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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Sei domande interlocutorie attraversano la produzione artistica sociale della più estesa città del continente europeo. Istanbul. Passion, Joy, Fury al MAXXI di Roma

Patrizia Mania

Un fiume in piena questa esposizione su Istanbul curata da Hou Hanru. Proprio come recita il titolo Istanbul, Passion, Joy, Fury lo spettatore viene travolto da un vortice di passione, gioia, furore. Se ne si assecondano i passi - le sei sezioni nelle quali la mostra si articola, di fatto sei domande interlocutorie - non si può non essere investiti dalle energie che ne emanano. Il nerbo concettuale dal quale si snoda l'intero percorso accerchia e avviluppa il fruitore immergendolo con prepotenza in un flusso di narrazioni. A partire da una premessa, che è l'antefatto dell'intera costruzione, ci si inoltra in una babele di storie narrate.

Partendo dalla prima sezione denominata "A Rose Garden?" tutto si irradia e ricompone in senso. Ma a cosa si riferisce questo "Rose Garden"? Esso richiama un luogo significativo e originario di presa di coscienza pluriforme: il roseto di Piazza Taksim prima della sua demolizione del 2013 invano contrastata innanzittutto dagli abitanti del quartiere e divenuto poi simbolo di una lotta collettiva per la libertà. La sua distruzione ha rappresentato, come ci ricorda Orhan Esen, un vero e proprio "golpe urbanistico" (1) che produrrà la difesa di Gezi Park contro il disegno governativo di trasformare la zona in un centro commerciale in stile neo-ottomano. Il movimento di protesta che ne è derivato (chi non ricorda la protesta di piazza Taksim?) ha visto la cittadinanza saldarsi insieme in un proposito ideale di salvaguardia della propria identità e della propria memoria, ed è all'interno di questo trasversale movimento che artisti e intellettuali hanno svolto un ruolo centrale. Tracimando differenze e reciproche ostilità, la condivisione messa in atto ha raggrumato un potenziale eversivo immenso come se si trattasse di un'onda anomala in grado di far convergere sul tema della salvaguardia del sé forze distinte e entusiasmi repressi. Un sé collettivo dapprima inascoltato e poi minacciato, preso in ostaggio da un potere mostratosi sordo alle richieste, incapace di prenderne atto, desideroso solo di replicarsi e autoritariamente determinarsi. Quando nel 2013 prese corpo la protesta dei cittadini di Istanbul per la difesa di questo parco pubblico dalle ruspe che ne avrebbero, come di fatto hanno poi fatto, distrutto l'identità e la memoria, la protesta collettiva sfociata in scontro aperto ebbe il pregio di far esplodere, come effetto collaterale, la vivacità della consapevolezza politica del voler partecipare e creare una rete di corrispondenze ed engagements. Tutti vollero conoscere la situazione e desiderarono farsi parte attiva di un processo di lotta politica ideale. L'arte, gli artisti, gli intellettuali, come si accennava, non si fecero da parte e anzi sembrerebbe quasi siano stati sollecitati ad esserci.

Di tutta questa realtà, la mostra di Hou Hanru fornisce una variegata testimonianza che, per quanto parziale, misura la consistenza del fermento e dell'azione politica derivatene. E, se ad accendere l'imaginerie è stata la spinta ideale politica, gli esiti ci appaiono a tutt'oggi come un laboratorio in fieri. Tornando a questo primo tornante della mostra, il suo antefatto nei fatti descritti, l' incipit è nel video "A Rose Garden?" di Extrastruggle che, con una grafica straniante, mette in scena modernismo e decorativismo popular in un intreccio inestricabile, confermato anche dalla grafica del catalogo della mostra curata sempre da Extrastruggle. Siamo alla prima narrazione fictionnaliste che interroga i fatti da cui tutto sembrerebbe originatosi: la difesa appunto del roseto di Piazza Taksim. Dipanando il filo dei diversi orizzonti suggeriti dal percorso espositivo e dai lavori scelti, un primo accento va posto sul senso del narrare contemporaneo che, in questa mostra, è a ben guardare da ritenersi l'effettiva chiave d'accesso. Eloquentemente Zeyno Pekünlü introducendo la sua video-conferenza "At the Edges of All Possibles" 2014/2015 afferma: "In questa conferenza-performance, cerco di tornare alle fondamenta del raccontare, sulle quali il narratore edifica un racconto per preservare e diffondere l'esperienza umana condivisa, facendo uso del più antico strumento: la voce umana"(2). Non è la voce umana l'unico dispositivo narrativo adottato dagli artisti presenti in mostra, ma certamente la considerazione di Zeyno Pekünlü rispecchia la consapevolezza della necessità comunicativa del narrare che è tratto comune diversamente declinato da tutti gli artisti in mostra.

La seconda sezione, tra le più corpose della mostra, "Ready for a Change?" prende spunto dalla constatazione della crescita esponenziale -per certi versi subìta- della città di Istanbul a partire dalla seconda metà del XX secolo; fenomeno che ha in primis determinato una trasformazione morfologica della struttura urbana, con inevitabili ricadute culturali e sociali. A fronte di un processo di perenne accrescimento, il tentativo di programmarne uno sviluppo sostenibile ha riguardato oltreché architetti e urbanisti anche diversi artisti che si sono prodigati nella ricerca di soluzioni capaci di indicare possibili vie di rispetto del pluralismo congenito alla città. Tra i lavori che ne danno testimonianza, è indicativo il video di Halil Altindere "Wonderland" del 2013, guardando il quale non si potrà fare a meno di riscontrare come le complessità sociali, culturali, insieme a quelle degli spazi pubblici e linguistici, rappresentino una necessità emergenziale con la quale fare i conti. Gli interpreti di questo video sono alcuni ragazzi di una band rap del quartiere di Sulukule che è stato tradizionalmente nei secoli il luogo ospitante le comunità rom della città. Quando però, nel 2006, nel quadro di un progetto di "rinnovamento urbano" si procedette con la demolizione dell'area, il nuovo riassetto non riuscì a mantenere alcun segmento di continuità con il carattere identitario precedente andando piuttosto a produrre ed a alimentare in primo luogo il disagio sociale. La trama del video concerne i temi della rabbia, del disagio appunto, della disuguaglianza, della gentrification, esplorati con singolare efficacia. Ma non è il solo modo intercettato per parlare e insieme denunciare le intollerabili conseguenze politiche di un dissennato ampliamento e azzeramento dell'esistente. In tal senso appare vigorosa la riflessione sui paradossi della resistenza di alcune persone ad abbandonare le proprie dimore per far posto a nuove costruzioni svolta dalle sculture di Ahmet Őğüt "Pleasure Places of All Kinds (Zhejiang Province) (Fikirtepe Quarter)" del 2014 che ben esemplificano il fenomeno delle cosiddette nail houses e delle assurdità degli effetti.

"Can We Fight Back?" è la terza domanda che apre la terza sezione della mostra. L'interrogativo è chiaramente se si possa o meno resistere. Centrale, anche in questo passaggio, riferirsi all'antefatto di Piazza Taksim e della sollevazione collettiva al sopruso. Non casualmente ad accompagnare le proteste e i forum cittadini sorti spontaneamente un po' ovunque proprio per Gezi Park è stato lo slogan "It's just the beginning". Un auspicio che ha rappresentato anche un monito. Qui, come in tutto il percorso espositivo, i lavori prescelti non si danno mai come didascalici ma piuttosto assumono l'ipotesi di prodursi come forme di resistenza in modi che, potremmo dire, si riconoscono a posteriori. Alcune personalità di artisti, qui reiterate più che altrove, configurano prove testimoniali della conseguita resistenza. Tra queste, con le sue numerose sculture di persone in silicone a grandezza naturale, ancora Halil Altindere che gioca sul versante di un'ambiguità spiazzante proponendo immagini che non sono mai quel che ci si aspetta siano di primo acchitto: così l'innocente gattonamento di un bambino diviene foriero di morte dal momento che il piccolo è colto mentre sta cercando di inserire le sue dita nella presa elettrica e la disperazione di un uomo che sorregge il proprio capo con un braccio su una parete e che impugna un'arma con la mano dell'altro braccio allude ad un depotenziamento del pericolo che ci spiazza...Tutti questi altri "noi" sembrano allertarci sui potenziali pericoli che condividono nel nostro stesso spazio. Ancora in questa sezione della mostra, le opere di Nibar Güreş affrontano problematiche di genere con i media della tradizione artigianale che vengono riesumati e piegati a nuovi e specifici indirizzi semantici. Come in "Self Defloration" del 2009 dove l'artista compone in un collage di tessuti l'immagine di una donna nell'atto di autodeflagrarsi indicando prospetticamente un primo passo verso l'emancipazione. Per Güneşh Terkol, la concezione e realizzazione collettiva dell'opera attraverso workshop condivisi con gruppi di donne e di femministe è la prassi seguita che le consente di realizzare dei patchwork cuciti le cui tematiche risultano inneggiare chiaramente all'azione politica collettiva, come può riscontrarsi in "Women Song" del 2010. Il connubio tra concezione operativa collettiva e indirizzo linguistico artigianale sembra sottendere anche la questione della pervicace persistenza dell'identità mnemonica culturale accanto a quella della ribellione alle coercizioni politiche.

Procedendo verso la quarta sezione della mostra intitolata "Should We Work Hard?" l'obiettivo si sposta sul mondo del lavoro. In tempi di trasformazione del sistema di regolamentazione dei rapporti di lavoro, in tempi di frenesia lavorativa non compensativa, i lavori selezionati forniscono un quadro avvilente e ansiogeno dell'attuale dimensione lavorativa e della sua idiosincratica rincorsa al guadagno. Dalla robotica indotta nei comportamenti, restituitaci sapientemente nel video di Burak Delier "Crisis & Control" del 2013, alle falsificazioni dei prodotti da immettere nel mercato. Non si tratta di limitarsi a denunciare l'alienazione o le falsificazioni del nostro vivere quotidiano, si intende piuttosto attivare a riguardo un pensiero critico di non mera acquiescenza. Si veda il "Carpet Land" del 2012 di Halil Altindere nel quale migliaia di tappeti che emulano la fattura anatolica tradizionale benché realizzati in età contemporanea appaiono distesi in una vallata . Esposti alle intemperie degli agenti atmosferici perchè acquisiscano la patina del tempo e così possano fingersi autentici tappeti antichi per poi essere destinati al commercio. Une vera e propria simulazione falsificatrice che ibrida inoltre un ulteriore registro, suggerito dal titolo, nell'evocare un luogo per la preghiera.

"Home for All?" è la quinta domanda e anche sezione della mostra e affronta un tema tra i più attuali: quello dell'ondata migratoria passata e odierna. Al centro ancora la memoria di Istanbul, delle sue stratificazioni generazionali e trasversali, ma anche la questione dell'esilio universale, della speranza riposta in ogni migrante del poter trovare, al di là della fatica del viaggio e della pena dell'abbandono, un futuro migliore, così suadentemente mostrato dal video di Cengiz Tekin "Just Before Paradise" del 2015.

Infine, la sesta e ultima sezione, "Tomorrow Really?" interroga la possibilità stessa di giocarsi la carta del futuro. Anche qui, come si è potuto verificare per le altre domande/sezioni, non una risposta univoca ma alcune possibilità esperite. Il futuro sembra così proporsi soprattutto come necessità di consapevolezza del presente reale e dell'immaginazione che sovverte ed altera la banalità per indicare possibili nuovi orizzonti delineati anche al solo scopo di consentire l'opportunità di riflessioni e visioni inaspettate e imprevedibili. Come quella di scorgere in uno smottamento del terreno che fa casualmente franare una strada in direzione di Malatya nella regione anatolica, una metafora di una storia non scritta, di una memoria sociale rimossa che affiora nonostante tutto spingendoci a riflettere sulla perdita di identità collettiva a cui il pensiero unico, indotto soprattutto dalla televisione, ci ha portati. E, infatti, il video di Vahap Avsar "Road to Arguvan" del 2013 si conclude proprio con un televisore che appare dentro la frattura della strada, come a dirci quanto l'informazione perseguendo obiettivi politici abbia tagliato fuori della memoria collettiva. E, ancora, come i «detriti» della nostra società consumistica possano configurare e attivare nuovi campi dialettici lo indica efficacemente il video di Fikret Atay "Good Year" del 2006. Qui viene documentato il gioco tra due giovani immigrati turchi in una cittadina tedesca. I loro "gesti" sembrerebbero corrispondere a quelli che Brecht chiamava i "gesti sociali" visto che, nella loro sostanziale estraneità ai conformismi d'uso, non possono non apparire che "gesti rilevanti" per la società. E, proprio sul filo di questa contiguità al sociale affermata da tutte le opere in mostra, va colto il senso più profondo di questa mostra che invita a rileggere il presente di Istanbul allontanandoci dagli stereotipi dell'immagine da cartolina di una città densamente pregna di tutti i travagli della nostra contemporaneità, imponendoci a riguardo una nuova open source di Greetings from...(3).

1) Orhan Esen, "Taksim, o scrivere una costituzione attraverso uno spazio urbano", in, Hou Hanru (a cura di), Istanbul. Passion, Joy, Fury, catalogo della mostra, MAXXI Quodlibet, 2015, pag.31.

2)Zeyno Pekünlü, in, Hou Hanru (a cura di), Istanbul. Passion, Joy, Fury, catalogo della mostra, MAXXI Quodlibet, 2015, pag.54.

3) Si veda la serie di venti cartoline di Sinan Logie & Yoann Morvan dal titolo "Greetings from".