Note e riflessioni in dialogo con Pasquale Polidori

 Teresa Lucia Cicciarella

 Nel lavoro di Pasquale Polidori (Tollo, Chieti, 1964), la dimensione visiva dell’opera si può dire generata dalla parola. Generata, letteralmente e non, per drammatizzazione di un testo –testo che è movimentato, attivato per manipolazione ma anche, spesso, messo in scena in azioni performative– o attraverso l’analisi, la scomposizione e il riassesto della parola in nuove combinazioni che, come ricorda l’artista, nell’idea di un ipotetico ordine già dettano “una possibilità di armonia, di visualizzazione, di rappresentazione”.

Portare la parola o ancor meglio la frase, il discorso, verso una dimensione visiva, è intento che per Polidori nasce, in prima battuta, intorno agli studi di linguistica e di filosofia, oltre che per interesse verso l’arte. È inizio di un dialogo polisemico, aperto, tra parola e immagine giacché la parola viene trattata come volume in potenza, come materia creativa che si diffonde nello spazio (reale, espositivo o in video) o sulla superficie del poster, della cartolina, del foglio di carta che diviene sede di slittamenti di senso, di sintattici ‘errori provvidenziali’, di dettati e traduzioni in bilico sul limine del letterale.

Per Polidori la radice visiva di un discorso, da rintracciare ed esplicitare attraverso l’opera d’arte, non è altro che la sintassi del discorso, la possibilità di individuare in esso un’idea di ordine. E ciò riguarda, sottolinea, sia il discorso occasionale, banale, “quello che si fa parlando senza tenere necessariamente a bada il pensiero e la parola”, sia il discorso meditato, filosofico o letterario, che spesso diviene sostanza primaria del suo lavoro.

Del resto nel linguaggio –Wittgenstein docet– le parole si configurano come elementi mobili e malleabili, il cui significato può mutare a seconda delle relazioni che si creano, entro infiniti giochi linguistici, ciascuno caratterizzato da regole proprie. E da ciò scaturisce, con buona probabilità, una cospicua serie di possibilità del visibile, dell’afferrabile anche attraverso l’occhio, come mostrano circa vent’anni d’attività dell’artista con il quale, a seguito di un lungo confronto, si sono individuati e sviluppati alcuni termini-chiave, utili per spiegare un modus operandi e una poetica strutturati sulle qualità del discorso, sull’intelligibilità della parola e sugli stimoli o gli ostacoli che a quella si possono accompagnare.

a) Riflessioni sul concetto di “filtro” a partire dalla pratica di interposizione, a un dato testo scelto dall’artista, di una griglia concettuale, di un possibile metodo alternativo di strutturazione della parola e del discorso.

Polidori: “Un primo filtro si individua in lavori di una ventina di anni fa, quando ho operato, ad esempio, sulla semplificazione del discorso attraverso metodi scientifico-linguistici, di scomposizione del discorso complesso in frasi semplici, ai quali fa seguito la visualizzazione in forma grafica. Ancor oggi l’idea del filtro mi appartiene e, anzi, credo che tutto il lavoro sulla lingua si possa riassumere nel tentativo di porre un filtro. Un filtro è, inizialmente, l’analisi del testo; un filtro è il tentativo di far recitare un testo a diverse voci, mettendolo alla prova di una differenziata vocalità. È la voce, a quel punto, a lavorare come filtro. Un molteplice filtro (non più analitico ma metaforico) si ritrova, per esempio, nel lavoro fatto su verbali di tema politico. Innanzitutto, c’è la recitazione: nel caso dei testi di interpellanze svoltesi al Parlamento europeo [rif.:Torturing flowers, trilogia video, 2011], questi erano filtrati visivamente da una azione scenica, da me condotta, che tendeva a metaforizzarli in modo laterale; inoltre, sul piano vocale, i testi erano filtrati dalla recitazione in inglese di attrici alle quali era richiesto di interpretarli in modo incongruo e falsato rispetto al tema originario. In questo senso, dunque, il filtro è qualcosa di ricercato. L’obiettivo è rallentare la comprensione del testo: nei confronti di quello o del discorso in generale, c’è infatti una percentuale di attesa altissima. La prima ‘attesa’ è già nella natura della lingua quindi se dico un verbo tu ti aspetti un oggetto, se dico un nome tu ti aspetti un verbo, e così via; c’è un tipo di tracciato che sta nella sintassi e che detta un nostro atteggiamento, una nostra aspettativa verso la lingua, e poi ce n’è un altro di tipo culturale, semantico, eccetera. Per cui, se so che l’argomento trattato sarà un’interrogazione parlamentare, mi aspetto un certo tipo di forma e certi contenuti. Molto spesso, quello che noi prendiamo dal discorso è quello che ci viene automatico prendere. Quello che voglio fare è rallentare il più possibile questa comprensione, sviarla totalmente ponendo dei filtri che facciano in modo che il discorso arrivi lento, distorto, lontano. Questo vale tanto per i discorsi politici quanto per la poesia: nel momento in cui si prendono dei versi di Carducci, Penna, Ungaretti [Forma manifesta, serie di lavori performativi e video, 2012-2016; dedicata al rapporto tra parola e sforzo fisico, si concentra sulla recitazione, frammentata e rallentata, prodotta da un’atleta nell’atto di compiere esercizi ginnico-acrobatici] e si fanno recitare parola per parola, rallentati, cosa succede? Succede che quella poesia non corrisponde più a un pattern che si ha nella memoria e quindi, in un certo senso, la memoria va a infrangersi contro quel filtro. Il filtro in questo caso è l’atleta, è il corpo dell’atleta, la sua voce; il filtro sono anch’io, com’è avvenuto nell’azione svoltasi alla Sapienza [Giuseppe Ungaretti, Il Porto Sepolto. Con Chiara Lucisano e Pasquale Polidori, 28 maggio 2016, Museo di Arte Classica, Sapienza Università di Roma, nel contesto della mostra  Confluenze. Antico e contemporaneo, a cura di Nicoletta Cardano e Francesca Gallo] quando decido che le parole devono essere date con un certo ritmo, attraverso fogli mostrati anche al pubblico, e che quei fogli devono essere gettati per terra… il testo di Ungaretti ne risulta diluito, la comprensione viene appesantita e rallentata, generando un effetto di spaesamento, di perdita dell’orizzonte”.

b) Riflessioni sul concetto di “inciampo”, scaturito dalla constatazione di come, in special modo dalle azioni di Forma manifesta, s’inneschi una comunicazione frammentata attraverso stimoli metaforici o concreti che si pongono a ostacolo della comprensione del testo poetico.

Polidori: “Il filtro, l’inciampo, entrambi agiscono similmente: il filtro fa sì che alcune cose passino e altre no; anch’esso dunque è una possibilità del visibile. Per descrivere l’azione di un filtro, immaginiamo che si creino due piani, una prospettiva per cui alcuni elementi vengono in avanti, altri rimangono indietro e, rimanendo indietro, molto spesso si perdono, rimangono così distanti che, ponendo un’analogia con ciò che in Forma manifesta accade al verso poetico, perdono unitarietà. Porre un filtro significa porre la possibilità che ci sia una forma metaforica del visivo; così anche l’inciampo è la possibilità di creare uno slittamento. Per esempio, un tema drammatico e serio come quello di Cat on a Hot Tin Roof [La gatta sul tetto che scotta, 1955; rif.: Before Happiness Had a Name, video documentazione di una performance teatrale, 2010] di Tennessee Williams può diventare comico nel momento in cui incontra un discorso svoltosi a Montecitorio intorno alla posizione del Governo italiano sul World Pride (maggio 2000). La disarmonia tra i due elementi, forzati a collimare, viene colta come un effetto comico. Questo è l’inciampo. E c’è, possiamo dire, un inciampo comico da cui scaturisce la risata e un inciampo non comico da cui scaturisce un disorientamento drammatico”.

c) Riflessioni sul concetto di “gioco” linguistico, sulla traccia del meccanismo con cui l’artista, in particolare, opera una dislocazione dei singoli elementi del discorso, o di un testo scritto, in ‘ambiente’ diverso.

Polidori: “Se dici ‘gioco’, viene in mente l’infanzia ma posso dire che ci sono dei bambini che giocano molto seriamente. Non per forza bisogna arrivare a un’enunciazione di tipo filosofico: il gioco è una delle possibili figure della comunicazione umana; domanda-risposta-commento sono delle posizioni, creano delle situazioni e il discorso in sé ricrea delle posizioni del gioco. La comunicazione è una forma di gioco, che poi non è sempre giocoso nel senso ilare o divertito della parola ma può diventare, invece, pesante per cui colui che gioca, che è piuttosto portato, giocato, che non giocatore. Questo è ciò che accade anche con la lingua e quando noi giochiamo con i concetti, con le parole, giochiamo a parlare, in realtà siamo piuttosto passivi rispetto a questo meccanismo. La lingua è un gioco di scacchiera (un classico concetto di Saussure) in cui i pezzi possono essere differenti, chiamarsi in un modo o un altro, possono essere parole o segni, possono essere in lingue diverse, ma ci sono delle regole che fanno sì che questo gioco sia individuato come una produzione regolata di significati e di segni. Questa è la base scientifica del fatto che una persona anche quando parla, o crea arte, sta usando un sistema, un linguaggio e in quanto tale sta giocando. Questo discorso, che agli inizi era molto presente nel mio lavoro come riferimento formale, andando avanti si è attenuato: inizialmente, ad esempio, tra fine anni Novanta e primi Duemila, realizzavo dei pattern alla ricerca di un’armonia visiva e dunque di una serialità visiva e della parola; quel tipo di lavoro è, in effetti, un po’ più vicino al gioco perché è più vicino alla regola e la regola fonda la possibilità del gioco. La regola è comune tra il gioco e la creazione, l’arte, la comunicazione: quando si riduce il linguaggio a delle norme precise, ammesso che questo sia sempre possibile, si propone per il linguaggio una metafora, che è appunto quella del gioco. Nel momento in cui le norme sono meno evidenti, viene certamente meno una riflessione di tipo strutturale, ma quel lavoro diviene più metaforico? Forse sì, perché laddove, ad esempio, decidi di fare un ‘collage’ tra due situazioni diverse, in realtà stai mettendo in atto tutti i verbi del gioco (fingere, slittare, incrociare, incollare, muovere le pedine…). In questo senso, forse, il gioco riguarda l’arte, la tecnica artistica come linguaggio.

d) Riflessioni sul rischio di una “iper-significazione” del testo artistico, derivante dall’utilizzo, dalla manipolazione e dalla stratificazione della parola nell’arte visiva.

Polidori: “L’iper-significazione, forse, è un rischio ‘dovuto’, ma non mi sentirei di essere troppo assertivo. L’iper-significazione, come ‘dire troppo’ (ma non come problema morale) o ‘dire, significare, a più livelli’, si può considerare come una possibilità che è sempre data al nostro linguaggio. Nel momento in cui si prende una parola, la si scorpora dal linguaggio, la si obbliga a stare da sola o sganciata da questo contesto e si posiziona in un contesto differente, lì nasce il problema della iper-significazione. Perché è come aver deciso che quella parola deve divenire un sostantivo, deve filosoficamente sostanziarsi; una parola che si sostanzia è come una nuvola che deve addensarsi in modo estremo. Ecco perché, a volte, si ha la sensazione che la parola, nell’arte, diventi iper-significante. Alcune operazioni molto elementari già pongono un grado di iper-significazione: sottolineare, ripetere, visualizzare in forma grafica o scultorea, associare la parola a un’immagine, come fa una parte della poesia visiva, e al limite anche il semplice dire la parola costituisce un’aggiunta di significato rispetto alla parola non detta. È iper-significante il discorso di Gina Pane? Dipende da quale punto di vista. Se guardi una sua performance, certamente riconosci che è ricca di significati, una ricchezza armonica e architettata; se leggi i testi che scriveva per le sue performance, scopri che sono molto complessi e forse iper-significanti anche per il modo in cui sono scritti, per la quantità di concetti che vi si affollano senza nessuna fluidità, come pietre addossate l’una all’altra. C’è, quindi, un trattamento del linguaggio che fa sì che la parola acquisti un suo peso e questo è anche quello che fa l’arte. L’arte dà peso, l’arte è volume ed è peso e così, quando fai arte, ti devi porre il problema di questo volume, di questo peso. È come se tutti gli artisti in un certo senso facessero scultura, e nei confronti della parola tu fai la stessa cosa, ti comporti come uno scultore e quindi vai a dare a quelle parole un volume e un peso. Lì, forse, risiede il destino della iper-significazione. E si tratta di un destino a cui è difficile sfuggire. Diciamo che se ‘sollevi’ la parola, la prelevi da un flusso testuale, la blocchi, è come se le stessi dando peso, volume e la trattassi dunque come materiale scultoreo. Ed è quello che fanno anche i filosofi, i poeti. Tuttavia, un aspetto della parola che ho poco praticato dal punto di vista artistico è stata proprio la visualizzazione della parola attraverso strumenti scultorei. L’ho fatto in rari casi, ho volutamente trascurato quest’aspetto di accentuazione o utilizzo del volume materiale per rendere ‘accettabile’ la parola all’interno dell’arte; questo non mi ha mai interessato, mi sembrava una cosa già fatta, passata. Quello che mi ha attratto è stato invece un volume di tipo diverso, astratto. In un certo senso, la possibilità ‘scultorea’ del discorso non è materiale, fatta di materiali concreti, ma è fatta di come la parola viene trattata: è una volumetria astratta. E questo da un certo punto di vista può significare iper-significazione, sottolineatura, evidenziazione estrema, ma in realtà questa significazione sta nelle cose, nelle parole. Mi interessa quello spazio che il discorso genera ed occupa anche al di qua di una sua rappresentazione puramente materiale o di un suo uso in rapporto all’immagine. Esiste una funzione iconica del discorso che non ha nulla di visibile in senso stretto. Quando io prendo un titolo di Adorno, ad esempio, non puoi dire sia ipo-significante, possiamo semmai ipotizzare che sia iper-significante di per sé [rif. Playing Adorno, serie di adattamenti della Teoria estetica di Theodor W. Adorno. Si veda ad esempio l’installazione site specific a vetrina intitolata Fatto linguistico, 2016, realizzata in occasione di Nuovi Camerini – Cambi di Stagione, un progetto di artisti§innocenti per le vetrine di MAS -Magazzini Allo Statuto, Roma, 11 settembre–10 ottobre 2016]. Ecco, questo significato ‘grasso’, questa forma continuamente allusiva e indicativa di qualcosa d’altro, questo discorso che si dà una forma, tutto ciò è il potenziale iconico. Tutta la Teoria estetica di Adorno, probabilmente tutta la filosofia, tutta l’arte sono iper-significanti. Anche se provi a forzare, ad abbassare il significato, a star dietro il significato, il discorso filosofico è così ricco che non si spegne, vi puoi semmai prendere parte rispondendo ad esso, che è quello che io oggi vorrei fare con i lavori su Adorno. Rispondere a quel tipo di linguaggio, a quella lingua che per me è o si può porre solo come opera d’arte. Nel senso che la riflessione che Adorno svolge sull’arte è arte a sua volta”.

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Nell’attività artistica di Polidori, molteplici percorsi si dispiegano intorno alle direttrici fin qui commentate e scelte in modo da comporre un’ipotetica scacchiera, della quale usufruire per accompagnare la percezione di un lavoro complesso.

A partire dalla personale Ricerca dei contrari e dei rovesci (Studio Change, Roma 1997), curata da Domenico Scudero e fino agli esiti più recenti, la rigorosa analisi dei significati e delle regole compositive della sintassi, dell’espressione di concetti e dell’incessante dialettica tra soggetto e oggetto, dello spiazzante accostamento di diversi registri linguistici, ha trovato forma in lavori via via più nitidi, realizzati con vari materiali e media che vanno dalle stampe su differenti supporti (vetro, ceramica) al libro, dal video, alla performance. Nell’orizzonte costante di una ricerca estetica raffinata, non fine a se stessa – veicolo, semmai, di chiarificazione del senso, come testimoniato pochi mesi fa dalla personale Pasquale Polidori. Non si raccontano i sogni, a cura di Silvia Bordini (marzo-aprile 2015, Sala Santa Rita, Roma) e dalla mostra a tre voci Sintattica. Luigi Battisti Claudio Adami Pasquale Polidori, a cura di Francesca Gallo (maggio-ottobre 2015, Museo Hendrik Christian Andersen, Roma).

Lontano dagli esiti e dai tempi operativi della Poesia visiva, Polidori non persegue la creazione poetica eppure talora la tocca, insinuando il tempo momentaneo dell’attesa, del dubbio, nel passaggio della comunicazione da un locutore all’altro, da una voce all’altra.

 

Ottobre 2016