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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

La collezione permanente e le mostre di Philip Topolovac e & Il Topo.

Valentina Vacca

«I miracoli avvengono e hanno la tendenza a succedere al momento opportuno» (1) : così scrisse l’artista sardo Costantino Nivola nelle sue Memorie introducendo quello che si può chiamare “il miracolo del pane”, avvenuto quando l’artista era bambino. Il profumo di pane infornato infatti, improvvisamente tornò ad impregnare le mura di Orani –suo paesino natio-, proprio nel momento in cui tutto sembrava essere ormai andato perduto, esattamente nell’istante in cui la povertà depredava del sacrosanto diritto di godere di un tozzo di pane. Con esso se ne andava la speranza, con la fine del pane –scrisse Nivola- «era la fine del mondo» (2) Ma tutto cambiò all’improvviso, ridando equilibrio e fiducia agli abitanti del paese sardo.

Un altro miracolo, a distanza di quasi un secolo da quello del pane, Orani sembra averlo rivissuto quest’inverno. Stavolta lo si potrebbe chiamare il miracolo dell’arte, o anche semplicemente il miracolo Nivola. Coinvolto, in questo specifico caso, è il museo dedicato all’artista sardo, sorto nel 1994 a pochi anni dalla sua morte. Nell’estate del 2014 infatti, l’allora presidente della Fondazione Nivola, ne annunciò la possibile chiusura, sofferta quanto inevitabile a causa delle inconsistenti risorse economiche (3). Quando la vita del museo Nivola sembrava essere attaccata ad un respiratore senza più un briciolo di ossigeno, e quando ormai la possibilità che le opere dell’artista continuassero a rimanere in Sardegna (4) diventava sempre più remota, un miracolo avvenne: l’arrivo di nuovi fondi regionali, la revisione dell’organizzazione amministrativa unitamente alla nomina di un nuovo presidente della Fondazione che porta il nome di Giuliana Altea –la più importante studiosa di Nivola già componente del comitato scientifico del museo-, sono stati la salvezza di questo straordinario centro, il quale continua a vivere ed operare non soltanto per la conoscenza dell’opera di Costantino Nivola, ma pure per la diffusione dell’arte contemporanea nell’isola.

Il Museo Nivola quindi, le cui ceneri sembravano essere prossime alla dispersione, celebra oggi invece una vera e propria rinascita, e lo fa soprattutto grazie ad una serie di iniziative interessanti e all’avanguardia tra le quali non manca un programma di residenze d’artista: Springs. Il nome prescelto per tale programma, possiede in realtà plurime valenze. Da una parte difatti, ci troviamo davanti ad un’omonimia lessicale che dà luogo ad una polisemia semantica: col suo richiamo alla primavera, Springs acclama proprio un vigoroso rifiorimento, accompagnato dal taglio di vecchi rami secchi ed un’instillazione di una nuova linfa artistica fresca, vivace e internazionale, elementi questi che contribuiscono alla nascita di nuovi fiori primaverili riflessi proprio nelle residenze d’artista. Springs però in inglese significa anche fonte –e non si dimentichi che, all’interno del cortile del museo, vi è proprio un’antica sorgente d’acqua-, luogo questo di continuo rinnovamento e rigenerazione. Springs infine, significa pure molla ed in questo caso ben si sposa con l’energia e la dinamicità che da essa si libera per originare una nuova forza artistica.

Ma, poiché il Museo porta il nome del grande artista sardo, la scelta del nome Springs non si riduce ad una motivazione lessicale, ma si amplia di valenze direttamente connesse a Costantino Nivola. Springs è infatti la frazione di East Hampton a Long Island ove l’artista si stabilì nel 1948, e nella cui casa creò, insieme all’architetto Bernard Rudovsky, il giardino-opera d’arte ambientale pubblicato nel 1952 da Architectural Review in America, e da Domus in Italia (5). Uno spazio questo di condivisione e creazione, in una località ove la sabbia –vera essenza del suo lavoro- gli avrebbe aperto la strada verso la scultura grazie alla tecnica del sand-casting (6) da lui sperimentata nel 1949.

Poetico e suggestivo quanto significativo, è lo spazio entro il quale il Museo Nivola sorge: dall’alto di una collina, esso guarda il paese di Orani, lo scruta senza riuscire ad abbracciarlo completamente poiché «è più largo del gesto delle mie braccia aperte» (7), come lo era la frazione di Springs con la sua sabbia, la sua gente, il suo orizzonte. E’ l’antico lavatoio del comune di Orani ad ospitare il Museo Nivola; stessa dinamica questa del resto, verificatasi ad Ulassai –altro paesino della Barbagia- nel caso di Maria Lai e del Museo all’aperto a lei dedicato, anch’esso realizzato impiegando la struttura dell’antico lavatoio.

Il Museo Nivola si sviluppa in tre blocchi e comprende più di duecento opere dell’artista sardo, il cui nucleo iniziale fu scelto dalla vedova Nivola, Ruth Guggenheim. Esso conserva alcune pitture, nonché parecchie sculture ove emerge la versatilità con la quale Nivola lavorò con i più svariati materiali –dalla terracotta al rame, fino alla sabbia con la quale elaborò la tecnica del sand casting- ma anche progetti per monumenti pubblici, alcuni dei quali mai realizzati.

Fra le tele, si può menzionare The Unbelievable City (1979), raffigurante la dinamicità newyorkese che tanto colpì l’artista, appuntata solitamente nel suo taccuino mentre passeggiava per le strade della Grande Mela. Di New York, scrisse di aver bussato «alle porte di questa città meravigliosa e centinaia di porte, finestre e cuori si sono aperti»(8). L’opera in questione pullula di macchine, grattacieli, persone e dà forma, attraverso una densità compositiva che solo le sue opere rappresentanti la Grande Mela possiedono, ad una vitalità metropolitana capace di instillare energia e curiosità a chi, come lui, proveniva da un piccolo paesino della Sardegna. Da notare le bandiere che sventolano dai grattacieli, simboli di una multietnicità profonda e spiccata che senza dubbio non poteva non interessare Nivola.

Nella stessa sala di Unbelievable city, è esposta anche un’opera molto importante per lo sviluppo dell’arte di Nivola: trattasi del Bozzetto per il pannello murale dello showroom Olivetti a New York (1953, Fig. 1), caposaldo dei rilievi eseguiti con la tecnica del sand-casting. Come rilevato da Elena Pontiggia (1995), «Il fascino di quest’opera consiste nell’invenzione dei temi singoli, negli astratti geroglifici egizi, negli astratti crittogrammi sumerici e caldei che Nivola dispone sulle superfici animandone lo spazio. Consiste nel singolare contrasto che si crea nei disegni, che hanno morbidezza e volatilità dei ricami sulla brina, sulla rena e sulla neve, ma insieme rivestono la loro morbidezza organica di una immobilità eterna. Consiste infine, nella solennità della composizione, che esibisce una moltitudine di segni umili e corali, in sé trascurabili ma che al tempo stesso ha la silenziosa assolutezza delle tavole della legge ebraica, delle pietre miliari romane e delle stele etrusche»(9).

Tra le opere più interessanti non solo per la collezione del Museo di Orani ma pure per quel che concerne l’intera opera di Nivola, vi sono senza dubbio le sculture in terracotta, materiale questo che l’artista era solito modellare con gli stessi gesti ancestrali impiegati dalla madre nella lavorazione del pane, ma per le quali non mancano le suggestioni di Arturo Martini come neppure le implicazioni erotiche (10). I Letti in terracotta (Fig. 2) conservati al museo sono stati eseguiti tra il 1965 e il 1972: rappresentati dall’alto, questi sono luoghi di riposo, ma anche di vita, di amore e di morte carichi di significati simbolici. Ad interessare l’artista, è indubbiamente il rapporto uomo-donna, esplorato qui in tutte le sue accezioni. Le figure umane dei Letti di Nivola non hanno identità, possiedono dei tratti somatici appena suggeriti e mai definiti in toto. E se fino al 1970 l’artista spesso li copre con le lenzuola, conferendo loro un accenno volumetrico del corpo, successivamente i protagonisti sono rappresentati quasi come un tutt’uno con la superficie del letto. Le figure dei Letti si confondono ora col giaciglio, sia esso d’amore, sia esso mortale. Sempre nell’ambito delle terrecotte, il museo conserva anche due Spiagge: in Spiaggia I l’artista sembrerebbe rammentare le spiagge deserte della sua infanzia, contrariamente invece a Spiaggia II dove la folla regna sovrana e non permette di intravedere neppure un centimetro di quella sabbia bianca che tanto era cara a Nivola.

Non mancano poi alla collezione del museo, le opere più famose dell’artista sardo: le figure femminili per le quali, memore del modus operandi di Brancusi nonché della purezza della forma, diede vita alla Madri, alle Vedove e alle Lavoratrici con le loro superfici larghe, sottili e lisce in ricordo di una corporeità femminile sinuosa ed armonica, misteriosa ed ancestrale.

Particolarmente interessante poi, è la sezione del museo dedicata ai modellini per i monumenti di arte pubblica. Particolare interesse rivestono i due progetti mai realizzati per il Monumento ai caduti dell’isola di Batan Corregidor progettato insieme a Richard Stein nel 1958 e quello per la Brigata Sassari (1963, Fig. 3). Per quel che concerne il primo progetto l’artista, anticipando gli stilemi della Land Art, pensò di modellare l’isola in questione–alla quale secondo lui sarebbe stato necessario «portare energia»(11)-, come una scultura. Tale risultato lo ottenne inserendo nel progetto tombe, luoghi di preghiera, trincee scavate nel terreno. Per il Monumento alla Brigata Sassari (Fig. 3) invece, l’idea di base era molto simile a quella per Batan Corregidor: nel modellino esposto infatti, si può facilmente notare come il profilo dall’alto avrebbe dovuto rimembrare quello della Sardegna; inoltre Nivola previde di inserire anche due sculture declinate secondo i due sessi maschile e femminile, esemplati secondo i suoi stilemi scultorei. La concezione invece di una piazza costituita da pilastri e mura che, osservati dall’alto avrebbero dovuto ricordare la bandiera degli Stati Uniti, è quella con cui Nivola realizzò il progetto per Il Monumento per la Bandiera Americana (1987-88), anche questo mai realizzato. Straordinariamente poetico è poi il bozzetto per il Monumento ad Antonio Gramsci (1968, Fig. 4) destinato al paese di Ales e anch’esso mai realizzato. Tale progetto avrebbe dovuto narrare un fatto dell’infanzia di Gramsci: sua madre infatti, vedendo il proprio figlio affetto da una malformazione ossea, pensava ingenuamente di poterlo guarire appendendolo ad una trave del tetto.

Com’è stato precedentemente messo in luce, il Museo Nivola si distingue non solo per la valorizzazione dell’opera dell’artista sardo, ma pure per essere un centro espositivo che combina e lega armonicamente arte contemporanea e arte nivoliana, senza mai dimenticare il legame col territorio sardo. E’ questo il senso del programma di residenze d’artista Springs. Il primo artista ad esporre in seno a tale iniziativa è il tedesco Philip Topolovac (1977) la cui mostra “Niemandsland” è visitabile al Museo Nivola fino al 5 novembre. Fotografo e scultore, Topolovac basa la sua ricerca sull’estetica del paesaggio unitamente alla meccanicizzazione e tecnologia del mondo contemporaneo; in mostra presenta cinque opere, tutte espressione di un legame con l’arte di Nivola in primis, e una continuità con la Sardegna che assume un sapore mistico e ancestrale.

Nella scultura Pozzo negativo (2015) ad esempio, Topolovac esegue il calco in negativo del pozzo sacro di Santa Cristina, luogo in cui ci fu la sua residenza. Particolarmente affascinato dai nuraghe e in generale dall’archeologia sarda, l’artista sembra qui volerne fare un monumento alla sua estetica ma anche al suo misticismo. Per l’artista, il pozzo di Santa Cristina è un luogo colmo di energia; quel che lo affascina è l’idea di come le persone, una volta venute a contatto con esso, possano cambiare. Anche qui il legame con Nivola è celato, ma fortemente presente: Topolovac riesce nell’impresa –come Nivola- di creare un legame col luogo in cui risiede, arriva a comprenderne l’essenza e la magia riuscendo ad armonizzare perfettamente se stesso e la sua arte con tale sito archeologico. Pozzo negativo è quindi un’opera che si lega completamente a Nivola come anche alla Sardegna, è un’opera che indaga dal profondo la connessione mistica ed energica che lega l’uomo al luogo in cui si risiede.

Nella serie di cinque foto Scenic route (2015, Fig. 5) invece, Topolovac indaga il paesaggio, che per lui è sempre fonte di ricerca estetica. Scorci di reperti archeologici ritrovati a Berlino durante alcuni cantieri narrano di un passato nascosto ma ora diseppellito; ad un primo sguardo però, gli scatti ricordano paesaggi di pianeti sconosciuti, forse fotografati da un satellite, magari simile a Envisat (2015) esposto nella stessa sala delle fotografie. Envisat, in bronzo patinato, rappresenta in realtà quello lanciato nel 2004 per mappare la rottura dei ghiacciai dell’Antartico e per capire l’entità del danno. Das Eismer/The sea of ice (2015) è un’installazione relazionata proprio a Envisat: trattasi infatti di una proiezione di 81 diapositive consistenti proprio in riprese realizzate da questo satellite tra il 2004 e il 2009; a queste, si giustappone la citazione di Caspar David Friederich e del suo Das Eismeer, pittura iconica del Romanticismo di una spedizione artica fallita.

Bodenform (2015, Fig. 6) è un’opera ispirata all’antico sistema megalitico di misura del cortile. E’ una griglia che funziona come una fotografia del terreno della vecchia cava di Orani, ricalcato in negativo nella resina allo stesso modo con cui Nivola realizzava i suoi sand cast. Qui anziché la sabbia c’è la terra di Orani: una mappa frammentata quindi, dove lo spettatore si pone in rapporto col territorio.

Accanto al programma di residenze d’artista Springs, il Museo Nivola ha inaugurato anche la sua “primavera” espositiva; ad aprire questa nuova stagione è il collettivo d’artista E il Topo con la mostra Castelli di sabbia allestita nel padiglione esterno del museo e il cui titolo rammenta ancora una volta Costantino Nivola e i suoi sand cast. Storica rivista d’artista degli anni Novanta, E il Topo nasce a Napoli nel 1992 ma si manifesta poi soprattutto a Milano. Chiude i battenti nel 1996 per poi riaprirli nel 2012. Come ci spiega il “topista” David Livrer: «E il Topo indica che manca qualcosa all’inizio della frase, come se al principio ci fosse sempre qualcuno coinvolto. L’idea della congiunzione iniziale nasce dall’artista concettuale canadese Iain Baxter –incluso anch’egli nella rivista- il quale nel 2005, decise di cambiare legalmente il suo nome in Iain Baxter&. A partire da questa concezione, nel 2013 anche la rivista sceglie di adottare nel suo titolo la congiunzione come segno di coinvolgimento e inclusione, spirito questo in realtà della poetica topista».

All’interno della mostra Castelli di sabbia, troviamo esposti tutti i numeri de E il Topo; l’ultimo di questi, il 19 (Fig. 7), è stato creato appositamente per la mostra. Si tratta di un numero molto particolare perché realizzato in collaborazione con artisti sardi scelti tramite un’open call lanciata nei mesi passati. Gli artisti prescelti –fotografi per lo più- sono stati chiamati a lavorare sul tema dei castelli di sabbia: quel che ne è derivato, è una serie di scatti molto poetici che entrano in perfetta sintonia con la sabbia in qualità di materia per l’opera d’arte. La accarezzano e vi interagiscono; la lavorano, e con essa creano straordinari castelli che, piccoli o grandi che siano, risultano essere declinati in una dimensione immensamente poetica. Castelli di sabbia è il frutto dell’unione fra l’arte di Nivola, la Sardegna come territorio ma anche la filosofia topista che, a quanto pare, risulta essere una vera e propria attitudine esistenziale.

Accanto al neonato numero 19, la mostra ospita anche tutti i numeri storici della rivista (Fig. 8): il numero 0 del 1992, al quale presero parte Armando della Vittoria, Gabriele Di Matteo, Vedovamazzei e Gatto Silvestro. Amici napoletani, lo lanciarono a Milano in via Farini con un happening intitolato Il cieco e il topo. Mancano in mostra i numeri 1 e 2; il numero 3 invece, non è mai stato stampato o perlomeno, come vedremo, non subito.

Presente anche lo straordinario numero 4 del 1993 (Fig. 8). Gabriele di Matteo, inizialmente invitato ad esporre all’interno della mostra Aperto 93 per la Biennale di Venezia, immortalò con una foto tutti gli artisti presenti. Decise poi di stampare un numero del Topo con i nomi e le facce mischiate di ognuno di loro; così ad esempio Maurizio Cattelan diventò Hirsch Perlman e, di seguito, tutti i centoventi ritratti si mischiarono tra di loro. Si tratta chiaramente di un numero ludico, non senza una critica diretta allo star system.

Col numero 10 del 1996, esposto anch’esso in mostra, si chiuse la stagione del Topo. Tutti i componenti bene o male, erano ormai diventati celebri. Come ci racconta Liver però: «In quell’occasione ci si accorge della mancanza di un numero –ossia del tre- e si decide quindi di stamparlo. Si tratta di un numero con una sola pagina, dove vi è una foto di Vedovamazzei».

Nel 2012 il Topo resuscita grazie alla scelta di Francesco Fossati di fare una tesi sugli spazi no profit. Particolarmente interessato all’attività topista, Fossati contatta Di Matteo, il quale entusiasta, parla con gli artisti e ricrea la rivista. David Liver ci spiega però che: «Non c’erano idee e quindi si decise di fare un’open call internazionale. Il tema riguardava i personaggi dell’arte morti durante quel buco temporale che si era creato nella rivista, ossia dall’ultimo numero del ’96 fino al 2012. Il Topo insomma, celebra i personaggi che non ci sono più per celebrare la sua stessa (ri)nascita. Lo spirito però stavolta è un po’ diverso, e si opta anche per chiamare artisti che, ad esempio, accompagnano la rivista con delle performance. E’ importante notare come Il Topo sia un luogo di scambio e di attitudine, spirito questo che corrisponde più all’arte francese».

Di questa seconda stagione, interessante è senza dubbio il Manifesto Topista redatto nel 2014 (Fig. 9). Come spiegato da Liver infatti, «Dal 2014 la rivista è diventata prima un collettivo e poi un movimento. Nel luglio 2014 in Corea viene redatto il Manifesto del Topo. E’ scritto in italiano, ma è pubblicato su un giornale coreano. In questo senso, è stato fatto anche un intervento di congiunzione con la Sardegna: il manifesto infatti, è pubblicato anche sul Baratto –giornale locale sardo-, ma stavolta scritto in coreano».

Come in ogni movimento però, non mancano i dissidi e le lotte intestine fra i componenti, in questo caso fra topisti. Nell’ultima stanza che compone la mostra sarda de E il Topo infatti, Frédéric Liver, David Liver, Fabien Pinaroli hanno mirato a creare uno spazio di scissione topista. Le opere destinate ad essere esposte sono state murate all’interno, ancora una volta con un chiaro riferimento a Costantino Nivola e al suo rapporto fra il decorativo e lo spazio pubblico. Esposto in questa sala, anche quel numero del Baratto che contiene il Manifesto topista in coreano (Fig. 9). Di questo spicca l’ultimo punto: «à peu de choses près ce fut le printemps», c’è mancato poco che fosse primavera.

Esattamente il contrario del Museo Nivola, che invece sembra vedere proprio il sorgere di questa stagione.

1)NIVOLA, C. Memorie di Orani, Libri Scheiwiller, Milano 1996, p.21

2) Ibidem

3)Cfr. http://lanuovasardegna.gelocal.it/regione/2014/08/06/news/schiaffo-alla-cultura-soldi-finiti-il-museo-nivola-chiude-1.9718223

4)I figli dell’artista, residenti negli USA, iniziarono infatti a valutare la possibilità di portare le opere del padre oltreoceano.

5) ALTEA, G. Costantino Nivola, Ilisso, Nuoro 2005, p. 52

6) La tecnica elaborata da Nivola quasi per caso mentre giocava con i suoi figli sulla spiaggia, consiste nel modellare una forma in negativo sulla sabbia, per poi versarvi una colata di cemento oppure di gesso e ottenere quindi il rilievo prestabilito. Una volta fatto ciò, la superfice poteva essere colorata oppure arricchita con altri elementi. Bisogna osservare comunque, che ad una perfezione esecutoria, Nivola arrivò solo dopo alcuni anni dal momento che i primi sand casting, per via del sale marino, si sgretolavano con estrema facilità. Cfr. Ivi, pp. 58-59

7)BUA, M. (A cura di), Ho bussato alle porte di questa città meravigliosa, Arte Duchamp, Cagliari 1963, p. 65

8)Ivi, p. 27

9)COLLU, U; ASHTON, D; CARAMEL, L.; PONTIGGIA, E. Museo Nivola, Ilisso, Nuoro 1995, p. 53

10)L’artista paragonava i rumori della cucina a «colpi di sculacciate e gemiti»

11) Intervista di G. Pinna Parpaglia e P. Baggiani a Nivola (1980)