www.unclosed.eu

arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Appunti dalla visita alla retrospettiva al MADRE-Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina, Napoli.

Teresa Lucia Cicciarella

“A Sturtevant show is always an event that renegotiates the question of representation and sets it in motion”, sottolineava Stéphanie Moisdon, critica francese, in un articolo pubblicato su “Parkett” nel marzo 2011 (1), anno che avrebbe segnato per Sturtevant (nata Elaine Frances Horan a Lakewood, USA, nel 1924) l’attribuzione del Leone d’Oro alla Carriera alla 54 Biennale di Venezia, diretta da Bice Curiger. Nella motivazione del premio, si sarebbero riconosciuti a Sturtevant e all’austriaco Franz West, altro artista insignito del massimo riconoscimento veneziano, "l'unicità e la particolare attualità del loro contributo all'arte contemporanea” e, ancora, l’aver “sviluppato un'opera ricca e piena di forza, che invita a vedere la produzione artistica in connessione ad altri ambiti intellettuali".

A quattro anni dal premio e ad uno dalla scomparsa dell’artista americana (avvenuta a Parigi, sua città d’elezione, nel maggio 2014) è oggi possibile, a Napoli, verificare con l’occhio e la mente la validità dell’osservazione di Moisdon notando, attraverso le sale dell’esposizione “Sturtevant Sturtevant”, a sua cura presso il MADRE, come la pioniera dell’arte della ripetizione e della differenza abbia, nel corso di quasi un cinquantennio, sollecitato e discusso in più modi la figura dell’autore e lo statuto dell’opera d’arte stessa, lasciando tacere personalismo e identità e ascoltando, semmai, le istanze del multiforme tempo presente.

La mostra, inaugurata il 1° maggio e aperta fino al 21 settembre prossimo, si offre a breve distanza temporale dalla grande retrospettiva “Sturtevant: Double Trouble”(2) organizzata dal MoMA di New York e curata da Peter Eeley, grandiosa per densità di percorso e apparato critico.

Con la direzione di Andrea Viliani e l’attività di ricerca condotta dall’intero staff a partire dal 2013, il MADRE –che nel mese di giugno ha compiuto dieci anni d’attività– può, a buon diritto, annoverarsi tra i migliori musei d’Italia per qualità e densità del programma espositivo rivolto al contemporaneo.

Per affermare ciò, ancor prima di visitare la retrospettiva –la prima dedicata a Sturtevant da un’istituzione pubblica italiana – basti pensare all’impegno profuso intorno alla costituzione e all’ampliamento della collezione permanente del museo, tanto nelle acquisizioni, nei comodati, quanto nei lavori specificamente commissionati: a fine maggio è stata presentata Per_formare una collezione#4, tappa conclusiva (quantomeno, provvisoriamente) del progetto triennale dedicato a un patrimonio museale in divenire e in più modi aperto all’interazione con il pubblico destinatario.

Si pensi, ancora, alle ampie e puntuali retrospettive dedicate negli scorsi anni a Vettor Pisani (“Eroica/Antieroica”, a cura di Andrea Viliani e Eugenio Viola, 2013-2014) e Thomas Bayrle (“Tutto in Uno”, a cura di Andrea Viliani e Devrim Bayar, 2013) o all’attuale promozione di progetti quali Come un gioco da bambini (2014-2015), policromo e gioioso lavoro in situ realizzato da Daniel Buren.

Sotto un soffitto al neon, di un biancore accecante e astraente, Buren ha creato un compatto parco giochi per adulti e piccini, uno spazio saturo di macro-strutture (3) che –succedendo a un intervento al Musée d’Art Moderne et Contemporain di Strasburgo e inaugurando una collaborazione con il museo napoletano che si svilupperà per tutto il 2015, in diversi appuntamenti –nella sala al piano terra del MADRE, quella significativamente designata come Re_PUBBLICA, si pone come trait d’union tra la città e il museo, tra i vicoli del quartiere San Lorenzo e le sale espositive. L’opera funge, infine, da specchio per un sistema di relazioni tra l’istituzione e il suo pubblico (o meglio, come l’opera e il museo lasciano percepire, la sua comunità) configurando uno spazio che vuol essere accogliente e –perché no– ludico.

Il lavoro di Buren, inaugurato il 25 aprile, rimarrà godibile e percorribile fino al 31 agosto 2015.

Davanti ad esso si proietta, in costante moto circolare, il video di Sturtevant Dillinger Running Series (2000), preannunciando la mostra che si sviluppa nelle sale del terzo piano.

Il movimento a scatto (interrotto com’è, volutamente, dalla discontinuità delle pareti su cui il video è proiettato) e la ripetitività della serie fotografica, montata in loop con chiaro rimando agli studi sulla cinetica umana e animale di Eadweard Muybridge, la riconoscibilità del soggetto –Sturtevant, appunto, abbigliata come un John Dillinger “imitato” da Joseph Beuys in un’estemporanea azione del 1974 (Aktion Dillinger, Chicago )– e la traccia audio techno associata al video evidenziano immediatamente due dei punti chiave dell’intero percorso di Sturtevant.

Primo, lo slittamento che sostituisce l’artista a Beuys, nel momento stesso in cui ne assume pose, movimenti e abiti; secondo, quel razzle-dazzle (4), tranello e sovrapposizione di stimoli –in questo caso visivi e acustici– che distrae, come l’espressione idiomatica anglofona suggerisce, dal nocciolo centrale della questione. Nocciolo che pone lei, Sturtevant, nei panni altrui, come fine precorritrice dell’appropriazionismo affermatosi intorno agli anni Ottanta, in ambito postmoderno.

Tendenza, questa, dalla quale tuttavia l’artista può ben distinguersi: la sua opera non nasce come “omaggio” al lavoro di altri, né come attraversamento o dislocamento dei segni estetico-formali appartenenti a quello. Nasce piuttosto come rinuncia al momento della ‘rappresentazione’ a favore di un’indagine analitica sui meccanismi intorno alla percezione e alla circolazione dell’opera d’arte; come ripetizione di forme già accettate come ‘oggetto estetico’ e dall’osservazione di quelle in un nuovo, differente, contesto espositivo.

Il percorso dell’artista si è sviluppato sin dalla metà degli anni Sessanta, denotato dalla rinuncia al nome proprio in favore del solo cognome acquisito dal primo marito.

Un cognome che è sigla e suono forte, “a strong name”–ricorderà l’artista in un’intervista del 2007 rilasciata agli amici Bruce Hainley e Michael Lobel per gli Archives of American Art- a rimarcare una scelta che è stata sì simbolica ma in alcun modo dettata dalla volontà di mascherare l’identità di genere. Piuttosto, suggeriva l’artista, la sigla “Sturtevant” avrebbe distanziato e sintetizzato il riferimento all’autrice, non rimandando a un nome proprio e dunque a un’identità “visualizzabile”.

E in fondo, non richiamando neppure un’identità singola, come sembrava già suggerire John Canaday, autorevole critico del “New York Times” recensendone la prima mostra, un’insolita e rivoluzionaria personale alla Bianchini Gallery di New York (1965), a proposito della quale sentenziò: “[Sturtevant] potrebbe essere la prima artista nella storia ad aver tenuto una personale che include chiunque tranne sé stessa”(5).

In effetti, chi oggi visita la rassegna napoletana può fermarsi a constatare, con un certo divertimento, come paia di addentrarsi in una grande mostra dedicata a figure e movimenti centrali nella storia dell’arte del Novecento: dal Marcel Duchamp che tanto influenzò la giovane artista, con un percorso intellettuale segnato da ‘trappole’, paradossi, deviazioni, ai protagonisti della Pop Art, da Joseph Beuys (che ci ‘guarda’ attraverso una riproposizione, impersonata da Sturtevant, de La Rivoluzione siamo noi, immagine facente realmente parte della collezione del MADRE) a Robert Gober e Paul McCarthy. Figure eterogenee ma accomunate da un largo riconoscimento da parte di critica e pubblico (e dunque da una conseguente riconoscibilità formale).

E proprio in questa cornice si rimette in moto quel dispositivo di spiazzamento, diversione e approfondimento voluto da Sturtevant nel momento in cui, ancor prima del compimento delle riflessioni di Gilles Deleuze e Michel Foucault (6), aveva incentrato il suo operare sulle possibilità della ripetizione e sulla messa in discussione della figura dell’autore “unico” e delle nozioni legate ad esso.

Punto di partenza erano state, per lei, una formazione filosofica e l’attenzione rivolta al linguaggio dell’Espressionismo Astratto e poi della Pop Art, riferito a una “superficie” dell’opera che, come l’artista sottolineerà più volte, l’ha spinta a interrogarsi sulle “under-structures” e sui valori sottesi a quella.

Molti gli episodi noti legati ai suoi esordi: tra tutti, si vuol ricordare quello che, per l’installazione 7th Avenue Garment Rack with Warhol Flowers (presentata ancora nel ’65 alla Bianchini Gallery) aveva portato Sturtevant a riprodurre ed esporre un’enorme quantità di stampe della serie Flowers di Andy Warhol, presentata appena poche settimane prima (dicembre 1964) da Leo Castelli. 

La serie era stata rifatta utilizzando le matrici serigrafiche originali, prestatele dallo stesso autore: l’azione, spiazzante, rimane tra le più celebri dell’arte americana degli anni Sessanta e la formula “I don’t know. Ask Elaine” che si dice sia stata pronunciata da Warhol a chi chiedeva notizie riguardo il proprio modo di lavorare, testimonia della voluta nonchalance con cui la vicenda era stata accolta.

La mostra napoletana comprende un gran numero di opere riferite a tale periodo dell’opera di Sturtevant, antecedente una decennale pausa che –dal 1974 al 1985 circa, in conseguenza di una lunga serie di fraintendimenti da parte della critica e insuccessi di pubblico– avrebbe duchampianamente estraniato l’artista dalla scena pubblica, in attesa che venisse colmato il gap tra le proposte avanzate e l’accoglienza delle stesse.

Nella sala centrale del terzo piano, ad esempio, è installata una cospicua serie di lavori che prendono il linguaggio Pop e lo percorrono passo per passo, fino ad approdare, in un piccolo ambiente che gioca con l’illuminazione e le pareti scure, alla fantasmatica apparizione di una Warhol Black Marilyn (2004) in realtà mai realizzata da Warhol stesso e accostata a una Fresh Widow (1992) post-Duchamp. Alle pareti del vano principale, sono affiancate diverse riproposizioni del linguaggio –sviluppato in encausto e collage– delle Flags e dei Numbers di Jasper Johns; al centro, disposti su una bassa piattaforma, diversi oggetti appartenenti in origine a quel “The Store of Claes Oldenburg” che, nel 1967, aveva provocato diverse polemiche e, persino, alla vigilia dell’inaugurazione dello spazio, un’aggressione fisica a Sturtevant da parte di un gruppo di studenti. Qui ritroviamo, fissate nell’artificialità della materia, le forme di un hamburger, una fetta di torta, un panetto di burro: solo alcuni tra i “prodotti” facenti parte del “negozio” siglato by Claes Oldenburg originariamente allestito a New York nel 1961, a pochi isolati di distanza da quello che sarà rifatto da Sturtevant.

Parallelamente alle ripetizioni di opere di contemporanei, al MADRE troviamo un gran numero –quasi la totalità, in effetti– dei video realizzati da Sturtevant negli ultimi quindici anni.

La ricognizione tuttavia parte dai primi esperimenti: Duchamp Nu descendant un escalier (1968: film in 16 mm trasferito su video) che riproduce, alla lettera e col corpo dell’artista, il movimento cristallizzato nella tela di Duchamp (1912); Beuys Various Actions (1971: film in 16 mm trasferito su video) nel quale l’artista, abbigliata come il collega europeo, ne mima alcuni movimenti e la manipolazione del grasso, organico generatore d’energia.

Di seguito, si incontra la proiezione suddivisa in sette schermi paralleli di The Dark Threat of Absence Fragmented and Sliced (2003), nel quale l’originaria analisi strutturale del paradossale video Painter (1995) di Paul McCarthy (nel quale l’artista appare “nei panni” di Willem de Kooning) diviene spunto per una miscellanea nonsense di immagini, di scoperto e ironico rimando erotico o di banale riferimento a episodi diffusi dai canali televisivi.

Ancora, si incrociano in mostra gli effetti da video musicale di Stupidity, breve lavoro del 2013 (1’57’’, trasmesso in loop) che anima argute dichiarazioni dell’artista intorno all’intelligenza e al suo (ipotetico) contrario. Il video è diffuso da un piccolo schermo montato al centro di una parete di forte impatto, completamente tappezzata com’è dal wallpaper Kill (2003: ristampa 2013) realizzato da Sturtevant al momento dell’invasione dell’Iraq da parte americana e chiaramente originato (come si nota, innanzitutto, dalla coppia cromatica giallo/nero, tratta dal manifesto del film) da una riflessione su Kill Bill, violento pastiche (7) cinematografico scritto e diretto da Quentin Tarantino. L’artista, in uno scritto contemporaneo all’uscita del film, aveva aspramente criticato i meccanismi della sceneggiatura di Tarantino, manifestando il suo pensiero sin dal titolo utilizzato: Tarantino: A Concrete Example of the Vast Barren Interior of Man: The Nerd Who Did Kill Bill, ovvero, traducendo: “Tarantino: un esempio concreto della enormemente arida interiorità dell'uomo: la ‘nullità’ che ha realizzato Kill Bill”(8).

Il sovraccarico di stimoli visivi e acustici della mostra viene improvvisamente spezzato dalla sospensione del video Vertical Monad (2007), nel quale il primo (e costante) interesse di Sturtevant per la filosofia viene evidenziato attraverso il latino di Baruch Spinoza.

Le parole della sua Etica (1677) sono infatti l’unico, onnicomprensivo contenuto di un video cieco, diffuso da uno schermo completamente blu.

Tra le altre sale particolarmente degna di nota, nella complessa mostra di Sturtevant, è quella in cui si osserva ancora un doppio riferimento ad Andy Warhol, con una reinterpretazione di Blow Job (2006: video su tre monitor) nella quale il focus si ribalta e si accentra su un’aggressiva bocca femminile e, al di sopra di tutto, con la spettacolare installazione delle Warhol Silver Clouds (1987) nella quale innumerevoli cuscini argentei, ‘nuvole’ in Mylar (materiale simile al polietilene) riempite di elio, si affastellano e rimangono sospesi al tetto. L’installazione riprende materia e forma di un’opera presentata da Warhol nell’aprile 1966, in occasione di una mostra da Leo Castelli volta a contestare radicalmente l’idea di contenuto e contenitore nello spazio espositivo. Ciò era stato realizzato attraverso l’esclusiva presentazione di due lavori: le Silver Clouds (1966) appunto e il rivoluzionario Cow (1966), wallpaper inteso non come ‘accessorio’, complemento espositivo funzionale all’accostamento di dipinti o elementi oggettuali, ma come medium espressivo autosufficiente e completo di per sé stesso.

Una fila di sale avvia alla conclusione della mostra di Sturtevant con i video Rock & Rap e Rock & Rap Simulacra, entrambi del 2012. Quest’ultimo presenta immagini di varia origine televisiva, molte tratte dagli archivi documentaristici della BBC; Rock & Rap, invece, è una doppia proiezione incentrata dall’artista sull’autocitazione. Il concetto riprende quanto già realizzato con Elastic Tango (2010), montaggio di spezzoni eterogenei prelevati da recenti video della stessa artista, diffuso attraverso nove schermi, collegati tra loro a formare una piramide inversa.

La mostra si chiude in maniera ironica ed efficace con l’installazione della carta da parati Wanted, realizzata da Sturtevant nel 1992. Il pattern è incentrato sul collage fotografico omonimo realizzato da Marcel Duchamp nel 1923 e ripreso attraverso il manifesto della retrospettiva dedicata all’artista nel ‘63 dal Pasadena Art Museum (9).

Alterandolo con l’apposizione della propria immagine, Sturtevant reitera l’emblema di una sua personale e finta condizione di “fuorilegge”, incurante del diritto d’autore: il testo descrittivo stampato sul collage originario, sotto la doppia raffigurazione fotografica dell’artista –in ripresa frontale e di profilo, com’è consuetudine nelle foto segnaletiche– termina infatti con un lungo elenco di nomi, riferiti a identità fittizie assunte dal ‘ricercato’. In esso leggiamo, in chiusura, “RROSE SÉLAVY or STURTEVANT” e possiamo dire che i nomi valgano a siglare non una sola opera ma, sotto l’egida di Duchamp, un’intera carriera dall’identità multiforme.

1)S. Moisdon, The Silent Power of Art in “Parkett”, n.88, marzo 2011, pp.114-119.

2)“Sturtevant: Double Trouble”. A cura di P. Eeley, New York, MoMA, The Museum of Modern Art, 9 novembre 2014-22 febbraio 2015; Los Angeles, MoCA, Museum of Contemporary Art, 20 marzo- 27 luglio 2015.  Catalogo della mostra, a cura di P. Eeley, The Museum of Modern Art, New York 2015.

3) Strutture che si rivelano essere, ingigantiti, i moduli componibili ideati dal pedagogo tedesco F.W.A. Fröbel, al centro della didattica per la prima infanzia.

4) Dall’espressione ha tratto spunto il titolo di una tra le più significative e complete mostre di Sturtevant: The Razzle Dazzle of Thinking, tenutasi al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris (febbraio-maggio 2010) a cura di Anne Dressen.

5)“[Sturtevant] must be the first artist in history to have held a one-man show that included everybody but herself”. J. Canaday, Art show worth seeing (1965) cit. in P. Eleey, Dangerous Concealment: The Art of Sturtevant in P. Eeley (a cura di), op. cit., p.49.

6) Différence et répétition, di Gilles Deleuze, verrà pubblicato nel 1968 a Parigi; il testo della conferenza Qu'est-ce qu'un auteur?, pronunciata il 22 febbraio 1969 alla Société Française de Philosophie di Parigi da Michel Foucault, sarà diffuso nel fascicolo estivo n.3, 1969) del “Bulletin de la Société Française de Philosophie”. Entrambi i testi forniranno a Sturtevant un fertile terreno sul quale appoggiarsi e continuare a riflettere e operare.

7) P. Eeley (a cura di), op. cit., p.71.

8) Sturtevant, 2003. Cit. in P. Eeley (a cura di), op. cit., pp.71-72.

9) v. Ivi, pp.55, 75.