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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

L’arte come un libro sulle storia della società italiana

Domenico Scudero

Ci sono luoghi speciali in ciascun ambito dei nostri interessi. Questi luoghi non sono soltanto esempi da ricordare per colmare un compendio di nozioni, ma sono spesso qualcosa di cui siamo testimoni e che sentiamo di voler condividere.  A volte partecipare ad un evento inaugurale di una grande rassegna ci riempie di forti sensazioni, più spesso ci sentiamo inutili, schiacciati dall’anonimato di una folla variopinta, eccentrica. Quando pensiamo alle istituzioni italiane, comunque, è sempre molto difficile sentirle come proprie, vicine. Visitiamo le nostre istituzioni, o vi partecipiamo in modo estemporaneo, sempre con la sensazione d’esercitare un diritto solo occasionale, d’essere sostanzialmente ostaggio di burocrati che riescono a distruggere anche la più fervida delle emozioni. Ed è anche per questo che chiunque abbia la voglia di capire cosa sia successo alla cultura artistica del nostro paese in questi ultimi cinquant’anni dovrebbe fermarsi almeno una volta a Reggio Emilia e visitare la collezione Maramotti. Il luogo è denso di memorie, non fosse altro per quella via Emilia nei pressi della quale sorge l’edificio che ospita la collezione, una strada che è già una sorta di monumento socio-politico della nostra storia.

La collezione Maramotti è in uno stabile di forte impianto razionalista, progettato alla fine degli anni Cinquanta dagli architetti Antonio PastoriniedEugenio Salvaran e successivamente ampliato ma sempre su posizioni formali di chiara matrice costruttivista. Quando le linee produttive della Max Mara vennero spostate in luoghi più ampi gli edifici della fabbrica vennero riconvertiti in spazi espositivi lasciando però intatta la natura della costruzione e le sue caratteristiche principali. Che sono quelle di rappresentare un luogo architettonico potentemente idealizzante, geometrico, luminoso, areato, accessibile. Gli spazi ricavati dalla ripulitura di tutti gli arredi e di tutti i manufatti non funzionali alla statica dell’edificio hanno creato un unico gigantesco ambiente perfettamente accogliente per le opere d’arte che vi sono esposte. Ed è qui, fra le luminosissime spaziature della fondazione, che possiamo comprendere con un semplice colpo d’occhio le tensioni e le identità che hanno trasformato la realtà culturale italiana negli anni del boom economico. Un allestimento d’archivio come oggi non lo si riesce a vedere altrove. Una lezione pratica che ritengo utile adesso ancora più di qualche anno fa per la linearità del suo compimento cronologico e compartimentale, lì dove oramai anche le sezioni più accreditate della grandi rassegne internazionali promuovono l’illusione della sperimentazione espositiva attraverso la messa in scena della fine della storia. Un atteggiamento che trova seguaci persino nelle nostre università dove alla storia si è sostituita una sorta di cronologia frammentaria di stampo accademico che è solamente il risultato di una errata interpretazione del mondo digitale. La storia, tuttavia, continua.

Entrare nel grande patio della fondazione è oltrepassare la soglia del tempo ed accedere in un libro aperto sul recente passato e puntato sul futuro. Un libro che attraversiamo senza inciampi, senza ostilità. Le opere immerse nelle chiare luci dell’edificio sembrano galleggiare, leggere e leggibili. Le dimensioni dei grandi lavori esposti sono perfettamente integrate nelle lunghe prospettive, nelle solide univocità delle pareti. Ed è qui che entriamo in contatto con quella storia che altri spazi espositivi non sono mai riusciti a farci comprendere. Un allestimento che ci permette di poter rivivere attraverso l’arte la recente storia del velocissimo arricchirsi di una società sino ad allora contadina e oppressa e il ripensamento di fine primo decennio duemila in forma di crisi solida, di identità mancata, di mancanza di scopo. La fondazione con le opere collezionate dal capostipite della famiglia, Achille Maramotti, e proseguita dai figli, ci racconta l’avventura di una nazione osservata dal crocevia del tessuto produttivo. Parla di questo la struttura architettonica, non sperimentale, non passatista, ma concretamente pratica, un occhio alla Casa del Fascio di Terragni, un sospiro all’irraggiungibile Frank Lloyd Wright e un pratico riferimento a Adalberto Libera e all’architettura di rappresentanza. L’edificio della Maramotti illuminato a giorno è il luogo in cui l’Italia ottimista del boom economico e sociale credeva nei valori dell’universale, dimentica delle tortuose ostentazioni linguistiche del Ventennio che ne avevano sedotto identità e obiettivi. C’era stata la ricostruzione, qui simboleggiata al meglio dai lavori ossessivi di Burri, la rimodulazione di una materia devastata e che prendeva forme inusitate, la nuova astrazione di Forma, e poi la confluenza internazionale con la Pop art. Era ciò che i nostri artisti stavano facendo, e qui alla Maramotti non c’è ombra di polemica internazionale; non si vuole rivendicare alcun primato, ma si assiste all’evidenza, quel “noi c’eravamo” che poi spesso si è rivelato contraddittorio, o quantomeno irrilevante in alcune storie dell’arte. Ma cosa si può discutere quando si parla di evidenze? La pop italiana, e il seguito minimalista concettuale sino al groviglio vincente e paradossalmente persecutorio dell’arte povera, dimostrano la Vitalità del negativo (Palazzo delle Esposizioni, Roma, 1970) che vuole essere il contraltare alla fuga poverista costruita da Szeemann in When Attitudes Become Form (Bern 1969) e che svestiva l’italianità dalla centralità della scena.

                                                                                                                                       

Gli eventi degli anni Settanta si offrono come cerniera, slancio postmodernista o anche chiusa di un nucleo forte di pensiero. Sono gli anni dell’esasperazione concettuale, ma anche il momento di maggior introspezione dell’arte nel corpo dell’artista e che ha per testimone d’eccezione Vito Acconci, personalità che indica anche un cambiamento di rotta nelle strategie di acquisizione per la collezione, un sostanziale cambiamento d’epoca. L’Italia ha raggiunto un suo benessere, inconcepibile solo pochi anni prima. La coscienza di nazione si è solidificata contro i tentativi destabilizzanti, l’eversione si è rivelata un boomerang rivolto contro gli stessi fautori e alla fine del decennio la cultura artistica scopre, con la Transavanguardia, di essere insieme centro e periferia dell’impero d’Occidente. Finisce la necessità di raffronto con il piccolo contesto nazionale. Una crescita inarrestabile sta portando la società italiana fra le prime potenze industriali del mondo: l’arte si diffonde e si apre nei primi afasici balbettii di trans culturalismo, che è già l’alba della globalizzazione.

Ed è qui che la collezione ci propone le mitiche presenze di Bickerton, Schnabel , Taaffe solo per citarne alcuni, e che producono la sensazione reale di trasformazione dell’opera, da artefatto a oggetto emblematico del contemporanea su cui si solidificano gli appetiti di un mercato simbolico, altamente speculativo. Siamo insomma al cospetto dell’apice sublimale del sistema dell’arte postmoderna, le sue ambiguità decostruttive, neo-simboliche, sono situate a ridosso dell’erompere di una consapevolezza installativa del tutto nuova, grazie ai nuovi media. Emerge l’immagine di un’Italia propositiva che si sente prigioniera di un proprio codice linguistico nazionale, da molti oramai vissuto come un dialetto segnico. Siamo in quel momento in cui il passaggio repentino da sistema nazionale a sistema internazionale diventa globalizzazione, nuovo melting-pot culturale. Dal decennio anni Novanta lo sguardo della fondazione non è locale, ma sovranazionale. Dall’idea cronologica e storicistica dei primordi si passa ad un’idea di multiculturalismo all’interno del quale il patrimonio dell’italianità è sostanzialmente quello del gusto e dello stile, inalterato nel tempo, che rimane da sfondo, non diventa mai sponsorizzazione di un proprio modello identitario. Proprio qui si salda il destino della fondazione Maramotti con uno dei più acuti esempi di indagine espositiva, quello della Serpentine Gallery di Londra, con la quale la fondazione conduce un percorso che culmina nel Premio Max Mara. E forse già qui non possiamo più parlare di destino nazionale ma di orizzonti comuni europei.