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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Intorno al libro di Alessandra Pioselli: L’Arte nello spazio urbano. L’esperienza italiana dal 1968 ad oggi

Lucilla Meloni

Il dibattito sull’arte pubblica, soprattutto sull’arte urbana, sembra aver ritrovato una nuova urgenza a seguito dell’esplosione della Street Art, la cui attuale fenomenologia è molto diversa da quella delle sue origini. Alla Street Art sono dedicate mostre e convegni (a Roma si è svolta recentemente la VI edizione del Festival Out door dal titolo Here; now), quanto una forte attenzione mediatica, come testimonia il format televisivo prodotto da Sky intitolato “Muro”, che tratta delle ”memorie urbane”.

Di giorno in giorno aumentano le opere realizzate sulle facciate dei palazzi sia nel centro che nelle periferie urbane, commissionate da fondazioni e sostenute dai vari Assessorati alla cultura o dai Municipi stessi. Quello che nasceva come evento di strada “non autorizzato”, lontano dalle istituzioni quanto dal sistema dell’arte, ha assunto adesso la dimensione di un avvenimento artistico collettivo. Fenomeno complesso, non si può dire, nonostante si presenti come decorazione volta alla riqualificazione (apparente, appunto “di facciata”) delle periferie urbane, che la Street Art sia l’espressione di un fare deproblematizzato, come dimostrano anche le parole dei suoi molteplici autori, e soprattutto alcune esperienze che sono nate dalla condivisione di un progetto con gli stessi cittadini.

La storia dell’arte pubblica è lunga e complessa e certamente è un tratto peculiare degli ultimi quarant’anni.

Proprio all’interno di questo contesto di riflessione si inserisce il libro scritto da Alessandra Pioselli: L’Arte nello spazio urbano. L’esperienza italiana dal 1968 ad oggi (Johan & Levi, Milano 2015): un saggio che fa luce sulle diverse tipologie di arte pubblica dal 1968 ad oggi, legate al momento storico e politico, che indaga il perimetro del concetto di arte urbana, che nel tempo ha dilatato i suoi confini in seguito alle trasformazioni sociali intervenute nell’arco di quasi quaranta anni e al contempo il ruolo della committenza sia pubblica che privata. Attraverso la scansione cronologica dei diversi nuclei tematici viene disegnata una città che, da simbolo del moderno, dagli anni Novanta del Novecento si trasforma in “territorio”.

Lo studio ha il merito di disegnare una mappatura delle manifestazioni, delle rassegne, delle performance, delle animazioni, delle azioni più significative svoltesi in relazione all’idea dello spazio urbano come luogo da agire e non solo nelle grandi città, ma anche nei centri minori, e di presentare al pubblico le molte sfaccettature di un fenomeno dal perimetro frastagliato.

Proprio questa apertura critica, scevra da un’impostazione ideologica, permette la comprensione di modalità di intervento che, nella loro radicale diversità, rientrano nell’ampia definizione  di arte pubblica, che per esempio in tempi recenti include tanto i progetti promossi da Fondazioni private, quanto l’organizzazione autogestita da artisti e cittadini, di cui l’importante esperienza del quartiere Isola a Milano è stata testimone.

Il libro è diviso in due parti: la prima, 1968–1979, dà conto dell’onda lunga degli anni della contestazione, dell’attività sul territorio svolta dai molti collettivi d’artisti operanti in quel decennio (tra i quali, il Collettivo Autonomo Pittori di Porta Ticinese, il Laboratorio di Comunicazione Militante, il Gruppo Salerno 75, il Gruppo degli Ambulanti, il collettivo Lavoro Uno, il Gruppo Piazzetta), della nascita degli spazi autogestiti (come a Milano La Fabbrica di Comunicazione), dell’esperienza dei comitati di quartiere e del coinvolgimento degli enti locali in un’idea di arte pubblica. Altresì dei moltissimi interventi realizzati da singoli autori, volti alla riqualificazione e all’animazione dello spazio pubblico: dall’architettura di animazione di Riccardo Dalisi ai dispositivi ludici di Franco Mazzucchelli, agli interventi ironico-politici di Piero Gilardi, ai progetti di recupero di Ugo la Pietra.

In quel decennio, negli anni cioè in cui si dichiarava che il privato e il politico coincidevano, la città è il luogo del politico per eccellenza, è teatro delle trasformazioni sociali.

I centri storici diventano il terreno di azione: da Campo Urbano (Como,1969) a Volterra 73 (Volterra,1973) alla Biennale del Metallo di Gubbio (Gubbio, 1975), solo per citare alcuni esempi, si snoda un percorso critico (da Luciano Caramel a Enrico Crispolti) e artistico che individua nel segno impresso nello spazio urbano la centralità di un fare inteso come trasformazione dell’esistente.

A testimonianza della diffusione di tali pratiche, la Biennale di Venezia del 1976, nella sezione curata da Raffaele De Grada e da Enrico Crispolti “Ambiente come sociale”, presentava una mappatura degli interventi di arte pubblica realizzata sul territorio nazionale sia dai collettivi di artisti che da singoli autori.

In maniera accurata l’autrice rintraccia le origini di azioni, che mutatis mutandis, si dipanano nel decennio e se la rassegna di sculture all’aperto Sculture in città (Spoleto, 1962) ideata da Giovanni Carandente, appare come l’inizio di una nuova concezione dell’arte rivolta in maniera più immediata ai cittadini, non di meno l’ “Animazione culturale urbana” promossa a Roma nella seconda metà degli Anni Settanta dall’Assessore alla Cultura Renato Nicolini, si situa in uno stesso tracciato: nell’idea che l’arte e la cultura in genere dovessero essere beni e valori collettivi.

Se la prima parte inizia nel 1968, data fatidica e anche simbolica di una rivolta generalizzata, la seconda prende avvio dal 1979 e arriva al 2014. Il 1979 è, al pari del 1968, uno spartiacque: da qui inizia quella che è stata definita come l’età del “riflusso” che segue il decennio, liquidato troppo frettolosamente con la definizione di “anni di piombo”. La studiosa, nel porre la questione interpretativa delle molteplici esperienze legate allo spazio urbano negli anni Settanta, riflette sul loro valore linguistico e al contempo spiega il perché della loro quasi totale rimozione dalla storia dell’arte. Scrive: “Oggi, rispetto a che cosa le valutiamo? All’impatto sociopolitico o alla complessità linguistica? (...) Fatto sta che nella stagione del cosiddetto riflusso questo patrimonio di riflessione si disperse quasi totalmente. Una delle possibili ragioni della rimozione è che la politicizzazione e la sue derive ideologiche rivestirono ogni esperienza come una coperta uniforme che impedì di coglierne sfumature oggi leggibili con chiarezza”.

Negli anni Ottanta crolla, con l’idea della partecipazione che tanto aveva animato il decennio precedente, l’ interesse degli artisti per la città e le azioni nel contesto pubblico, che, quando pure persistono, assumono un carattere soggettivo.

Unica eccezione il Gruppo di Piombino, il cui operato è volto a generare la partecipazione involontaria delle persone (Sosta quindici minuti, 1983). Un’inedita
apertura relazionale, quella del Gruppo di Piombino, che ha anticipato le pratiche successive, poiché, come scrive Pioselli: “La professione di apertura relazionale sarebbe diventata imprescindibile per la generazione di artisti che avrebbe iniziato a lavorare nella prima metà degli anni Novanta e che non avrebbe più avuto bisogno di calcolare i passi della differenza dalla politicizzazione degli anni Settanta”.

Negli anni Novanta, dopo la parentesi degli Ottanta, si assiste a una rinnovata attenzione da parte degli artisti verso lo spazio pubblico in un confronto individuale o collettivo con le nuove dinamiche sociali che percorrono il Paese.

Il testo dà conto delle molte azioni che hanno caratterizzato quel periodo, indirizzate a manifestarsi nelle zone interstiziali urbane piuttosto che nei suoi centri storici; fanno la loro comparsa inedite pratiche, come le “passeggiate” organizzate dagli Stalker, gli attraversamenti di spazi urbani e non. Il territorio è assunto anche nella sua valenza storica e culturale, come fa Luca Vitone quando nel 1992 al Castello di Rivara presenta l’operazione Pratica del luogo, dove la gente degustava prodotti tipici e visionava materiali sul luogo. Dalle esperienze di Enzo Umbaca che si trasforma in mendicante albanese  a quelle di Marco Vaglieri, che chiede ai passanti la possibilità di essere da lui abbracciati, fino ad arrivare alla vicenda dell’Osservatorio Nomade e a quella dei Nuovi Committenti, si segue il fitto intreccio di azioni che, ancora una volta e con tutte le differenze rispetto agli anni settanta, riposizionavano la pratica artistica nel contesto sociale.

Centrale rimane l’esperienza dei “Nuovi Committenti” (Nouveaux Commendataires), che sostenuta dalla Fondazione Olivetti, ha avuto il merito di mettere in pratica quel principio di orizzontalità del processo artistico, che tanto era stato invocato dall’ “operatore estetico” degli anni Settanta, là dove il curatore diventava “mediatore” e il cittadino si trasformava in “committente”, nella condivisione del progetto con l’artista.

Immaginare Corviale di Osservatorio Nomade, curato dalla Fondazione Olivetti (2004-2005), sostenuto dalle istituzioni del territorio, fu un esempio eccellente di una nuova modalità di intervento, per nulla velleitaria, ma che aveva il progetto di ri-significare un luogo romano da sempre marginalizzato.

Anche l’esperienza di Urban II Mirafiori Nord, così come quella di Zingonia: Arte Integrazione Multiculture (dove Stefano Arienti ricama sui cuscini i nomi propri degli abitanti del quartiere), si avvalse della collaborazione con le istituzioni.

Altre vicende narrano di una relazionalità intesa in senso orizzontale, politico e sociale. Emblematico il caso milanese del quartiere Isola e dell’intervento di Stefano Boccalini Wild Island (2002): un giardino dall’ ampia varietà botanica, le cui piante erano state portate dai residenti del quartiere, provenienti da diversi paesi.

Nelle Conclusioni del saggio, intitolate “Prospettive attuali: ricorsi e miti della partecipazione” l’autrice tratta anche del “rapporto con il territorio” istituito dai musei di arte contemporanea, di cui è stato esempio un lavoro di Alberto Garutti posizionato nel quartiere Don Bosco di Bolzano: un box trasparente, che accoglieva di volta in volta un’opera proveniente da Museion. Lo stesso luogo è stato poi adibito per alcuni mesi nel 2014 a camera d’albergo: Hotel Cubo, il progetto di Hanner Egger, che non ospitava opere, ma persone per la notte, dietro prenotazione.

L’idea della partecipazione è dunque il filo conduttore delle esperienze di arte pubblica dagli anni Settanta all’attuale epoca della rete. Ma di quale tipo di partecipazione si tratta? L’autrice mette in guardia da uno sguardo di superficie e ci invita a osservare meglio, giacché la collaborazione, l’adesione, la condivisione “tout court” non sono condizioni necessarie e sufficienti ad assicurare il senso e il valore di un’iniziativa. “La partecipazione è sempre un mezzo e non un fine”, afferma e ribadisce che questa ha senso se va oltre la semplice spinta ad esprimere un desiderio o a fare delle cose, poiché: “La partecipazione è inesistente o illusoria se non produce uno spazio comune discorsivo in cui le persone si assumono la responsabilità delle scelte, sapendo che hanno effetto sulla collettività”.