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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Una lettura della contemporaneità attraverso tre mostre romane: L’età dell’angoscia ai Musei Capitolini. Henry Moore alle Terme di Diocleziano. La forza delle rovine a Palazzo Altemps

Brunella Velardi

Un’inquietudine proteiforme ma palpabile serpeggia tra le vie della capitale in questi tempi decisamente oscuri, e si manifesta in luoghi e modi in parte inaspettati. Il mondo della cultura, più o meno consapevolmente, narra il proprio assistere a un’epoca di scandali, in cui vengono a galla inganni e saccheggi perpetrati per decenni. Nell’ultimo anno Roma ha sollevato le sue bende rivelando ferite putride, nidi di feste per batteri, come prima Napoli aveva tristemente dissotterrato rifiuti tossici dai campi coltivati della Campania felix.

Forse, in fondo, dell’immagine di città in declino Roma non si è mai liberata, e gli onnipresenti e sempiterni resti della caput mundi non l’hanno aiutata a farlo. È probabilmente per questo che, per esorcizzare i propri mali, oggi più che mai sintomo di quelli assai più grandi della società occidentale, sceglie di metterli a nudo nella schiacciante, ma anche rassicurante cornice delle spoglia del proprio passato. L’archeologia diviene allora veicolo per raccontare la sofferenza del presente e per rintracciarne una continuità, come a confortarci ricordando che la storia è fatta di corsi e ricorsi.

Così, negli ultimi dodici mesi, da L’età dell’angoscia ai Musei Capitolini agli shelter drawings di Henry Moore alle Terme di Diocleziano a La forza delle rovine a Palazzo Altemps, Roma parla e fa parlare di sé e del mondo ancora una volta attraverso l’arte.

Mostra per certi aspetti romantica, per certi altri neorealista, quest’ultima. Di certo spiazzante. Una riflessione sul tema del crollo, della distruzione, delle macerie, lunga venti secoli, in luogo dell’infinito, meticoloso lavoro, com’è quello dell’archeologo, vòlto a estirpare i resti del passato dallo status di rappresentanti di una decadenza e di una fine, e a restituirli alla loro storia, dimostrando che essa ancora vive nel nostro tempo. Da questo punto di vista scardina le nostre certezze fino a diventare decostruttivista, sgretolando la nostra abituale percezione del frammento contro ogni umano impulso di conservazione. Se istintivamente – e fisiologicamente (1) – saremmo portati a ricondurre la parte a un tutto, l’incompleto a un intero, e di un brandello cercheremmo quelli contigui per ricomporne l’immagine, le rovine “accumulate” dai curatori dilatano i confini della disgregazione fino a farceli apparire totalizzanti, incommensurabili, fino a rischiare che quella memoria di vicende lontane e recenti, la cui preservazione è il fine ultimo della ricerca storica, rimanga ai nostri occhi irrimediabilmente mutila, in grado di rivivere solo nelle altre rovine che verranno.

La trasversalità del racconto, che spazia dall’antichità alla contemporaneità occidentali con un’irruzione nell’oriente islamico, e attraversa i più vari linguaggi dell’arte, dalla pittura al cinema, dalla fotografia alla musica, dalla scultura alla letteratura, dissolvendosi poi nella collezione permanente del museo, gioca ad accentuare la crepa come in una polifonia discordante, facendo dell’eterogeneità disintegrazione. E a poco vale la bellezza, fieramente intrisa di una malinconia che non lascia spazio a spiragli di rinascita, ma semmai alla certezza – incrollabile, questa sì – di nuove rovine.

Nulla a che vedere con la sfacciata bellezza dei ritratti colmi di pathos e degli intricati e nodosi rilievi capitolini che rivendicano tutta la loro forza innovativa in un’epoca, il III secolo, che, etichettata come decadente dalla storiografia, si rivela invece ricca di fermenti e trasformazioni, caratterizzata da un naturalismo dai tratti espressionisti nell’arte e dall’avanzata nei confini dell’impero di popoli dalla cultura e dalla religione diverse; un’epoca, insomma, in realtà molto più vicina a noi di quella descritta a Palazzo Altemps, forse incatenata a suggestioni novecentesche.

E come nell’angoscia risiede il germe del rinnovamento, e dunque l’energia creatrice, nei disegni con cui Moore documentava la condizione delle famiglie rifugiate nelle gallerie della metropolitana londinese al riparo dai bombardamenti tedeschi si rintraccia la necessità di scorgere la profonda umanità di quelle scene, che sta nella inevitabile condivisione del dramma. Tra i rifugi l’artista ritrovava la continuità con la propria ricerca, nelle reclining figures e nel tema della madre col bambino, sempre legato, come quello dell’osmotico rapporto tra interno ed esterno, cavo e convesso, al vitalismo organicista. Così, piuttosto che contemplare mestamente i detriti della guerra, Moore disegna forme in cui «i dettagli sono sacrificati per cogliere con maggiore efficacia, attraverso l’evidenza plastica delle figure nei loro rapporti reciproci e con lo spazio intorno, la tensione di una condizione condivisa»(2), «per non cadere nell’aneddoto, nella minuzia, nell’effetto, e per ridurre figure e sentimenti e situazioni a pochi tratti essenziali e tragici»(3), riuscendo a «vedere attraverso la moltitudine dolorosa di Londra, l’umanità intera»(4). Allo stesso tempo, il guerriero mutilato che solitario continua a brandire con orgoglio lo scudo, sembra guadagnarci tempo perché possiamo riconoscere, accanto alle solidali sagome nei rifugi, quattro pezzi di una figura distesa che ci raccomanda, con le parole di un’altra figura distesa in un mosaico alle sue spalle: gnoti seautòn. Rovine entrambe, che ci suggeriscono di guardare, prima ancora che indietro, e ad esse, dentro di noi.

Ritroviamo qui, allora, il senso più profondo del frammento, «testimonianza tangibile non solo di un defunto mondo antico ma anche del suo intermittente e ritmico ridestarsi a nuova vita. […] In altre civiltà domina il pathos della tradizione di cui si è portatori; nella nostra, il pathos delle rovine, di una frattura irreparabile che è necessario sanare: rinascere, insomma, come condizione indispensabile della tradizione e della memoria»(5).

1 Cfr. S. Zeki, The neurology of ambiguity, 2004, trad. it. Neurologia dell’ambiguità, in G. Lucignani, A. Pinotti, Immagini della mente. Neuroscienze, arte, filosofia, Raffaello Cortina, 2007, pp. 83-119.

2 A. Negri, Londra sotterranea, in C. Stephens, D. Colombo (a cura di), Henry Moore, Catalogo della mostra, Roma, Museo delle Terme di Diocleziano, 24 settembre 2015 – 10 gennaio 2016, Electa, 2015, p. 24.

3 A. Moravia cit. in A. Negri, op. cit., p. 25.

4 Ibidem

5 S. Settis, Futuro del “classico”, Einaudi, 2004, pp. 84, 91.