www.unclosed.eu

arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

REPORTING FROM THE FRONT

La 15. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia

Daniela De Dominicis

Dopo la pausa di riflessione imposta da Rem Koolhaas con la Biennale del 2014 dedicata agli elementi fondanti del costruire, la mostra veneziana con l’edizione 2016 riprende il suo corso sperimentale spingendosi nei territori più spinosi e scomodi del contemporaneo. Il curatore è il cileno Alejandro Aravena, sbarcato in laguna appena coronato dal Pritzker Prize, attribuitogli non tanto per le architetture costruite (per es. l’ Innovation Center per l’Università Cattolica di Santiago del Cile) quanto per l’inedita modalità con cui ha promosso la realizzazione di alloggi popolari, il sistema ELEMENT, che consiste nel consegnare solo metà casa, lasciando poi all’occupante la libera costruzione del resto. A Quinta Monroy a Iquique in Cile con un budget per 30 alloggi ne sono stati consegnati 93 (Olivier Namias, “Le Monde diplomatique”, marzo 2016).

Aravena ha individuato quattordici tematiche sulle quali gli ottantotto studi di architettura invitati alla mostra si sono confrontati. Nell’ordine in cui egli stesso le ha indicate sono: disuguaglianza, sostenibilità, traffico, rifiuti, criminalità, inquinamento, comunità, migrazione, segregazione, disastri naturali, informalità, periferie, abitazioni, qualità della vita.

Possono certamente essere definite tematiche prevedibili e banali, come qualcuno ha fatto, ma ciò non diminuisce il loro essere urgenti e ubiquitarie. Argomenti cogenti sui quali si scontrano poteri molteplici – politici, economici, ambientali, sociali – territori di scelte importanti e decisive, di frontiera, come recita il titolo scritto tutto a lettere maiuscole.

Semplice ma eloquente è l’icona della biennale: la foto scattata da Bruce Chatwin a Madame Reiche. Nell’immagine l’archeologa è inerpicata sulla sua scala di alluminio per poter decifrare dall’alto le linee di Nazca percepibili da terra solo come tracce insignificanti. Come dire che le sfide si vincono con inventiva e inediti punti di vista e si perdono solo per la propria inadeguatezza e l’incapacità di leggerle attraverso la giusta modalità. La mostra vuole essere il luogo della condivisione di queste ricerche, quelle in cui – citando le parole di Aravena – “l’architettura ha fatto, fa e farà la differenza” (cfr. cat. pag.21).

La mostra del curatore si articola nel Padiglione centrale ai Giardini e prosegue all’Arsenale senza soluzione di continuità. In entrambe le sedi si è accolti da un’installazione suggestiva ottenuta ostentando ciò che resta della precedente biennale: 10 mila m2 di cartongesso e 14 km di profilati metallici, impilati i primi a creare un muro avvolgente, i secondi sospesi al soffitto come una minacciosa nuvola incombente. Completano il quadro d’insieme la carta utilizzata per gli scambi epistolari con gli espositori, gli schemi delle installazioni nonché i post-it con gli appunti volanti. Il tema dei rifiuti sembra essere diventato uno degli incubi contemporanei e anche attività intellettuali ne producono in quantità abnorme, come appunto la Biennale. Su questo argomento si è prodigata la pluriennale attività degli spagnoli Batlle i Roig Arquitectes nonché il giovanissimo polacco Hugon Kowalski, entrambi presenti con importanti e complesse installazioni documentative.

Esaminando la mostra nel suo complesso, due sono le considerazioni emergenti.

La prima è che ci si trova di fronte per lo più ad architetti anonimi o scarsamente conosciuti, il 30% sotto i quarant’anni. Pochi sono quelli di fama e in questo caso sono qui in ragione di studi condotti su tematiche inerenti. Renzo Piano per esempio è stato invitato per il suo G124, il gruppo di lavoro da lui fondato per la riqualificazione delle periferie, “le città del futuro” come ama definirle.

La seconda è che l’architettura sembra aver abdicato alle sue capacità progettuali e stilistiche tradizionalmente intese, l’idea emergente è quella di una disciplina che lavora su interventi lievi, mobili, reversibili; un’architettura che ricuce ciò che si è scomposto e slabbrato e che lavora sugli spazi interstiziali.

Al padiglione centrale, per esempio, si è accolti dalla spettacolare volta parabolica realizzata in mattoni e manodopera non qualificata, progettata dal paraguaiano Solano Benítez come struttura di accoglienza a basso costo ma di affascinante impatto visivo. Ancora sulle emergenze e la transitorietà merita la segnalazione il lavoro del tedesco Manuel Hertz in collaborazione con The National Union of Sahrawi Women nel Sahara occidentale, in particolare nel campo profughi algerino di El Aaiún. I campi di accoglienza rispondono per definizione e statuto internazionale a criteri di urgenza temporanea e non possono quindi risolversi con unità permanenti (anche se di fatto questa temporaneità ha una durata media di 17 anni!). Ad El Aaiún è stato sperimentato un villaggio di fango, materiale in linea con l’architettura del luogo e quindi per tradizione associato ad insediamenti stabili e al contempo reversibile e quindi in sintonia con le normative internazionali: il campo viene vissuto dai suoi ospiti come una città di fondazione, in grado di innescare un senso di appartenenza e di identità. Hertz lavora da anni sugli insediamenti di questo popolo cacciato nel ’75 dalle proprie terre ad opera del Governo del Marocco che, per l’occasione, ha vivacemente protestato contro il riaccendersi dei riflettori su questa tematica.

Tra gli studi più interessanti presentati nell’ambito degli insediamenti effimeri è quello condotto da Rahul Mehrotra sulla festa indiana di Kumbh Mela che si svolge ogni dodici anni a Uttar Pradesh. La festa dura tre mesi e richiama in totale diciannove milioni di persone con sette milioni di presenze contemporaneamente. I lavori di preparazione durano due settimane, insistono su 19,4 km2 e puntano soprattutto sulle connessioni viarie con il territorio per garantire lo scorrimento dei flussi umani. I materiali usati, il rapporto tra spazi comuni e quelli individuali, la velocità dell’insediamento e del suo smantellamento all’arrivo delle piogge torrenziali, sono nella globalità ritenuti di estremo interesse per affrontare i temuti fenomeni di inurbamento prossimi venturi, quando nel 2050 si ipotizza che 6,2 miliardi dei 9 che abiteranno il pianeta vivranno nelle città (Laurence C.Smith, The World in 2025, 2010).

L’interesse a riscoprire antiche tecniche costruttive e l’uso di materiali non trattati dall’industria sembra essere un orientamento condiviso da molti architetti. Mantenere la memoria della tradizione viene vissuta come una forma di resistenza alle imposizioni di una economia globalizzata gestita da potentati industriali. Il Pritzker Prize 2012, il cinese Wang Shu presenta un affascinante lavoro di catalogazione di vecchi villaggi cinesi distrutti o in procinto di esserlo per far posto a mediocri e anonime costruzioni in cemento armato. Il suo intervento si presenta con decine di pannelli che documentano le diverse tecniche di incastro del bambù, le scandole colorate di ceramica per le coperture, i pigmenti naturali, le sezioni di muro fatte di sassi, fango, bambù: un inventario minuzioso proposto come una disperata lotta contro l’oblio.

Su questa tematica si inseriscono numerosi studi: i finlandesi Hollmén Reuter Sandman Architects impegnati nei paesi in via di sviluppo; i norvegesi Tyin Tegnestue che si sono appropriati di tecniche e strategie thailandesi; il giapponese Kengo Kuma che lotta contro l’egemonia dei materiali industriali; lo Studio Anna Heringer che in Bangladesh utilizza il fango – pur con tecniche nuove – perché è il materiale più diffuso nel mondo e a costo zero; Simón Vélez che promuove il bambù come l’acciaio vegetale….

Nell’ambito della mostra emerge con evidenza un altro fronte, quello dei micro interventi in grado di recuperare un contesto di degrado e di marginalità. Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, architetto siciliano, ha identificato nella seducente ed icastica lotta della zanzara contro il rinoceronte, l’unica forma di resistenza che può sconfiggere la banalità del quotidiano. Questo piccolo insetto, organizzato in sciame, viene ritenuto l’unico animale in grado paradossalmente di sconfiggere il pachiderma. Così il lavoro capillare dei tanti architetti sparsi sul territorio può essere una risorsa migliorativa di insospettate potenzialità. Le aule all’aperto di Elton e Léniz sulle Ande sono un presidio di civiltà in un contesto di totale degrado; il lavoro di LAN (Local Architecture Network) in Francia rivisita e riqualifica le contestate città-palazzo delle periferie; le costruzioni di Bel Sozietät Für Architektur di Berlino si dimostrano flessibili in funzione della cultura di chi le abita; la biblioteca di Giancarlo Mazzanti a Medellin in Colombia, offre una possibilità di riscatto ad una terra vessata dai trafficanti di droga. La bellezza come alternativa dunque, come via d’uscita dalla “banalità del male”.

Al contempo tuttavia la bellezza può trasformarsi in un esercizio di stile e perdere la sua capacità di incidere sulla realtà. È questo il caso della proposta di alcuni architetti che sembra essere fuori registro rispetto al resto della Biennale come per esempio lo studio della luce nelle maquette di Aires Mateus o i volumi-sculture dello svizzero Raphael Zuber così come il grande plastico di Venezia con la Punta della Dogana rivisitata da Tadao Ando, una declinazione di scarsa pertinenza.

Infine i padiglioni nazionali, quest’anno 62, con l’esordio in laguna di Filippine, Lituania, Nigeria, Seychelles e Yemen.

Sul tema delle migrazioni si misurano diversi stati: Austria (Places for People, curato da Delugan Meissl), Grecia (#ThisIsACo-op, curato da SADAS-PEA) nonché la Germania (Making Heimat, facendo patria, curato da Oliver Elser) con uno spettacolare padiglione che arriva a demolire tutti i suoi muri perimetrali a creare una vera e propria area di accoglienza aperta a tutti gli attraversamenti.

Gli Stati Uniti (The Architectural Imagination, curato da Cynthia Davidson e Monica Ponce de Leon) si concentrano con grande profusione di mezzi sui possibili recuperi di Detroit, già città dell’industria automobilistica, oggi inquietante città fantasma.

Il Giappone (en: art of nexus curato da Yoshiyuki Yamana) indaga un interessante punto di vista dell’abitare con l’architettura dell’en, cioè le parti comuni, le aree partecipate, luogo d’incontro, di scambio, di pensiero. Deludente il padiglione italiano (Taking Care, curato da TAMassociati) che ha invitato cinque studi di architetti – in collaborazione con altrettante associazioni – ad elaborare “dispositivi” di intervento per contrastare la marginalità sul territorio. Tra i progetti: una piccola biblioteca nomade, un presidio a tutela dei beni confiscati alla mafia, un’unità sanitaria mobile……deludenti sia nella povertà dei contenuti che nell’allestimento di difficile fruizione.

Numerosi infine gli eventi collaterali. Tra questi merita di essere segnalato il focus sulle trasformazioni urbane degli ultimi venticinque anni, Report from Cities: Conflicts of an Urban Age a cura di Richy Burdett, ospitato presso la Sala d’Armi dell’Arsenale. Questa rassegna è in preparazione di Habitat III che si terrà a Quito ad ottobre, la conferenza delle Nazioni Unite che ha luogo ogni venti anni e che sarà dedicata allo sviluppo urbano sostenibile.

Nel complesso una Biennale piena di suggestioni, ricca di proposte. Una Biennale che sembra segnare soprattutto il definitivo tramonto in architettura del pensiero unico di marca occidentale e che apre viceversa un dialogo alla pari con tutte le realtà presenti sul pianeta.