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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Intorno alla mostra All the World’s Futures alla Biennale di Venezia del 2015

Patrizia Mania

Può una mostra d'arte configurarsi come il luogo della ricomposizione ideale dei conflitti sociali, ideologici, politici, militari, economici, religiosi, epistemici di genere, che hanno segnato la nostra storia recente e che testimoniano il nostro presente? Si tratta evidentemente di un'aspirazione utopica, si può tuttavia pretendere che di tutto questo si prenda atto, che si risponda all'assedio del vuoto, alla vertigine del troppo, tracciando attraverso gli artisti e le loro opere delle traiettorie lungo le quali attraversare la realtà e tentare di proiettarsi in possibili mondi futuri. Proprio sul solco dell’enunciato “All the World’s Futures” Okwui Enwezor, il curatore della 56a edizione della Biennale di Venezia conduce lo spettatore in un contesto saturo di immagini e di proposte artistiche nel quale convivono voci plurali a delineare la poliforme condizione del presente. Di questo variegato panorama, Enwezor non ha privilegiato la rarità o l'ermetismo, quanto piuttosto, citando il Benjamin dell'"Angelus Novus" la “tempesta che chiamiamo progresso”. La metafora benjaminiana dell'angelo di Klee è la spina dorsale del progetto di Enwezor che vi fa di continuo riferimento. Perno concettuale dell'intera mostra, accompagna come un basso continuo le molteplici rotte tracciate. Scrive Enwezor: “Presi tra i fuochi di una battaglia micidiale, fra rovina e disperazione, fra indeterminatezza e determinazione, non pare irragionevole affermare la necessità di rivalutare la riflessione dell’arte sulle aporie della percezione”(1). Osservando il momento storico attuale, il suo disordine, la sua inquietudine, i suoi conflitti inaspettati e irrisolti, Enwezor si chiede se non sia a partire da questa constatazione che si possa costruire un percorso nell’arte contemporanea che consideri le rovine del passato, “il cumulo di macerie” di cui parlava Benjamin, perché ci si possa librare “irresistibilmente nel futuro”. E' l'ipotesi dalla quale dichiara di essersi mosso: la consapevolezza del passato nella condizione tumultuosa del presente.

Dislocata tra i Giardini e l'Arsenale la mostra appare assecondare traiettorie plurime il cui baricentro è nella volontà di esplorare e prendere atto dello "stato delle cose". Lontano dalla leggiadra eleganza enciclopedica della passata biennale, questa edizione non diniega di intercettare lungo il suo cammino aporie e incongruenze, forte dell'imprescindibilità che si trascina dentro del suo essere esperienza del mondo. Non a caso, il saggio di Enwezor pubblicato in catalogo si intitola proprio “Lo stato delle cose”, a sottolineare la necessità del punto di vista della constatazione, della presa d'atto. E se, osserva Enwezor, gli artisti possono o meno optare per l'impegno e in ogni caso la loro scelta dovrà ritenersi legittima; non altrettanto può pensarsi per chi progetta una mostra. “Una mostra – scrive nel saggio introduttivo – è qualcosa che accade nel mondo e ne porta con sé rumore, inquinamento, polvere e decadenza”(2). Farsi dunque carico delle incongruenze, dei contrasti, dei conflitti, delle sperequazioni, delle discriminazioni nel tessere i fili di una mostra che anela nel suo insieme a testimoniare della realtà presente attraverso l'arte. Questo l'intento. Una mostra engagée la si sarebbe chiamata un tempo e in questo risiede, forse, la sua inattualità. Se inattuale è prendere una posizione e osare sfidare i luoghi comuni dell'assuefazione all'impotenza della critica, allora certamente l'attributo le è confacente. Da questo punto di vista risulta altresì irrinunciabile misurarsi con un'altra sua stella polare, la dimensione politica, nel senso più nobile del prendere parte e assumersi responsabilità. E, benché questa prerogativa, secondo Enwezor, si debba riscontrare in particolare in chi progetta una mostra, per quanto riguarda gli artisti, il suo interesse dichiarato è stato simmetricamente quello " di chiamare a raccolta le forze immaginative e critiche di artisti e pensatori per riflettere sull'attuale stato delle cose" (3).

"Stato delle cose" che può richiamare alla memoria anche il film dall'omonimo titolo girato nel 1982 da Wim Wenders. Una riflessione sul cinema, quest'ultima, con la quale si scorge una via di plausibile accostamento nel fatto di aver tentato, anche Enwezor al pari di Wenders, di sviluppare un pensiero intorno all'arte e più specificamente alla mostra d’arte. Non è l'unica possibile affinità: alla maniera del cinema e dei tempi di un film anche Enwezor articola la sua presentazione in tre tempi. Il primo tempo, ci parla appunto delle "rovine", "una distesa di rovine che si dilata lungo tutto l'orizzonte" scrive Enwezor. Ma è nel secondo tempo, sotto il motto "La modernità ed i suoi scontenti" che dichiara che "l'esposizione si inserisce nel rumoroso, polveroso flemmatico oggi in cui ci troviamo provenendo da un passato storico che si proietta nel presente storico" (4) dando così inizio al terzo tempo che nomina "L'angelo vendicatore", immaginando, con a mente sempre l'angelo di Klee di cui parla Benjamin, "la figura del dipinto di Klee come quella di un angelo vendicatore arrivato a giudicare quanto le opere d'arte e, analogamente, lo spazio espositivo siano significativi" (5). Come a contemplare la tesi di dover essere a giusto titolo sottoposto a critiche e giudizi. Infine, a chiusura del catalogo stende un epilogo dove ricostruendo i tumultuosi dibattiti sulla recente strage di Charlie Hebdo interroga iconoclastie, iconofobie e iconofilie non sottraendosi alla responsabilità del chiamarle in causa, ma al contrario investendo l'arte e soprattutto "una" mostra dell'impellente necessità di accertare e farsi portavoce dello "stato delle cose". Progetto ambizioso, dunque questo di “All the World’s Futures", lontano dalla vertigine dell'immenso di recente memoria e soprattutto insidiato dalle complesse e idiosincratiche fragilità della realtà, eppure certamente coraggioso, senza velature di convenienza.

Ma proviamo rapidamente ad attraversare la mostra, soffermandoci sull'esemplarità di alcune opere, per tentare di verificarne nel costrutto gli assunti. Una prima impressione che si ricava da uno sguardo d'insieme è l'assenza di concessioni a facili ammiccamenti di superficie.  Fin dal primo impatto i lavori ci impongono un impegno di comprensione, come avviene all’ingresso del padiglione centrale ai Giardini dove, mantenendoci nella metafora, a introdurci dentro il recinto delle "macerie" del presente è il corteo di bandiere nere di Oscar Murillo Signaling devices in now Bastard Territory (2015) che qualche critica hanno sollevato, non da ultimo per il loro assetto funereo e che non escludono evidentemente un pensiero sulla celebrazione a lutto del presente. Le bandiere nere sembrerebbero altresì dissimulare con un effetto détournant la cortina ufficiale della scenografia solitamente prescelta nelle foto cerimoniali dei grandi consessi del potere politico internazionale. Guardare al presente e al passato non senza attrezzarsi della consapevolezza di quel che accade nel mondo, ne sembrerebbe il monito. Sulla scorta di un'articolata immersione nella realtà la "messa a nudo" della spettacolarità del potere è l'incipit per accedere ad una consapevolezza fallace se non la si sedimenta nella consapevole ricostruzione della memoria, altro congiunto asso portante dell'intero progetto. La grande sala e gli annessi spazi limitrofi dedicati a Fabio Mauri, con il suo Muro occidentale o del pianto del 1993 e la Macchina per fissare acquerelli del 2007, non rappresentano solo un omaggio ad un grande artista italiano, tra i primi a dirsi convinto dell'ineludibilità dell'attraversamento della storia politica del recente passato per compiere in essa un percorso critico-artistico, ma dichiarano anche il modo narrativo prescelto nel percorso espositivo. La convinzione che ha spinto Enwezor a pensare ancora oggi possibile e praticabile la strada di un interloquire politico in cospetto della realtà si fa dunque immediatamente opera. E se questo ne è stato il presupposto critico è la mostra a verificarne la validità per il tramite propriamente delle opere scelte di artisti del recente passato e artisti del nostro presente. Artisti, ma non solo artisti, anche filosofi, tra tutti, Karl Marx il cui Das Kapital nei tre tomi (1867, 1885, 1894) è riportato in catalogo nell'elenco delle opere in mostra. No, non si tratta di un errore, Das Kapital c'è veramente, più flagrante che mai, in declamazioni performative di lettura e di riflessione che si svolgono nella grande arena rossa del Padiglione centrale. Per Enwezor si tratta di una riflessione ancora attuale che lo porta a citare nel suo testo un brano precedente alla stesura stessa del Capitale in cui Marx scrive:"Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: 'la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa'"(6). Potremmo ulteriormente integrare con più e più volte, trasmigrandosi alternativamente nell'una o nell'altra, di volta in volta in tragedia o in farsa, in considerazione del moltiplicarsi degli stessi fatti e degli stessi personaggi che rendono il nostro presente una sorta di perenne remake e che qui si configurano come il sestante di una mostra che, spaziando a diverse latitudini, ricompone in ordine sparso la reiterata dialettica in essere.

Dai monumenti reificati della memoria dialettica ai monumenti effimeri delle "macerie", degli scarti residuali del consumo di scrittura e di imballaggi, di tutto ciò che invade al tempo stesso contenendo il nostro mondo. Nella sua significativa installazione Roof Off (2015), Thomas Hirschhorn combina materiali diversi, come carta e nastri adesivi in un groviglio di materiale che sembrerebbe registrare gli scarti dell'involucro e della documentazione. Materiali di delimitazione, di confezionamento e di conservazione, avulsi da una qualsivoglia funzione, a suggerire l'uscita dal contenimento o anche, forse più pertinentemente nella scelta di Enwezor "le macerie" e il disordine consumistico e residuale dell'oggi. Su un altro piano, il reimpiego dei materiali convertiti ad un nuovo uso ha consentito a Ibrahim Mahama di rivestire di una nuova pelle le pareti esterne delle Corderie con metri e metri di sacchi di iuta gli uni agli altri cuciti e assemblati insieme a targhe di metallo e spaghi a ipotizzare un possibile loro riuso architettonico. Out of Bounds (2014-15), letteralmente "fuori dai confini" ne è il titolo.

La materia disfunzionale, insieme all'oggetto disfunzionale estorto alla sua mansione -la "distesa di rovine che si dilata lungo tutto l'orizzonte"- , sono anche al centro delle complesse installazioni scultoree di Terry Adkins, artista scomparso di recente, che ha dedicato gran parte delle sue ricerche alla possibilità della narrazione storica. Adkins, qui appunto è presente con numerosi lavori che declinano alcuni oggetti in una dimensione di scarto rispetto all'uso ordinario e ne evocano potenzialità inesplorate come accade in Muffled Drums del 2003 dove l'artista sembrerebbe davvero aver soddisfatto uno dei suoi obiettivi dichiarati; rendere impalpabile la scultura al pari della musica e viceversa scultorea la musica. Oggetti meccanici resi inerti, distolti e atrofizzati nella fusione e liquefazione della combustione sono invece le Latent Combustions #1-5 (2015) di Monica Bonvicini dove aggrovigliamenti di motoseghe e catene attraversano lo spazio come crisalidi minacciose. All'ingombro materico di questi lavori si affiancano altre diversificate modalità che mantengono vivo il senso poetico del racconto e dell'invettiva capace ancora di incantarci, com'è nella video-installazione di Wangeshi Mutu The End of carrying All (2015). Di un piano diversamente flesso verso l'alienazione contemporanea testimoniano le pitture del compianto Tetsuya Ishida con la sua umanità dalle proporzioni stranianti soggiogata dalle griglie organizzative e funzionali che la regolano e la frantumano. Virando verso la complessità dei sistemi di autorappresentazione del potere non potevano mancare le simulazioni delle sue scenografie istituzionali e dei suoi apparati di Marcel Broodthaers, qui riproposto con il Jardin d'hiver del 1974. Su un impianto di condivisione segnatamente politico appare in simil contesto particolarmente efficace la presenza di Adrian Piper con la sua serie degli Everything #....(2003-2013) e con The Probable Trust Registry: The Rules of the Game # 1-3 (2013).

Documentare, monitorare, indicizzare statistiche, o anche semplicemente registrare: questa certamente una delle peculiarità del nostro tempo, dove però spesso le nostre protesi mnemoniche immateriali sfuggono nell'immensa vertigine dell'eccesso alla finalità stessa del ricordare. L'ossessiva ricerca della registrazione del sé o dell'istante trova una magistrale conformazione in un mosaico costituito da 9216 pannelli in LCD sospesi in alto, quasi soffitto o tappeto volante nel The Portrait of Sakip Sabanci (2014) di Kutluġ Ataman. E le idiosincrasie dell'oggi in bilico tra micidiali violenze e ricerca della bellezza irrompono in una configurazione densa di potenziale poetico nell'installazione Nympheas (2015) di Adel Abdessemed fatta di una distesa di cespugli di spade conficcate al centro che letteralmente "sbocciano" dal pavimento, così tradendo la loro vocazione d'uso in un impiego virato alla resa paesistica. E del controvertibile significato ci parla anche in una direzione differente ma altrettanto eloquente Maja Bajevic, un'artista da sempre interessata a far affiorare nei suoi lavori i conflitti e le controversie del comportamento umano, in particolare quelli che riguardano la sfera del potere. In The Unbelievable Lightness of Being (2015) contrappone, attraverso arazzi e ricami che disegnano i grafici di andamenti legati alla finanza, la memoria collettiva del fare artigianale all'amnesia collettiva del surplus di dati economici, alle tabelle diktat del potere mondiale. Esemplarità differenti che descrivono la parabola dell'angelo di Klee nella lettura di Benjamin, restituendoci con salda impronta etico-critica un plausibile "stato delle cose", a partire dal quale si possono intravedere tutti, o quasi tutti, i futuri mondi possibili.

1) Okwui Enwezor, “Lo stato delle cose”, in, All the World’s Futures, catalogo della 56° Biennale di Venezia, Marsilio editore, 2015, pag.17

2) Ibidem, pag.18

3) Ibidem, pag.18

4) Ibidem, pag.19

5) Ibidem, pag.20

6) Karl Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, [1852], Roma, Editori Riuniti, 2006.