Intervista a Eugenio Tibaldi

Brunella Velardi

Dopo quasi vent'anni vissuti tra Giugliano, Licola e Napoli, e aver esposto al Madre di Napoli, a Salonicco, a Cuba e Istanbul – solo per citare le mostre più recenti – nel 2016 Eugenio Tibaldi si è trasferito a Torino per lavorare sulla zona di Barriera di Milano e mettere a punto il suo progetto Seconda chance per il Museo Ettore Fico, inaugurato lo scorso ottobre. Alla continua ricerca dei fermenti che animano le periferie cittadine, Tibaldi ha elaborato un'estetica lieve e brutale allo stesso tempo, che non cede il posto a sbavature né patetismi. Nella meticolosa indagine dell’artista, mossa da un'apparente forza ordinatrice, elementi della composizione e interferenze contribuiscono a un equilibrio complessivo e indiscutibile, a dispetto delle contraddizioni che accoglie in sé. Oggetti di vita quotidiana, architetture, scorci, strutture naturali vengono raccolti e amalgamati per dare alla luce nuove forme, in un linguaggio ibrido tra l'iperrealistico e l'onirico. Partendo da una fase di documentazione itinerante, Tibaldi circoscrive il suo campo di indagine, scatta fotografie che fungono da annotazioni visive, appunti per immagini che divengono oggetto artistico in quella peculiare inclinazione archivistica dell'estetica contemporanea, a rimarcare che anche il presente ha una stratigrafia da cui è impossibile prescindere. E nella perpetua oscillazione tra stadio preliminare e stadio finale l'artista rintraccia i nessi latenti tra dimensioni opposte: effimero/eterno, informale/ufficiale, grezzo/raffinato impregnano tanto la sua ricerca teorica - componente sostanziale e costante del suo modus operandi - quanto i suoi lavori, in cui l’imperfezione è sempre elemento essenziale per il raggiungimento della più alta pulizia formale, sintesi armonica e schietta della realtà e della sua narrazione.

Lo incontro in occasione del suo ultimo progetto per Napoli, Studio sulle "Architetture Minime", tra dicembre 2016 e gennaio 2017.

BV Prima di intraprendere la carriera di artista hai frequentato diversi corsi di studio, come se fossi alla ricerca di qualcosa che nessun percorso prestabilito riusciva a darti. Cosa rincorrevi all'epoca?

ET In realtà non so dirti esattamente cosa cercassi, so che mi sono ritrovato nel percorso formativo dell'Accademia di Torino prima e del Dams poi, per chiudere con lettere e filosofia a Napoli: forse avevo solo voglia di studiare cose diverse in luoghi diversi.

BV Ti sei trasferito a Napoli molto giovane, quando avevi 22 anni. Cosa cercavi qui che non avevi trovato altrove?

ET L'arrivo a Napoli è stato una sorta di fuga, allora a Torino lavoravo già come artista e non ero pienamente soddisfatto di quello che facevo, le opere e le ricerche che seguivo non risolvevano le domande che avevo. Napoli è arrivata in me con la violenza che la contraddistingue senza mezze misure, ed il merito più grande che ha avuto è stato quello di non occuparsi di me. Così ho iniziato a studiare le periferie come alternativa evolutiva, come luogo in cui, lontano da ogni amore storicizzato, si può generare il nuovo.

BV In passato hai lavorato anche come designer di interni. Mi racconti di quell'esperienza e di come si coniuga con la tua ricerca artistica?

ET Il lavoro nel campo del design mi ha dato molta gioia e quando riesco continuo a fare piccole incursioni collaborando con architetti ed ingegneri. A differenza dell'arte, l'architettura e il design rispondono ad una specifica richiesta; questo mi semplifica la vita, per cui è per me salutare a volte intervallare dei lunghi periodi di ricerca artistica ad un fare finalizzato. In questo Napoli mi ha dato molte possibilità di incontrare persone visionarie e poco legate agli schemi disposte ad affidare l'estetica delle loro strutture ad un artista.

BV Sapresti ricostruire come è nato in te l'interesse per le dinamiche informali di appropriazione degli spazi pubblici?

ET Il confine fra pubblico e privato è una condizione mentale, noi abitiamo questa terra ed in senso lato è nostra come di tutti gli altri abitanti, l'idea di privato è più assimilabile ad un concetto di possesso più che di vita. In questa dimensione ho ricercato negli anni analizzando in modo quasi antropologico le dinamiche che portano all'emersione di fenomeni di appropriazione illegale degli spazi e determinano una visione del paesaggio decisamente più dinamica e mobile rispetto ai centri storici.

BV Nella tua ricerca abbracci, tra gli altri, temi economici, sociologici, antropologici. Vivi il tuo lavoro come anello di congiunzione tra le tante prospettive dalle quali leggere la realtà?

ET Dico sempre che alla fine io faccio l'artista, per cui non sono tenuto né a dire delle verità assolute né a  trovare soluzioni. L'arte è ad oggi il linguaggio con cui riesco ad esprimere meglio me stesso, a raccontare le condizioni di contemporaneità che mi affascinano e a risolvere le questioni che mi assillano. Spesso la persona che trae più beneficio dai miei lavori sono io, nel senso che facendoli, ricercando in quella direzione rispondo a delle domande che mi angosciano e che spesso dopo la ricerca smettono di stare con me.

BV Il tuo interesse per le periferie urbane nasce dalla convinzione che quei luoghi possono diventare “il perno su cui le logiche economiche centrali possono riorganizzarsi e rinvigorirsi”. Credi in un riscatto della periferia?

ET Spero che il riscatto della periferia non avvenga mai, non vedo da cosa dovrebbe riscattarsi e rispetto a chi. La periferia è in primo luogo una dimensione mentale, possiamo vivere nel centro di una città in modo periferico, possiamo vestire, agire e pensare in modo periferico, questo rappresenta una valida alternativa e per me non va cambiata. La periferia è ciò che migliora l'istituzione, è il banco di prova oltre ad essere il motore economico e sociale che attiva il cambiamento.

BV Facendo riferimento al tuo ultimo progetto, Studio sulle “Architetture Minime”, l’architettura minima dei giacigli dei senzatetto è metaforicamente un’architettura periferica all’interno della città. Non c’è secondo te un parallelismo tra le architetture spontanee dei clochard e quelle, altrettanto spontanee e abusive, che si incontrano appena usciti dal perimetro urbano?

ET A Napoli non serve uscire dal centro per trovare architetture spontanee, come ben sai basta pensare ai bassi, alle superfetazioni sugli attici in pieno centro o agli interni cortili che diventano esempi di micromondi allargati. Ma queste sono cose molto diverse, l'abusivismo e l'architettura spontanea per me rappresentano la possibilità del singolo di cambiare l'estetica e di comunicare all'esterno una sua esigenza di vita (se aggiungi una stanza sul terrazzo forse ti è nato un nuovo figlio, oppure hai bisogno di uno studio in casa... insomma una sorta di crescita naturale e selvaggia che risponde più a regole della giungla che non a quelle dell'urbanistica. Il discorso delle architetture minime invece è staccato, io non parlo delle storie di chi le abita e delle scelte che ha fatto (sarebbe complesso ed irrispettoso) mi limito a osservare e studiare le costruzioni temporanee in cui abitano e dopo una lunga osservazione questo progetto è la prima tappa di un lavoro che cerca di osservare il fenomeno in modo diverso.

BV Un fenomeno come l'abusivismo inteso in senso lato, da quello che coinvolge l'edilizia a quello che si manifesta nell'affissione sregolata di cartelli pubblicitari fino all'occupazione di suolo pubblico, rappresenta, per le società che si autodisciplinano attraverso leggi e regolamenti, una "minaccia" al decoro, che è spesso inteso come sinonimo di bellezza. Nella tua ricerca è invece il punto di partenza per l'individuazione di un equilibrio estetico che è assai ben leggibile nell’opera finita; eppure sei tu stesso un membro della macrosocietà occidentale, per parlare in termini a te vicini. Cosa scatta in te laddove altri vedono degrado e squallore? Come avviene per te il passaggio dal segno residuale all'opera d'arte e dove si innesta la continuità tra l'uno e l'altra?

ET La precarietà rappresenta in me un valore, non la vedo in modo negativo, ciò che è precario prevede un possibile cambiamento ed allo stesso tempo una maggiore cura, mantenere un equilibrio precario è un lavoro costante che dimostra amore e dedizione. I  miei lavori sono spesso fragili e problematici nella conservazione ed in questo loro aspetto li amo moltissimo in quanto sono più aderenti alla vita reale, non si ergono come eterni o superiori ma sono nelle mani di chi deciderà di conservarli e di aiutarli a resistere al tempo. Tutto si può conservare se lo desideriamo davvero. Degrado e squallore sono confini mobili, si ridisegnano ogni giorno nel costume delle società vive; l'estetica invece non cambia. Erroneamente le persone tendono ad accomunare la parola estetica con la parola bellezza, non è corretto: l'estetica colpisce tutto a 360°, anche il brutto. E qualsiasi forma di estetica risponde a delle regole. Indagare i rapporti e le risultanze di queste regole spesso genera il processo da cui nascono i miei lavori.

BV Nei tuoi lavori è sempre evidente una riflessione profonda sul luogo in cui prendono forma, che spesso diventa anche il contesto in cui ti stabilisci per il periodo in cui dovrai portare a termine il progetto. Si può dire, usando una formula ormai abusata, che le tue opere sono frutto di una quasi totale coincidenza di arte e vita; o, in altre parole, che la tua ricerca approda sempre a operazioni site-specific. Ci sono però alcuni tuoi lavori che pur avendo queste caratteristiche, sono in qualche modo universali, e in alcune tue mostre fungono da anelli di congiunzione tra un luogo e un altro. Mi riferisco ad esempio agli ‘arazzi’ di Questione d'appartenenza esposti in Seconda chance al Museo Ettore Fico di Torino nel 2016, o al rimando al tema del gioco con le carte francesi in Informal Poker Room alla Biennale dell’Avana del 2015 e in Play Bucharest del 2010. Come descriveresti il fil rouge che attraversa i luoghi in cui sei stato, dalla periferia di Napoli a quella di Torino, da Istanbul a L’Avana, da Roma al Cairo?

ET Ogni nuovo lavoro porta in sé il processo di quello precedente, mi cambia in modo irrimediabile e mi rende diverso. La mia ricerca e la mia vita non possono essere separate perché sono vasi comunicanti, in cui i livelli si allineano magicamente: a volte la vita  privata mi ha portato in luoghi da cui sono nati progetti fondamentali, altre volte i progetti hanno portato la mia vita a cambiare. Tutti i miei lavori sono legati da un ragionamento comune che è simile ad un conteggio all'infinito o agli anni che passano, qualcosa che andrebbe letto nella sua complessità con i periodi migliori e quelli peggiori.

BV In più occasioni parli del "peso della storicizzazione", come di un processo volontario che - questo è un fatto - tende a spazzare via tutto ciò che resta ai margini. Eppure, come sempre nel gioco degli opposti, se non ci fosse storia non ci sarebbe contro storia, per usare un termine zeviano, così come se non ci fosse una distinzione almeno convenzionale tra micro e macro percepiremmo il mondo come qualcosa di informe e probabilmente sterile. Voglio dire che spesso sono proprio le frizioni, gli attriti tra le contraddizioni a stimolare le riflessioni più interessanti, a dar luogo alle sintesi (e sintesi tra qualità stridenti, in fondo, sono le fotografie su cui intervieni  a mano con l'acrilico), quando non è proprio l'esternazione della contraddizione in sé a farci guardare con più lucidità il tempo in cui viviamo...

ET La mia pratica con il bianco più che un processo pittorico è simile ad una pratica scultorea. Tento di estrarre dal materiale grezzo che è la società in cui vivo alcune forme, alcuni frammenti che diventano in questo modo centrali e digeribili, lontani dal luogo in cui li ho incontrati, quasi astratti e questo scarica la responsabilità della coesistenza. Gli opposti spesso vengono intesi come poli di pari forza che generano campi magnetici contrapposti, nel caso del centro e della periferia invece vi è un solo polo di forza che è la periferia mentre il centro è un polo attrattivo, quindi ciò che si genera è una guerra impari e predestinata. Il centro rimane il luogo della percezione mentre la marginalità il luogo della dispersione.

BV È possibile che Napoli ti interessi tanto perché qui è in atto un moto perpetuo di antistoricizzazione? Ti faccio un esempio. Non riesco a non guardare in un'unica ottica la massiccia presenza di degrado e abusivismo nel quartiere più antico, affascinante e ricco di fermento della città, e il fatto che i fondi stanziati dall'Unesco per il recupero del centro storico stiano andando perduti per la mancanza di pianificazione dei lavori. Tutto ciò, io credo, è allo stesso tempo una colpa enorme ma anche frutto dell'atavica e ineluttabile resistenza della città ad uniformarsi ai canoni scanditi dalla macrostoria del mondo occidentale…

ET Come sai amo Napoli più di ogni altra città. Dopo quasi vent'anni di studio le dinamiche che ne regolano il suo perenne bilico rimangono a me ignote, e forse è lì che risiede il mio amore.

Un po’ come le opere che faccio, Napoli è una città fragile e faticosa, che genera una potenza impensabile in grado di assorbire il male di un'intera nazione e convertirlo in un teatro del reale in cui l'esagerazione diventa macchietta e la condivisione rende sopportabile la vita in un luogo che da sempre deve collassare, sul baratro del fallimento, ma che non collassa mai e spesso salva altre e più deboli realtà.

BV Negli ultimi anni hai avviato un fitto dialogo con il filosofo Giuseppe D'Anna e con l'architetto Pablo Castro, che attraverso i loro strumenti e le loro prospettive ti danno modo di capire meglio non solo in quale direzione va il tuo lavoro dal punto di vista di una cultura più ampia e intrecciata, ma anche in che modo ti collochi rispetto a determinate strutture di pensiero. Molti artisti si documentano in maniera autonoma sui temi che più li interessano. Come funziona per te lo scambio nella maieutica del progetto?

ET Ormai da un po’ di anni mi sono reso conto che spesso non ho gli strumenti adatti per la narrazione che voglio intraprendere, per cui spesso mi faccio aiutare: Giuseppe D'Anna, Pablo Castro, Tommaso Pincio, Tommaso Rossato, Denis Isaia e molti altri sono figure per me fondamentali per tradurre ed arricchire i miei pensieri fornendomi una visione più lucida e dimensionando la mia ricerca all'interno di sistemi già studiati e conosciuti. Tutto questo mi dà molta gioia in quanto innesca una dinamica doppia, coinvolgendo loro nei miei progetti allargo il pensiero e lo rendo fruibile ad altri e nello stesso tempo lo strutturo in una forma in grado di sostenerlo.

BV I tuoi lavori dimostrano sempre una chiara visione del mondo e della storia che D'Anna ha giustamente interpretato attraverso la lente dei post-colonial studies e dei cultural studies. D'altra parte che l'arte sia politica è assodato. Come descriveresti il tuo ruolo di artista e la tua posizione intellettuale?

ET Ho avuto la fortuna di incontrare molti intellettuali davvero meravigliosi. Io sono un artigiano, in ultimo il mio lavoro è costruire qualcosa che sia in grado di staccarsi dal mio linguaggio e di rappresentare oltre che le mie le tensioni di altre persone. Le ricerche che affronto spesso sono enormi e le opere più riuscite invece spesso sono semplici. L'artista in fondo credo sia l'unico al mondo che deve inventarsi un modo per costruire l'opera che sta facendo ed anche un motivo per farla, ma in fondo rimane un artigiano.

BV Guardando al tuo lavoro dall'esterno, mi sembra che si inserisca in maniera piuttosto organica, seppure sempre con una sua precisa autonomia, in una serie di riflessioni non omogenee ma per lo più riconducibili a un'origine comune. Mi riferisco, per citare solo alcuni tra i tuoi contemporanei, a Raffaela Mariniello, con cui non a caso hai lavorato per "Capri B&B", e a Botto&Bruno; ma per certi versi anche a Cherubino Gambardella, che pur con interessi e moventi assai lontani dai tuoi approda a un'estetica paragonabile a quella dei tuoi fotomontaggi, ed è curiosamente speculare rispetto a te: architetto di professione, ma con una sensibilità artistica oltre che compositiva che ha portato una sua opera, Supernapoli, nella collezione del Madre, esposta fino a poco tempo fa di fronte alla tua The identity of concrete. Ripensando invece al tuo percorso e non necessariamente ai tuoi riferimenti in ambito artistico, a quale ricerca ti senti più affine?

ET Quando vedo delle opere di artisti o architetti che mi piacciono molto e mi convincono penso sempre che sia una meraviglia della natura. Pensare che in Messico un artista segua un ragionamento simile al mio, che a Tirana svolgano una ricerca adiacente o che 20 anni fa un sociologo ha detto cose che oggi mi sembrano nuovissime mi emoziona mi fa sentire parte di qualcosa di più grande ed inoltre ridimensiona il mio ego che in quanto artistico tende a sconfinare.

I miei riferimenti sono mobili, cambiano di ricerca in ricerca, vanno di pari passo con il lavoro, non ho punti saldi, forse ho degli amori che non voglio lasciare ma che non sono più utili per la mia crescita e che tengo come si conservano alcuni volumi in libreria.

BV Definisci l’architettura come “vocazione mancata” della tua vita, e questo aspetto si legge molto chiaramente nei tuoi progetti. Spesso reinterpreti configurazioni architettoniche e urbanistiche in chiave pittorica: penso alle tue Geografie economiche, a Caracas points of view, agli acquerelli di “Bubo” e alle fotografie di Studio sulle “Architetture Minime”. Il tuo impegno sociale con gli strumenti dell’arte passa anche attraverso una critica a modalità di costruire che sono specchio di dinamiche politiche ed economiche; si direbbe che ritieni l’architettura un canale privilegiato per una riflessione sulla realtà contemporanea. Cosa ti ha portato a convogliare la tua creatività nel mestiere di artista e non in quello di architetto? Negli ultimi mesi abbiamo molto parlato di “architetture minime”, volutamente effimere, in più o meno consapevole contrapposizione ad “architetture storicizzate”. Esiste per te una via di mezzo che, senza negare un peso della storia che è di fatto imprescindibile dalla nostra quotidianità né abolire ogni possibilità di slancio creativo e innovativo, sia in grado di inglobare anche le microstorie e le realtà di confine?

ET Come abitare il luogo in cui ci è dato vivere è un'esigenza primaria che attraversa le ere ed attraverso queste tracce si capisce molto della società. Utilizzare l'elemento strutturale anziché l'elemento umano è il mio modo per parlare di problemi privati rendendoli comuni e comunicativi.

La villetta a schiera è un esempio di ciò che potrebbe durare moltissimo ma che non so quanto conserveremo... non eccelle per meriti architettonici e spesso viene distrutta e variata in base a chi la vive senza troppi ripensamenti. È una forma abitativa che mi piace, strutturalmente resistente, non storicizzata e super dinamica. In qualche modo mi sembra l'elemento più caratterizzante della mia epoca, una sorta di finzione che unisce la vita campestre a quella cittadina, uno sviluppo orizzontale delle micro società che genera e che senza grosse pretese ci permette di vivere.