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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Anna D’Andrea in dialogo con Davide Boriani

In un’intervista di qualche anno fa, menzionavi “il rischio di diventare un trombone, se perdi la creatività per inseguire il successo”, tu come hai fatto a non scivolare nelle paludi della trombonitudine, a coltivare quell’autenticità allegra e scanzonata che contraddistingue gli spiriti liberi e che hai sfoggiato in occasione della presentazione del libro*?
Al momento considerando con imbarazzato scetticismo gli elogi esagerati che mi fai. In passato facendo e dicendo quello che mi sembrava giusto, senza chiedermi se piacesse o no a chi decreta il successo.
Inventare e realizzare qualcosa che ancora non esiste è l’obbiettivo e la soddisfazione massima per un artista. La creatività non è un dono del cielo ma il punto di arrivo di un processo di analisi, ipotesi e scelte che possiamo definire ricerca.
La ricerca è una scommessa che non garantisce il risultato delle opere; questa richiede in più una sintesi intuitiva, la cosiddetta “invenzione” che fa dell’opera compiuta qualcosa di più della somma delle parti che la compongono.
Ogni artista sceglie quanto impegno dedicare alla ricerca e quanto all’autopromozione. Con la ricerca ambisce ad agire - sia pure per minimi gradi - sul piano della storia dell’arte; con l’autopromozione cerca una verifica su quello della cronaca.
La frase che citi tra virgolette l’avevo scritta in una lettera ad un artista che ha copiato una mia opera. Si vantava di aver fatto più di ottanta mostre personali, io ne ho fatte tre.
 
L’incipit di Lucilla Meloni ti descrive “un artista del proprio tempo proiettato verso il futuro”, dunque un artista in un certo senso futurista?
Nei primi anni ’60 il mio parrucchiere dipingeva quadri informali. Era un artista del suo tempo, e lì gli bastava rimanere.
Invece le avanguardie del ‘900 - tra cui appunto i futuristi – progettavano il futuro, buttando via quello che era obsoleto e esaltando elementi esistenti nella realtà con cui farla evolvere.
Io ho cercato di far percepire il tempo nelle arti visive come variazione imprevedibile e irreversibile. Per questo non servivano le tecniche tradizionali, così ho sperimentato tecniche alternative che consentissero la programmazione del caso e l’interattività. Farlo negli anni ’60, con mezzi artigianali ma un po’ in anticipo sull’ arrivo del computer, implicava speranza nel futuro della tecnologia. Che infatti si è evoluta fino a modificare il modo di comunicare, di intendere e di vivere, bene o male, la realtà.
 
Proseguendo nell’eccellente lavoro di analisi sincronica e diacronica della tua poetica, che peraltro va a colmare macroscopiche lacune nella storiografia di quegli anni, mi chiedo se un simile processo di scavo stratigrafico nella propria vita e nel proprio lavoro, scombussoli, riordini o lasci tutto come prima?
Ho ritenuto necessario ricollocare nel giusto ordine cronologico dichiarazioni e opere che segnano il mio percorso personale all’interno di quello più generale dell’arte cinetica programmata.
Sulla quale è stata fatta, non sempre involontariamente, qualche confusione: omissioni calcolate, date falsificate, opportunistici cambi di fronte. Ho rivisto nel 2000 un artista che negli anni 60 si vestiva da cinese, ora esibiva foulard e cravatta con l’emblema del dollaro.
Non mi aspetto che questo libro scombussoli molte cose; sarà utile a qualche studente che farà la tesi sull’arte cinetica.
Alla fine degli Anni Cinquanta cinque ragazzi di vent’anni uniscono forze, cervelli e formule matematiche, per rimettere in moto teoria e prassi dell’arte nella sua fattuale concretezza fisica, giocando con la variabile T come tempo. Ci chiediamo ammirati quali fossero i vostri superpoteri?
Superpoteri? Semmai qualche residuo di acne giovanile, con l’immaginazione e il coraggio che tutti hanno a vent’anni. 
Erano tempi diversi: c’era la coesistenza pacifica e il miracolo economico; la situazione dell’arte era fluida, c’era attesa del nuovo e noi, anziché sentirci immersi in un eterno presente, potevamo tentare di collocarci come cerniera tra passato e futuro. Questo ci ha permesso di fare qualche analisi corretta, qualche giusta deduzione, qualche scelta coraggiosa e qualche anticipazione fortunata; e ci ha aperto un territorio poco esplorato e ricco di possibilità operative inedite. Perseguivamo i nostri obiettivi con determinazione, senza accorgerci - o senza preoccuparci - di quanto le nostre proposte potessero apparire provocatorie.
Negli Anni Sessanta molti artisti e poeti depongono l’aura, anche avvalendosi dei nuovi mezzi di riproducibilità tecnica, per darsi alla crapula, come Charles Baudelaire nel tardo Ottocento, oppure per svegliarsi presto al mattino, come Marcel Proust nel primo Novecento, a chi ti senti più vicino?
Vedo spesso l’alba perché sono ancora alzato; mangio troppo, non mi sono mai drogato ma fumo sessanta sigarette al giorno.
Nel 1951 frequentavo il liceo Parini, luogo allora incredibilmente tetro.
Così ogni tanto, invece che a scuola, andavo in giro a scoprire Milano.
Una mattina, pagando venti lire, andai a vedere il Cenacolo. Il “Codice da Vinci” non era stato ancora scritto, per cui passai due ore in perfetta solitudine davanti all’opera di Leonardo.
All’uscita avevo deciso di fare l’artista.
L’eliminazione dell’aura fu la conseguenza logica, direi naturale, del modo di comunicare e dei mezzi che avevamo scelto; e prima ancora, della nostra simpatia per il Dada.
La fuoriuscita da Azimut, ce ne vuoi parlare? Anche un episodio, qualcosa che ci aiuti a capire.
Lavorammo con Manzoni e Castellani sin dalla fondazione dell’Azimut. Manzoni aveva idee molto chiare sul sistema dell’arte, ed ebbe il merito di portare all’Azimut giovani artisti che negli anni successivi furono protagonisti di tendenze diverse.
Tendeva a porsi come caposcuola ma questo con noi non era possibile, perché avevamo linee di ricerca divergenti. A Manzoni interessava la figura dell’artista, a noi il lavoro di gruppo e il coinvolgimento percettivo del fruitore; lui inventava l’arte concettuale, noi l’arte interattiva.
L’epilogo fu piuttosto antipatico.
Il 16 gennaio 1960 alla galleria Pater ci fu la prima manifestazione del gruppo T con la presentazione del manifesto Miriorama 1.
Erano esposte quattro opere collettive, firmate gruppo T; tra queste il “Grande oggetto pneumatico, ambiente a volume variabile”: sei tubi di sette metri in polietilene trasparente che, gonfiati e sgonfiati alternativamente da due aspirapolvere, invadevano ogni volta in modo diverso lo spazio della galleria.
Miriorama fu un sasso buttato nello stagno: il pubblico fu coinvolto e incuriosito, la critica assente, entusiasti gli artisti d’avanguardia come Baj e Fontana. Manzoni e Castellani invece si dichiararono contrari, e questo allora ci sorprese.
Ma inopinatamente qualche mese dopo comparve su "Il Pensiero Nazionale" nella rubrica sull’arte curata da Antonio Caputo, un articolo non firmato che stroncava violentemente le mostre Miriorama, e ci accusava di aver copiato i palloncini di Piero Manzoni.
Ci indignammo perché era vero semmai il contrario! Manzoni espose i “Corpi d’aria” quattro mesi dopo nel maggio 1960.
Qualche tempo dopo sapemmo che l’articolo era stato scritto e inviato da Piero Manzoni, infuriato con noi perché avevamo fatto le mostre Miriorama alla Pater, e non all'Azimut.
Affrontammo Manzoni, contestandogli piuttosto rudemente la falsificazione dei fatti, e attribuendo malignamente la sua opera al fatto di non saper dipingere e di aver conosciuto Yves Klein.
Lui disse che eravamo “solo dei meccanici” e noi lo mandammo, letteralmente, a cagare. Ma non credo che questo abbia avuto qualche influsso sulla sua produzione successiva.
Solo una domanda per un testimone di un tempo di grandi pionieri e visionari, nel 1966 la Biennale di Venezia conferisce il premio internazionale per la pittura a Lucio Fontana, qual è il nesso tra pittura e Concetto spaziale?
Con la pittura sulla tela si rappresenta lo spazio. Con il taglio della tela Fontana indica e crea lo spazio concreto, che sta al di qua e al di là della tela.
 
Nessun nesso, neanche indiretto, con il tuo “rifiuto possibile” (1968) alla Biennale di Venezia del 1970?
Avevo sottoscritto il testo proposto da Mari perché ne condividevo il contenuto, poi mi resi conto che era una manovra per impedire la mia probabile candidatura come artista cinetico dopo Le Parc e Colombo alla prossima Biennale. Rifiutai comunque l’invito ad esporre come artista per coerenza con il testo che avevo sottoscritto.
Munari mi propose allora di curare, come designer, l’allestimento della grande mostra sperimentale nel Padiglione Italia con Livio Castiglioni. Questo mi permise di vivere dall’interno una Biennale, di progettare e realizzare una serie di nuovi ambienti interattivi, tra cui lo Spazio della stimolazione percettiva, la mia opera più complessa che mai avrei potuto realizzare con le mie risorse d’artista.
Quale incidenza hanno avuto gli “adepti ai lavori” (1973), come chiami il collezionismo privato milanese, nel secolo scorso ancora mecenatismo e oggi detto mercato, esente da vincoli di sudditanza al diktat di Palmiro Togliatti contro “scarabocchi, orrori e scemenze” (1948) della pittura non figurativa?
Gli “adepti ai lavori” fu una ricerca, richiesta e portata avanti dagli studenti del corso di Decorazione sul loro principale ambito di lavoro, il mercato d’arte di Milano, e coinvolse i diversi protagonisti del sistema dell’arte: artisti, galleristi, critici e collezionisti.
Tra l’altro evidenziò come nelle finalità del mercato il valore di scambio (il guadagno) prevalesse sul valore d’uso dell’opera d’arte (la ricerca della qualità estetica)
Un gallerista ad esempio si vantò di aver “licenziato un giovane che, per ragioni sue, aveva cambiato lo stile dei quadri che prima si vendevano bene”.
La mostra suscitò un dibattito acceso, oggi impensabile, e qualche disappunto. Il giovane gesuita responsabile della galleria San Fedele fu mandato a fare il missionario in Brasile. Il mio incarico per l’insegnamento di Decorazione a Brera non fu rinnovato, così tornai a insegnare nei corsi speciali.
Più complesso il discorso che è stato fatto sui rapporti tra arte e politica. cito qualche concetto, non certo inedito:
Il potere ha sempre condizionato le arti a fini di prestigio e propaganda, spesso con l’intelligenza sufficiente a non impedirne l’autonomia creativa.
Oggi possiamo ammirare l’alta qualità estetica delle opere di Bernini e di Borromini, senza per questo far nostre le idee della controriforma che celebravano.
Con l’avvento dei nuovi media, fotografia e cinema, la ricerca degli artisti si è fatta più introspettiva e specialistica, andando al di là del comune sentire e dover quindi essere spiegata al pubblico.
A volte, grandi fermenti sociali hanno reso possibile una temporanea condivisione di valori tra artisti e gruppi dominanti, accomunati nella tensione utopica verso un mondo nuovo (Es. Costruttivisti e Rivoluzione sovietica, Repubblica di Weimar e Bauhaus, e anche Futurismo, Razionalismo e Fascismo)
Ma presto o tardi, il confronto col potere diventa inevitabile: l’artista si trova a dover scegliere tra emarginazione e adeguamento.
Così Majakowskyij finisce suicida, e Marinetti presidente dell’Accademia d’Italia.
Il totalitarismo delle dittature del ‘900 ha negato la libera ricerca dell’arte limitandola a strumento di propaganda.
Con tutto il rispetto dovuto al Togliatti politico, la sua concezione della pittura, mediata dallo zdanovismo stalinista, fu strumentale e in ritardo sui tempi. Uno dei tanti errori della sinistra.
Negli anni ’60 l’istanza progressista latente nell’arte cinetica fu riconosciuta da alcuni critici di sinistra, ma ignorata dal mercato, assunto a veicolo dei valori della  società capitalista espressi dalla pop art.
Da allora la libertà di ricerca è stata finanziata prevalentemente dal mercato privato; il prezzo da pagare la sua riduzione a merce.
Dici che “vi sono casi per cui la soluzione migliore è il disprezzo” (2017) e siamo tutti pienamente d’accordo, un’affermazione generica, le camicette a colori vivaci delle vecchie signore o cosa?
Le camicette a colori vanno benissimo per le vecchie signore, quelle optical in bianco e nero poi erano più che dignitose.
L’impatto col mercato americano ha segnato la crisi della Nuova Tendenza e dei gruppi. Ciononostante il gruppo T, escluso con un inganno dalla mostra storica “Responsive eye”,  ha proseguito la sua ricerca con gli ambienti interattivi fino e oltre il 1968.
Quanto allo stato attuale dell’arte c’è chi motiva le ragioni di disprezzo: “Nel suo Attacco all’arte. La bellezza negata, ed. L’asino d’oro, Simona Maggiorelli vede l’arte contemporanea come un “imbroglio monumentale”, fondato sulla illusione che qualunque cosa possa essere arte (se lo decidiamo e gli creiamo una cornice), su una svalutazione della tecnica, sul pericoloso mito del legame malattia-creatività. Sostiene che l’arte, e in particolare la ricerca sulle immagini sembra sparire dai nostri orizzonti. L’arte contemporanea privilegia la ricerca dello choc spettacolare, celebra il vuoto anaffettivo, si mostra indifferente alle immagini, riduce la trasgressione delle avanguardie a manierismo (il primo che ha proposto un orinatoio a una mostra d’arte è un genio, il secondo un cretino), trasforma lo scandalo in merce ben quotata nei mercati controllati da tycoon miliardari”[Filippo La Porta, “Chi ha ucciso l'arte?” in Cogito ergo sum Fondazione Roberto Franceschi, aprile 2017 (www.fondfranceschi.it)].
Oggi il marketing chiede all’artista sempre più tempo per l’autopromozione. Artisti non più giovani si sottopongono a faticose performance pur di restare à la page. Io ho preferito puntare sui tempi lunghi della ricerca, è più divertente e meno faticoso. Per questo alla presentazione del libro ho centrato il mio intervento sulla pigrizia. E sulla superbia, ossia sul disprezzo per tutto quello che distoglie l’artista dalla ricerca, che è il suo diritto e dovere.
Una domanda stupida, se dovessi raccontare la tua arte moltiplicabile in trans/formazione a un bimbo?
Mi guarderei bene dal raccontarla; gli farei vedere un’opera cinetica che si trasforma. Ai bambini piace. In alternativa attirerei la sua attenzione sulle cose reali che cambiano: le nuvole in cielo, un geranio nel vaso, le facce delle persone.
Luglio 2018