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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Sei sicuro di voler formattare: la critica (?)

Domenico Scudero

Ho avuto modo di rileggere e valutare con la dovuta attenzione il saggio pirotecnico di Simone Weil Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale (1955, Edition Gallimard, Paris; ed. it. 1983, Adelphi Edizioni, Milano). Il libro scritto dalla filosofa francese alla precoce età di venticinque anni alla fine degli anni Trenta e pubblicato postumo, si offre come paradigma per la riflessione sul concetto di libero pensiero nell’età moderna. Tralasciando la rapidità e la fulminea schiettezza di queste pagine che ancora a quasi un secolo di distanza parlano della condizione intelligibile della modernità con linguaggio deciso, sorge il dubbio che, nonostante tutto, il buio intellettivo degli anni fra le due guerre fosse probabilmente meno irriducibile di quanto stiamo vivendo oggi.

Il fatto è che la libertà di pensiero oggi è più difficile di quanto non possa apparire. Non mi si dica che questo sia il mondo adatto per Savonarola. Sono anni, decenni, che si respira un’aria di congiura contro tutto ciò che sia anche solo velatamente un germe di dubbio, di critica. Piuttosto bisogna chiedersi cosa potrebbe fare oggi un intellettuale. Si direbbe che potrebbe essere un apodittico, poiché di integrati, intellettualmente abili soprattutto a urlare ne abbiamo pieni i talk show e i gossip show.

Si diceva circa vent’anni fa che il web ci avrebbe salvati dalla schiavitù dei falsi maître à penser pennivendoli, che si sarebbero aperte nuove dimensioni dell’informazione. Tutto vero, purtroppo però ogni giorno che passa i costi di questa ipotetica libertà crescono e quando non lo fanno chiudono gli spazi in cui la libertà di pensiero può esistere. E ancora la stessa domanda. Di cosa dovrebbe vivere un intellettuale in questo Circo Barnum delle merci? Il barbone forse, il nuovo Socrate di certo non sarebbe ospite fisso televisivo. Non avrebbe il “diritto all’autista” che lo prelievi dalla sua poltrona Frau in pelle rossa riscaldata da una lampada Arco di Castiglioni con la sua brava piantana in splendido marmo di Carrara. Perché poi cosa significa intellettuale integrato? L’intellettuale è critico verso l’oggetto della sua indagine oppure non è un intellettuale. Diventa un politico, come avrebbe detto Benedetto Croce.

Esperienza vuole che la critica sia costruttiva nella sua mira complessiva, ma non per questo cieca ai voleri del plauso, altrimenti che razza di critica è?

La nostra società è improrogabilmente costretta a fare i conti con un controllo lapidario di ogni divergenza, pena la sua funzionalità, anche se poi di questa funzione non si capisce chi ne usufruisca. Non assentire supinamente, piuttosto che essere riconosciuta attività di libero arbitrio intellettuale, attitudine socratica, è oramai reato punibile con l’arresto. Quanta responsabilità abbiamo avuto in questo olocausto intellettuale?

La fine dell’intellettuale è parallela alla fioritura di un mesto intellettualismo di massa, fra blog e opinioni gossippate, nell’attesa che qualche luminare scriva un libro sui commenti. Perché proprio qui risiede il paradosso del contemporaneo. Siamo tutti nella periferia del senso perché non esiste più un centro, Derrida docet. Siamo in un mondo liquido, ma anche paradossalmente virtuale e il multitasking mal si addice con le attività cerebrali di un normodotato, ma va bene per un dopato di videogiochi. Liberi dal pensiero, i mesti benpensanti si chiedono dove risieda l’autorevolezza dell’intellettuale e se ci sia ancora, dimenticando il giacobinismo impositivo che ci costringe a subire l’arroganza ottusa del potere burocratico che gli stessi diritti non li concede al singolo cittadino. Uno Stato fornitore di servizi, adesso indivisibili, pacchetto all-inclusive, che ci fa apparire Kal Ludwig von Haller, l’ispiratore della controrivoluzione torinese e teorizzatore dello stato come dispensatore di servizi pubblici, come un pericoloso anarchico. Ma proprio qui volevamo arrivare. Il nostro mondo vuole imporre la pax del giudizio critico, critica delenda est si urla, la critica deve essere annullata, formattata. Lì dove c’è critica c’è intelletto, viceversa non c’è altro che pedissequo gioco mondano. Forse avrebbe più senso occuparsi della Sintomatologia traumatica nei trascorsi di transplant estetici di Belen Rodriguez e dedicarci un bel libro, visto che di costei bisogna a tutti i costi parlare, allora facciamolo.

Dov’è finito l’intellettuale militante? Anche Michael Walzer se lo chiedeva anni fa in un celebre libro che nella traduzione italiana ha segnato il cortocircuito fra saggistica liberista e monopolio editoriale. E forse bisognerebbe chiarire anche qui, cosa sia davvero successo. Walzer ne parla mestamente. La sua laconica risposta è che forse in tempi di guerra è giusto farla la guerra. E di contro si obietterà che cosa siano questi i nostri grigi tempi di guerra del terrore e teorizzare che la riduzione di spazio alla critica derivi esclusivamente dall’emergenza. L’ermergenza si combatte con l’autorevolezza, quella del potere e del sapere, tuttavia questa misura è unilaterale poiché l’autorità del potere si afferma con gli ordini del sistema, la legge e la ferma applicazione di questa, mentre l’autorità dell’intelletto si afferma solo con le idee e, se mi è consentito dirlo, esiste una disparità di forze in campo quando la critica vuole far valere le sue ragioni nell’ordine sociale.

Il web ha dimostrato che la preveggenze di Simone Weil sulla persecuzione degli intellettuali si è realizzata. Si è passati dal mondo delle teorie intellettuali al mondo delle opinioni, o peggio dei commenti, spesso scritti in codice cifrato d’una ignoranza talmente gradassa e violenta che chiunque abbia un minimo senso di sopravvivenza si auto esclude dall’intervento. Essere coinvolti in un rissa telematica è umiliante e privo di senso; per di più un antagonista nascosto e senza alcun titolo può vigliaccamente usare furbizie da bassa sopraffazione per prevaricare, offendere. Il vaniloquio espressivo con i susseguenti giudizi da bassa macelleria del linguaggio hanno lo stesso titolo e lo stesso peso culturale di un ragionevole passo fitto di cultura e sapere. Far valere le ragioni critiche che sono nel lavoro intellettuale, non è semplice. Chi conosce Boris Groys e l’esasperata elaborazione culturale di cui è capace di certo non può supinamente assentire al luogo comune di una critica priva di scopo e di modalità. In Europa la critica d’arte non è certo tradizionalmente un mero esercizio stilistico, e quando guarda al mondo ne conosce attentamente le aspettative.

Formattare la critica, ovvero renderla uno strumento di scambio commerciale e basta è l’azione sconsiderata di un certo tipo di visione reale, costruita da decenni di scavo e di superficialità. In realtà è vero come si dice da più parti che è sparito l’intellettuale tutto carta stampa e biblioteche ma lo stesso individuo oggi elabora continuamente codici semantici costruiti da più settori: il discorso intellettuale in altri termini è anche e soprattutto un percorso di critica, quanto più misurata, ma è anche e soprattutto transizione fra differenti media, attraversamento di varietà estetiche, nello sviluppo di un linguaggio che è anche un universo geroglifico. Segni, simboli, azioni, strumenti di connessione fra musica, arte, design, teatro, cinema, moda dove si snodano gli sviluppi più recenti, e si costruiscono nuove identità. La critica è metodo d’analisi, ingiustizia democratica, perché il livellamento non è nella ragione dell’arte, che è infatti modello concreto in quanto forma, materia, apparenza, contiguità col mondo, immanenza.

La proliferazione di stili e maniere, di modalità artistiche che vanno dalla più ferrea analisi alla più basilare affermazione esistenziale ci possono fare piuttosto parlare della difficoltà di organizzare questo territorio della contemporaneità in un organismo leggibile ai più. Qui interviene il lavoro della cura critica, di quella volontà di riunire all’interno di un marchingegno semantico una storia o una visione della realtà; in mancanza di codici fonetici adatti, la cura critica usa materie, postprodotti, costruisce moduli espressivi con materiali artistici. Proprio per questo si può senz’altro dire che la critica si esprime oggi con un linguaggio formato da opere, un allusivo scenario di stratificazioni logiche, o in altri termini, la critica se formattata come lingua intellettualmente saggia riemerge sotto le spoglie faraoniche del linguaggio geroglifico dei segni curatoriali.