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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Domenico Scudero

C’è una palese emorragia linguistica nel recente lavoro espressamente concepito da Ernesto Neto per la sede dell’Ambasciata Brasiliana a Roma. Un lavoro che viene definito dalla curatrice Emanuela Nobile Mino con termini pervasi da venature della recentissima storia dell’arte: installazione partecipativa, gioco relazionale dinamico. Certo, l’opera di Neto, “Olhando o céu” (guardando il cielo), è di stampo ipermoderno e d’altra parte l’artista stesso lo è ipermoderno. Già considerato fra i migliori cento protagonisti dell’arte contemporanea una ventina d’anni fa Ernesto Neto ha imposto nel tempo trascorso un suo percorso deciso, sicuro, colorato e sensista con un tratto dalla personalità assai decisa. Tuttavia la mostra presso la sede dell’ambasciata Brasiliana comunica anche alcune sensazioni sull’arte contemporanea che la curatrice Emanuela Nobile Mino non ha voluto rimarcare. Per carità non si tratta di un giudizio negativo su una qualsiasi congettura espressa dalla mostra né tantomeno una critica (che come sappiamo ha una estensione significativa di stampo negativo anche se il termine non dovrebbe esserlo apriori). Si tratta semmai di appurare come l’arte contemporanea in questa fase di transizione dall’epoca analogica ai tempi digitali fatichi non poco nel coesistere con la sua stessa storia.

In cosa consiste l’opera di Neto? L’artista ha occupato con un folto numero di sculture semovibili la sala Cortona di Palazzo Pamphili in Piazza Navona a Roma, per l’appunto sede dell’ambasciata Brasiliana. Lo spazio espositivo si raggiunge dopo aver attraversato una buona metà del primo piano del palazzo, un percorso che costringe lo spettatore ad “annusare” la ricchezza estrema della sede in questione e anche il potere manifesto di questa nazione che in pochi decenni è diventata una potenza economica e politica: Brasil! In ogni dove ritroviamo custodi in abito scuro, elegantemente fermi nell’imporre i limiti del percorso ma flessibili nell’atteggiamento, senza isterismi. Una volta entrati nella sala Cortona, cosiddetta per via del magnifico affresco dovuto a Pietro da Cortona sulla volta della grande sala del palazzo progettato dal Borromini, ritroviamo il lavoro di Neto. Ci troviamo nel cuore del palazzo che in Piazza Navona descrive la lunga prospettiva che va da Sant’Agnese sino all’ingresso di Palazzo Braschi. Siamo, come possiamo capire anche solo dai nomi e dai luoghi citati, al centro del centro del Barocco più eclatante e virtuoso. Il dipinto evoca lo sfondamento illusionista che successivamente diverrà la maniera del tardo barocco; cieli e nuvole, da cui il titolo del lavoro di Neto, si aprono come per magia e misteriosamente si richiudono. Tutto ciò si deve sostanzialmente anche alla normale postura del fruitore. Per evitare un torcicollo dopo una lunga ma tormentata occhiata al soffitto e alle sue meraviglie l’astante ritorna ad osservare luoghi più consoni alla portata del suo sguardo. Subentra proprio qui il lavoro di Neto: come ben sottolinea la curatrice, l’artista ha ideato una serie di oggetti scultorei, semovibili su cui il visitatore può comodamente sdraiarsi e osservare in pieno relax le meraviglie pittoriche della sala Cortona. Che poi queste sculture siano anche oggetti che audacemente possono essere assimilati ad una storia del design o nel dettaglio ad Alvaar Alto, Jarno Saarinen, Charles  e Ray Eames, questo è altra cosa. Citazioni, rivisitazioni, attraversamenti, sono prassi che nell’epoca immateriale tutti siamo portati a compiere, con un solo click o con un tocco sullo schermo. Ma qui è diverso. Perché per quanto l’opera possa essere iperintelligente, o per quanto possa raccontare di un modo nuovo di esercitare potere e cultura, resta legata al fatto che è un organismo creato per servire un’altra opera, e questo a mio avviso è anche il segno di una irrevocabile inadeguatezza mentale del contemporaneo nei confronti del moderno, del medioevale e dell’archeologico. L’artista contemporaneo nel passaggio di un’epoca che riserva ogni giorno le peggiori notizie sul fronte della sopravvivenza intellettiva dell’arte ha deciso di gettare la spugna. Guarda quel tempo che fu e che vide l’artista grande fra i grandi, e opera oggi per rimanere agganciato al potere. Ma ci sono due ulteriori contraddizioni: l’artista in quegli anni di vacche grasse non era esattamente un principe ma sostanzialmente un esecutore; l’azione dell’artista di oggi è inesorabilmente relegata al superfluo inarchiviabile, all’accessorio. Non c’è tempo oggi che permetta l’opera, siamo inessenziali, inesprimibili, ineluttabilmente accessori.