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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Dall’Azerbaijan alla recente mostra “Points of Perception” ospitata al MACRO

Teresa Lucia Cicciarella

Il concetto di “modernità liquida” ha preso campo nel pensiero occidentale sullo scorcio del secolo scorso e sul nascere del Duemila, assestandosi, come noto, nell’autorevole firma di Zygmunt Bauman, sociologo e filosofo polacco, attento osservatore dei movimenti del presente e dei flussi che attraversano diversi gruppi sociali, i loro modi di vivere e i sistemi di valori. L’idea di precarietà (paradossalmente) costitutiva, di costante modifica in divenire –come analizzata da Bauman– trova evidente riscontro nell’arte degli ultimi decenni e nell’espressione artistica di quanti hanno inteso rispecchiare nella propria opera l’ibrido, il mutevole, l’instabile, accostando linguaggi e forme espressive distanti tra loro e collocandosi spesso, in tal senso, sulla scia tracciata dalle avanguardie del primo e del secondo Novecento.

Ancora la modernità o, circoscrivendo, la società “liquida” amplia –come sottolineato da Umberto Eco– certe spinte linguistiche del Postmoderno che “si è dedicato a una rivisitazione ludica o ironica del passato, e in vari modi si è intersecato con le pulsioni nichilistiche”(1).Ciò si compie, probabilmente, nella misura in cui la modernità si confronta con l’autorevolezza del passato senza, tuttavia, sentirsene imbrigliata o, altrimenti, nella misura in cui riconosce che dal passato non può più trarre un modello valido per interpretare l’oggi, se non individuandone in modo particolare sovvertimenti e differenze.

A tale riguardo, si vuole approdare ad alcune riflessioni sulla mostra “Points of Perception”, prima personale italiana di Faig Ahmed (Baku 1982) in ambito museale, di recente chiusasi al MACRO Testaccio e interamente incentrata sui contrasti di pensiero e di estetica individuati da coppie di termini quali modernità/tradizione, forma chiusa/forma aperta, oggetto/spirito. Coppie che, potrebbe dirsi, rispecchiano problematicamente anche la natura storico-culturale dell’Azerbaijan, luogo natale dell’artista, Paese al limite tra Europa e Asia, tra Caucaso e Medioriente.

La mostra del MACRO è stata curata da Claudio Libero Pisano e il percorso espositivo si è snodato attraverso un contenuto ma significativo nucleo di opere: “carpet works”, installazioni video, installazioni ambientali.

Il linguaggio del giovane artista azero guarda al fulcro della tradizione della sua terra, attingendo alle forme decorative più solide –quelle legate al tappeto, alla tessitura e all’ornamento– per sfaldarne i margini, per disancorarle dalla stabilità del riferimento al passato che è patrimonio, espressione e vissuto di un popolo ma che rischia, talora, di rivelarsi uno spesso argine alla modernità e al rinnovamento linguistico. Già su simili presupposti si era strutturato un intervento di Ahmed concepito nel 2012 (Untitled) e riproposto l’anno successivo per la mostra “Love me Love me Not” (Yarat Contemporary Art Space Pavilion, evento collaterale alla Biennale di Venezia 2013). Si trattava di una delicata “proiezione” del ricamo azero, estesa e sviluppata verso la tridimensionalità: un doppio intervento d’ingrandimento e dislocazione aveva condotto un classico decoro ricamato fino alle grandi dimensioni e a un suggestivo intervento parietale, connotato da fili policromi in parte aderenti al muro, dunque staccati a creare tensioni geometriche e propaggini spaziali, pronte a invadere l’ambiente dell’esposizione.

Nella recente mostra romana il campo di riferimento si è allargato, in accordo con una più matura poetica autoriale, ma traendo ancora l’avvio dalla tessitura: il rituale meccanismo ha rimandato Ahmed alla spiritualità dei sufi, e così la ripetizione, cadenzata e ossessiva, degli elementi decorativi che compongono pattern di perfetta bellezza che, improvvisamente, si effondono nello spazio generando flussi di colore e segni. Il misticismo che sostanzia il Sufismo, è stato così assunto dall’artista quale metafora e richiamo ideale per un lavoro liminare tra realtà oggettiva e percezione della forma, tra finito e infinito, laddove si evidenzia l’aprirsi del limite concreto dell’opera fin verso la dimensione fisica, quasi tattile, dello spettatore.

Nei “carpet works”, elaborati tappeti fissati alle pareti, Ahmed espande i margini del tessuto in direzione di una tridimensionalità suggerita e inaspettata: partendo dal dato della tradizione, dal pattern geometrico-floreale, utilizza il computer per analizzare le sequenze decorative e forzarne i confini, inserendo larghe porzioni nelle quali il decoro diviene mescolanza di fili di colore e trame, vortice di segno. Così il tappeto “precipita”, pesante, al suolo (è il caso di Liquid, 2014) o diversamente si eleva, con aerea levità, in direzione degli spazi circostanti (Outflow, 2014).

Il lavoro è eseguito da artigiani specializzati, nella terra d’origine dove Ahmed, del resto, tuttora risiede.

Il percorso espositivo al MACRO è culminato in un’installazione ambientale nella quale si è compiuta l’amalgama tra suolo e parete, tra dimensione terrestre e aerea: si tratta di Wave (2016), intervento site-specific che ha espanso il tappeto della preghiera islamica fino a creare un’alta onda che, arrivando a sfiorare il soffitto, genera tutt’intorno ombre che rimandano da vicino alla decorazione a traforo e ai giochi di luce della cultura islamica.

In un testo a firma di Ahmed, riportato nel suo website personale, si legge come l’artista consideri gli antichi pattern le basi di un linguaggio da tradurre –ciascuno nel proprio idioma– in modo da poter generare nuovi significati ed espressioni vicine alla sensibilità contemporanea. Ben lungi dall’essere struttura conchiusa, in effetti, il vocabolario dell’ornamento studiato da Ahmed si può considerare forma aperta, rinnovata, partecipe dell’incessante flusso dei pensieri e delle cose: parafrasando lo stesso artista, Omnia mutantur, nihil interit. La formula ovidiana, del resto, è stata recentemente ripresa per dare il titolo a una raffinata mostra disposta da Ahmed presso la galleria Montoro 12 Contemporary art di Roma (2015).

1) U. Eco, La società liquida in “L’Espresso” (rubrica “La Bustina di Minerva”), 29 maggio 2015.