Ci insegna Roland Barthes che è inutile cercare il non senso, perché non si sfugge al senso che lo recupera come senso del non senso. Siamo nel mondo manifesto, nel regno della materia, e incontrare l’antimateria produrrebbe l’annichilazione di ogni cosa: semplicemente, non si può fare. Tanto vale scegliere consapevolmente entro il limite che ci caratterizza, perché non ci sono più alibi attendibili: solo il mercato se li inventa su misura perché rifiuta ogni norma, etica, legge, essendo fondato su necessità (spesso psicologicamente indotte) e come la vita privata (direbbe ancora Hannah Arendt) è un fenomeno pre-politico. Un’ideologia per primati.

Negli anni Ottanta sono stati soffocati ideali, utopia, fiducia nel futuro, anche se il clima di irresponsabilità faceva pensare a molti che si trattasse di una festa. Non è colpa del ’68, come la vulgata qualunquista attualmente imperante ha inculcato nelle nuove generazioni insieme alla guerra per la sopravvivenza tra vecchi e giovani, anziché combattere le diseguaglianze tra ricchi e poveri, tra privilegiati ed emarginati. Lo ricordava di recente Umberto Galimberti: quel movimento “Non è fallito per ciò che si proponeva, ma perché è stato assorbito dal suo opposto, che parlava il suo stesso linguaggio (ecco l’avvertimento nel “Fedro” citato all’inizio) ma con intenzioni differenti”. Come il rifiuto del limite che è stato manovrato dall’ideologia efficientista trasformando ad esempio gli altri in competitori per la corsa al successo personale e al denaro. O come l’idea di libertà sessuale che il capitalismo, con l’attitudine a valutare economicamente ogni aspetto della vita umana, ha trasformato in mercimonio, in reiterazione patologica senza senso, senza piacere autentico e senza possibile affrancamento dalla dimensione animale.

Credo che all’inizio degli anni Novanta ci sia stato l’ultimo sussulto di speranza politica e giustizia sociale in Italia con ‘Mani pulite’; e sul piano artistico un ulteriore lampo con diverse realtà propositive. Tra gli spazi con cui ho collaborato c’erano la galleria Paolo Vitolo che ha rappresentato un momento di innovazione a Roma e non solo; a Bologna c’era Gino Gianuizzi con Neon che faceva da fulcro anche con Milano, dove era attivo lo spazio no-profit Viafarini di Patrizia Brusarosco. Poi mi sembra che tutto sia stato riassorbito anche per la concomitanza di fenomeni epocali che qui sarebbe complesso analizzare. Direi che si è perso definitivamente il residuo di umanesimo, di dimensione artigianale – vedi il postumano, la robotica, la cosiddetta intelligenza artificiale e quello che Marc Augé ne “La guerra dei sogni” individua come surmodernismo e finzione mediatica. “L’umano e la sua custodia” – sostiene poi Stefano Rodotà – “si rivelano non come una resistenza al nuovo, al timore del cambiamento o come una sottovalutazione dei suoi benefici. Si presentano come consapevolezza critica di una transizione… Parlare di una politica dell’umano, allora, è esattamente l’opposto di pratiche che vogliono appropriarsi d’ogni aspetto del vivente”.

Per quanto mi riguarda, passando per Rimini ho avuto modo di scambiare alcune di queste riflessioni con Giorgio Gemisto Pletone, che sono passato a salutare al Tempio Malatestiano di Leon Battista Alberti – sua attuale dimora e architettura simbolo del Rinascimento. Quello, sì, un autentico esempio di ordine trasgressivo o di trasgressione ordinata: sembra il frutto di un dialogo tra Dioniso e Apollo.

A.D. – Quali serendipità ti hanno portato a ritrovarti in sintonia con “una specie di anarchia comunitaria di monelli dell’arte” (young dog) che ha avuto Roberto Daolio tra i suoi fiancheggiatori?

A.Z. - Alla mia età cominciano a esser molte le persone di cui si deve parlare al passato e Roberto Daolio è purtroppo tra queste. Mi ha coinvolto, spesso con Gino, in molte sue mostre tra cui “Aperto ’95. Out of order” alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna.

Al F.A.R. di Rimini, lo scorso febbraio, doveva essere esposto anche lo striscione di Castel San Pietro (da “Alfabetizzazione”, 1996, a cura del compianto Mauro Manara) con una frase dell’Angelo che porge a Giovanni un libro nell’ “Apocalisse” – e una citazione di Noam Chomsky su ricchi e poveri del pianeta (ci fu una coda polemica con le autorità per questa trasgressione precedentemente autorizzata, e una risposta di Michele Serra su “l’Unità”). Ma l’opera è andata perduta come molte altre che ho realizzato e che, oltre a una fragilità intrinseca, avevano anche il carattere della provvisorietà, dell’apparizione momentanea, dell’invisibilità. È stato esposto invece un perspex bianco con la scritta nera Zeit – il tempo, il ciclo – che era l’opera assente (e mai esposta prima) dell’installazione “Periodos” (perspex con scritte bianche su fondo nero) che ho realizzato da Neon nel 1992, con la cura di Roberto Pinto: una misurazione alchemica dello spazio, con assi cartesiani e piani inclinati, che non escludeva indicazioni accessorie per orientarsi nello spazio espositivo.

Per concludere la risposta alla tua domanda devo ribadire il dualismo tra mithos e lógos, tra Apollo e Dioniso, che convivono in ciascuno di noi e che in quel periodo emergevano per coniugare situazioni artistiche differenti su un’idea di giocosità propositiva, di paideia per l’appunto. E il denominatore comune risiedeva in qualcosa di simile a ciò che Platone definisce follia divina (nel “Fedro”, che è un’opera anomala, duale, in cui si affrontano argomenti apparentemente estranei tra loro e di grande attualità - l’amore e il linguaggio tra scrittura e oralità): Platone distingue quattro tipi di questa follia riconducibili a quattro divinità: attribuisce l’ispirazione profetica ad Apollo (non a cartomanti, opinion leader o manager d’impresa) quella iniziatica a Dioniso (non allo sballo da discoteca) la follia amorosa a Eros e Afrodite (non agli spot pubblicitari) la follia poetica (forse quella che le riassume tutte) alle Muse.

A.D. – Marco Lodoli ne “L’eroe e la maga” dice: “Io qui sto bene, ed è forse da questa crepa che entra il vento del mare”. Su quali schermi ti vedremo prossimamente?

A.Z. - Difficile rispondere. Ma il senso di assedio da sovraesposizione, da eccesso di parole e immagini, si avverte sempre più forte insieme al desiderio di rarefazione e isolamento. Forse è meglio tacere, sottrarsi di tanto in tanto – cosa che anche col mio lavoro ho sempre fatto. Il silenzio è la cosa più preziosa e più rara. Ma mentre lo dico scopro che ne parla anche Michel Maffesoli in una recente pubblicazione che aggiorna il pot-pourri postmoderno con la solita solfa dell’anti modernità e l’elogio del pensiero che lui definisce non-razionalista, praticato dalle nuove tribù come una sorta di utopia quotidiana, interstiziale, di carpe idem (appunto, io lo definirei di comodo) che non si pone il problema del vivere civile, prima che del futuro. Già l’idea di tribù – di famiglia, di clan – conferma un regresso rispetto all’idea di pólis: sa di affari miei, come recitava anni addietro una pubblicità con avvenenti modelle e modelli dall’aria imbronciata e scontrosa, come se avessero subìto una depilazione totale senza anestesia. Poi bisogna ricordare che ogni guerra (economica, di religione o per ‘esportare democrazia’) è favorita dal non-razionalismo, cioè dal non saperne o volerne immaginare le conseguenze immediate e a lungo termine – e antropologicamente (tralasciando appunto l’antipatia fra specie, cane e gatto per esempio, che va ancora più indietro nella scala evolutiva) inizia proprio dalla contrapposizione fra bande, fra tribù. Anche prima degli anni Ottanta il sogno della Modernità non si è interrotto per il suo carattere progettuale, bensì a causa di fenomeni non-razionalisti come fascismo e nazismo (che peraltro riemergono costantemente, proprio perché il pensiero non-razionalista è molto diffuso). Il problema per l’umanità dunque è nella istintualità naturalistica che consente l’uso indiscriminato di tecnica e denaro a scopo di sopraffazione, perché per fare soldi e usare tecnologie non occorre grande intelligenza, cultura, virtù.

Il tema del silenzio, comunque era già stato affrontato da Ugo Volli con “Apologia del silenzio imperfetto” nel 1991, ipotizzando una sorta di ecologia semiotica – e da Stuart Sim con “Manifesto per il silenzio” nel 2007, in cui si affronta il rapporto politico tra silenzio e pensiero critico. Per non parlare delle considerazioni di Umberto Eco a proposito del rapporto tra web, sovrapproduzione di rumore e disvelamento dell’idiozia umana. Inoltre, mi sento decisamente novecentesco e per formazione coltivo da sempre la lezione di Giulio Carlo Argan sull’arte come politica: me la confermò in una toccante intervista poco tempo prima della sua scomparsa. Solo che ormai è un’idea talmente condivisa, come quella della libera espressione, da risultare anch’essa banalizzata e facilmente strumentalizzabile.

Non ho grande fiducia nelle società scaturite dal Grande Capovolgimento in atto, né mi sembra che si possa dire migliorato il mondo dal fatidico 1989, che ha portato alla spartizione economica del pianeta e alla conseguente globalizzazione selvaggia sostenuta, come tutti i totalitarismi, da una forma di servitù volontaria: lo ha spiegato Étienne de La Boétie già nel 1500. Per di più, oggi ottenuta in cambio di gadgets a pagamento per farsi controllare, influenzare, e consumare.

In una situazione di guerra diffusa e capillare, di sempre maggiori diseguaglianze, di migrazioni epocali che hanno ridotto il Mediterraneo a una fossa comune in cui smaltire l’umanità in eccesso, si è perso ovunque il senso di una visione unitaria delle cose, di progetto e utopia. Forse per questa impossibilità di dire, sto preparando per novembre una piccola installazione a Roma sul tema del sonno accorto, di quello che tu dici habitare secum: “Il sogno del Kouros” che, come altri Dormienti in diverse tradizioni, vigila in silenzio e continua a immaginare nell’attesa di una rinascita. Ma non vorrei rivelare di più perché il lavoro si colloca nell’ambito di un progetto con altri artisti – e comunque presto si potrà vedere. Poi al Macro, in una mostra su “Arte e politica” a cura di Costantino D’Orazio, sarà esposta “Hic sunt leones”, opera del 1995 (dall’omonima personale al Museo Laboratorio della Sapienza, a cura di Teresa Macrì) che insiste sulla memoria di due grandi tragedie dell’umanità – Auschwitz e Hiroshima.

Concludendo, mi accorgo che forse ho parlato troppo – e molto al passato. Probabilmente perché mi torna in mente la preoccupazione di Plutarco – sacerdote a Delfi nel primo secolo – che avvertiva il declino dell’Oracolo a cui ormai la gente si rivolgeva per avere i numeri del superenalotto. In quella lunga epoca di transizione, che più tardi vedrà i tentativi di Plotino, Porfirio e altri per tramandare il pensiero greco, c’era il presagio della censura definitiva: la chiusura dell’Accademia di Atene che sarebbe stata ordinata nel 529 da Giustiniano, a garanzia di una lunga notte della Ragione.

Ma bisogna essere pazienti. Prima o poi, secolo più, secolo meno – in questa o in un’altra dimensione – ci sarà modo di ritrovare cose dimenticate per generare istanti di lucidità politica, culturale, creativa. Per coltivare ciò che unisce nella differenza e non ciò che separa, personalizza, frammenta, specializza, con la finalità sottesa di rendere uniformi. Per ricominciare a guardare cose invisibili e ascoltare in silenzio il soffio del vento che muove le foglie.

Ottobre 2016