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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Orizzonti artistici diagonali nell’edizione zurighese di Manifesta

 

Patrizia Mania

 

Quanto è ricca Zurigo? Forse “troppo ricca” e che sia questa la convinzione prevalente ce lo confermano i sistematici ricorsi all’espressione “Zürich=zu reich”, un gioco di parole, all’origine maturato in seno a movimenti di protesta, che ne riassume bene la dimensione.D’altra parte, per avere un’immediata percezione del suo tessuto economico sociale basterebbe osservare che il reddito medio annuale di un abitante zurighese supera i 63.000 euro (1).Tematizzare allora il denaro insieme alla nozione di eccesso, e quello che, e quanto si fa per i soldi, non solo non appare affatto arbitrario ma sembrerebbe proprio il requisito irrinunciabile per avvicinare il profilo di questa città, quanto meno quello di chi la abita. Da questa angolatura, riflettere sulla condizione identitaria dei suoi cittadini è la prima ragion d’essere dell’undicesima edizione di Manifesta –la biennale europea per eccellenza- dal titolo eloquente “What People do for Money”(2). C’è poi un motivo che rende suadente la scelta di Zurigo come sede di questa edizione, e risiede in un argomento storico-celebrativo visto che proprio quest’anno ricorre il centenario della fondazione di Dada e del Cabaret Voltaire, benché la strada che si è scelto di percorrere non sia stata quella della ricostruzione storiografica quanto piuttosto, potremmo dire in pieno spirito dada, quella dell’allestimento di una festa, o di un’anti-festa, impertinente e chiassosa, e, per certi versi, di un inno alla trasgressione. Nella sede storica del Cabaret Voltaire il “metodo” delle joint ventures -seguito pragmaticamente nella realizzazione di tutte le opere in mostra- è applicato nella condizione imposta per accedervi: sottomettere il progetto di una propria Joint Venture Performance (costituita da un minimo di due componenti) e divenire così membro dell’associazione degli artisti. Partendo da questi preliminari, l’aver ordito la trama di una mostra diffusa tra quattro sedi principali ed una miriade di “satelliti” che si dispiegano su tutta la sua estensione urbana attesta di un ulteriore intento: quello di favorire al visitatore un’immersione nella città attraverso le sue dinamiche produttive, speculative, ma anche, è lecito aggiungere, di dispendio improduttivo(3). Dunque proprio la città, i suoi abitanti, il loro lavoro e i profitti che ne derivano, o non ne derivano, reificati dall’intervento artistico sono i parametri di riferimento di questa mostra la cui cura è stata affidata all’artista Christian Jankowski.

Non è la prima volta che la cura di una rassegna di arte contemporanea viene assegnata ad un artista e come nella tradizione si è privilegiato nel rapporto con gli altri artisti la falsariga di una condivisione non stilistica o sistemica ma poetica. Come si accennava, il filo rosso che ha disegnato questa mostra, che, è bene specificarlo subito, non è una raccolta di opere prestate allo scopo ma una raccolta di opere realizzate per lo scopo, è nella richiesta rivolta da Jankowski a trenta artisti di costruire delle joint ventures con delle specifiche professionalità della città. Ed è propriamente in questo gioco di scambio, di progettazione e di realizzazione delle joint ventures che risiede il meccanismo di funzionamento di Manifesta 11. Il risultato finale, la “macchina” messa in opera, e messa in scena nelle quattro sedi principali, non basta però da sola a restituire la totalità di significato visto che la procedura seguita è una componente altrettanto imprescindibile e niente affatto sussidiaria. L’opera, il lavoro per l’opera e il suo diverso declinarsi site specific si propongono come due facce della stessa medaglia, in cui nessuna delle due prende il sopravvento sull’altra, ma si offre piuttosto come un’entità bicefala in cui ciascuna delle “teste” è dislocata in luoghi differenti e distanti tra loro ma idealmente e specularmente connessi l’uno all’altro. Per essere ancora più chiari, nelle sedi principali nelle quali si assolve al compito di allestire il percorso complessivo si presentano delle opere che a loro volta richiamano ad altre opere dei medesimi artisti distribuite nelle sedi satellite e documentate sulla platform di legno che galleggierà per tutta la durata di Manifesta sul lago di Zurigo. Qui lunghi documentari video forniscono un reportage sulle modalità e gli interrogativi che hanno reso possibile il costituirsi delle joint ventures e quel che ne è conseguito.

L’ouverture di questo viaggio nel contemporaneo dell’arte e del denaro è affidata, nella sede del Löwenbräukunst, ad un frammento di Solaris un film ipnotico e fantascientifico girato da Andrej Tarkovskij nel 1972 (Fig.3) la cui location è un pianeta immaginario -da cui prende nome il film-. Qui gli astronauti sono alle prese con gli “ospiti” del proprio passato che si materializzano in proiezioni della loro memoria e del loro inconscio, e il frammento estratto per introdurre l’esposizione riconduce all’arte nella veduta del celebre quadro di Peter Brueghel il Vecchio “Cacciatori sulla neve”, un olio su tela del 1565 che viene in tal modo offerto come preludio fantascientifico all’incontro in Manifesta tra professioni e artisti. Lo spunto introduce infatti ad altri ritratti di professioni “cacciate” (la metafora dei “cacciatori” di Brueghel) o intercettate e rese materiali come provenissero da un altro pianeta su un binario oscillante tra il possibile e l’inverosimile. Un esempio eloquente è quello messo in scena da Fermin Jiménez Landa che ha coinvolto in collegamento diretto e in tempo reale per tutta la durata di Manifesta una stazione di previsione meteo locale affinché fornisca un aggiornamento costante sulle previsioni e possa quindi in collegamento TV offrire spunti di riflessione sul tempo previsto e il livello di probabilità che sistematicamente entra in gioco in questo tipo di proiezioni a breve e a lungo termine (Fig.4). Le aporie delle aspettative contemporanee intorno alle previsioni meteorologiche e al loro coefficiente di attendibilità divengono così una suggestiva ed efficace metafora dell’intreccio tra scienza e fantascienza, configurandone la centralità del ruolo. In una direzione ancora più radicale, tesa a rendere immaginabile l’impossibile e poterne fare esperienza, si colloca l’intervento di Maurizio Cattelan che, dopo aver annunciato qualche tempo fa l’intenzione di abbandonare l’arte, ne sigla il ritorno con un coup de foudre miracolistico consentendo ad un’atleta disabile in carrozzella di camminare sulle acque del lago di Zurigo (Fig.5). Non si sa quando, non essendovi eventi pubblicizzati, si possa incorrere nella ventura di trovarsi lì al momento giusto e potervi assistere. Quel che conta sembrerebbe piuttosto essere l’idea in sé che possa avvenire. Solo a pochi eletti viene regalata infatti l’opportunità di prendere parte al miracolo di vedere una carrozzella camminare sulle acque. Ma al di là di alcuni dispositivi più o meno d’effetto, la nozione dello straordinario sembrerebbe riflettersi soprattutto nelle molteplici sfumature delle joint ventures proposte. Si veda come sul tema della trascendenza, declinata in una joint venture ideata con il pastore della Grossmünster, l’artista russo Evgeny Antufiev abbia allestito il suo Eternal Garden nella centralissima Wasserkirche, una chiesa svizzera riformata, sotto la cui abside campeggia sospesa una grande farfalla posta lì a sostituire l’icona del santo, a prendere il posto di Cristo e propagare il suo senso e quello articolato nei suoi vari simbolismi nelle bacheche e negli spazi che corrono lungo le pareti laterali della chiesa (Fig.6). Cosicché di satellite in satellite, di opera in opera, ci si persuade che l’aspetto détournante di questa mostra stia propriamente nell’aver disinnescato l’ordinaria percezione della dimensione del lavoro introducendovi attraverso l’intervento artistico uno scarto straordinario, trascendente. Appaiono in tal senso appropriati e assolutamente coerenti i numerosi lavori che prendono le mosse da professioni e professionisti caratteristici dell’indotto zurighese con i quali gli artisti hanno costruito joint ventures all’insegna di questa possibilità. Colpisce molto, soprattutto nella location satellitare, il lavoro di Torbiøn Rødlan Intra & Extraoral nato dalla collaborazione con uno studio dentistico, dove lo sguardo attento dell’artista cattura e stravolge in immagini di inquietante disturbo frammenti di protesi mescolate a frammenti di cibo, materia prima cui sono funzionali (Fig.7). Ma anche il prototipo arancione di copri spalla asimmetrico, creato da Franz Erhard Walther in joint venture con una ditta di design specializzata nella sperimentazione tessile, rimanda nella forma astrattizzante e minimalista al costume di Hugo Ball per Karawane attivando un efficace feedback alle performances costumistiche a cui dà vita in un hotel d’affari com’è la sua location satellitare: l’hotel Park Hyatt (Figg.8-9).

Tra i lavori per l’arte e sull’arte un posto di primo piano va certamente riconosciuto alle attività volte alla sua conservazione, restauro, valorizzazione e promozione. Delle tante accezioni non mancano in mostra riflessioni che le contemplino. Come un detective, Asli Çavuşoğlu è andata alla ricerca delle tracce nascoste di un’ immaginaria città dal nome di “Mu”, facendosi guidare da indizi svelati dalle radiografie a cui sono state sottoposte alcune pitture di paesaggio svizzero preesistenti e con l’ausilio di un restauratore di professione ne ha voluto restituire le vestigia. Come a negare il “pentimento” a suo tempo cancellato e dissotterrarlo per dare immagine ed epifania ad un luogo (Figg.10-11). Alla ricerca di un monumento da nominare si è mossa invece Jiri Thýn che ne è andata perlustrando la possibilità nelle pieghe autoptiche dell’immagine, appropriandosi, in una joint venture condivisa, degli strumenti di indagine che presiedono all’attività autoptica medica - comprese le ipotesi scandagliate nell’esame che precede l’autopsia vera e propria- cercando di individuare le ragioni della morte. Sottile gioco di specularità semantiche che finisce inesorabilmente per rinviare alla lezione di anatomia di rembrandtiana memoria (Fig.12). Lavorare per conservare un monumento e metterlo in sicurezza nell’ipotesi di doverlo salvaguardare in caso di guerra è stato invece il concept di Santiago Sierra che ha lavorato ad un progetto di protezione della Helmaus supportato da una ditta specializzata nell’assicurazione della protezione e sicurezza edilizia. Così i tanti sacchi di sabbia posti all’ingresso della Helmaus non ci costringono solo a rinunciare all’areato atrio d’accesso ma ci si presentano e ci allertano sulla sua vulnerabilità come una crisalide protettiva di densa seduzione (Fig.13). Quando si dice arte contemporanea, si dice anche sistema di pensiero e di lavoro, e a questo complesso sistema relazionale ha dedicato il suo lavoro Pablo Helguera. Immagini fumettistiche accompagnate da frasi e interrogativi che con schietta ironia mettono a nudo sulle pareti della Löwenbräukunst le idiosincrasie di riferimento. E più che straordinari questi siparietti ci appaiono dissacratori e sferzanti (Fig.14). Come del resto, numerosi altri interventi che chiamano in causa più direttamente e senza mezzi termini il coefficiente ordinario del fare e produrre denaro. Gli esempi considerati sono innumerevoli e tra i più bizzarri. Anche in una cornice ipertestuale quale può essere quella di prendersi cura del proprio animale domestico e provvedere ai relativi trattamenti di bellezza come, non senza ironia, invita a fare Guillaume Bijl nell’esercizio commerciale Hundesalon Dolly di Zurigo (Fig.15). O come sull’onda del fictionalisme tenta il video Simply the best di Carles Congost(Fig.16). E ancora nella pantagruelica reiterata somministrazione di cibo etnico e sofisticato a pagamento che rinserra in una morsa di eccesso porno culinario il tracciato della città nelle numerose locations prescelte da John Arnold (Figg.17-18). E l’eccesso è anche l’ossessione compulsiva che ha condotto Andrea Ėva Gyóri a tentare di rappresentare in decine e decine di disegni la figura, o meglio le figure, dell’orgasmo femminile in un orgiastico costituirsi e comporsi e duplicarsi all’infinito le une dalle altre (Figg.19-20). L’interdetto fa la sua comparsa proponendosi anche in chiave di denuncia come nel caso dell’articolata installazione di Teresa Margolles Poker de Damas. Mischiando insieme atroci fatti di cronaca ed una performance documentata da un video, in cui quattro transessuali giocano a poker, il lavoro ha a che vedere con i pregiudizi, le discriminazioni, le violenze (è il caso dell’assassinio di Karlita trovata morta con la testa sfracellata in una pozza di sangue). A lei, in particolare, è, potremmo dire, dedicata l’intera operazione che tratta del denaro legato al meretricio, del lato oscuro del desiderio, e della violenza straordinariamente replicata anche all’interno della Löwenbräukunst con una fenditura su una parete che diviene parte integrante e monumento allo scempio contro le marginalità (Figg.21-22).

L’eccesso, l’ossessione compulsiva, del consumo di merci e dei suoi scarti approda infine nella monumentale installazione The Zurich Load di Mike Bouchet a restituircene il lato più immondo. La raccolta degli escrementi degli abitanti zurighesi di un intero giorno (il 24 marzo 2016) pari a 80000 Kg di materia organica compassata in un’estensione installativa enorme della Löwenbräukunst. Qui l’eccesso, l'osceno, è insopportabilmente sensoriale, respingente, davvero troppo, ma certamente idoneo a rendere concreta l’esperienza delle viscere della città che in ultima istanza proprio le sue deiezioni configurano (Fig.23).

Nel panorama tracciato di questa città percorsa dalle emergenze artistiche, le multiple traiettorie di un’arte investigativa, documentativa, etnografica e performativa delineate, definiscono orizzonti che potremmo azzardare a definire diagonali, attraverso i quali si dispiegano tra denaro, lavoro, eccesso, dispendio e luoghi, il pensiero e la realtà di un’arte il cui divenire si inscrive nel tempo stesso del suo agire e che rispecchia, dilapidandone le nozioni, le aporie della contemporaneità. Giungendo così a palesare il suo senso più sotterraneo ma innegabile: il potenziale sovvertitore dell’arte. Le morse dell’organizzazione economica della società, la mercificazione imperante, la riduzione del linguaggio, del comportamento e delle opere al mero loro valore di scambio trovano per il tramite di queste joint ventures artistiche, una via d’uscita proprio nel recupero degli elementi marginali, residuali, eterogenei dell’esperienza. Rappresentando una possibile alternativa al dominio totalitario dell’economia, della riduzione dell’universo a merce, del dominio del valore di scambio sul valore d’uso, proprio le opere di Manifesta 11 sembrerebbero accordarsi per intero, nella loro insubordinazione produttiva -non servendo sostanzialmente a niente-, alla nozione di sovranità dell’arte di batailliana memoria.

1) Franco Zantonelli, “In Svizzera gli stipendi più ricchi d’Europa: 63.500 euro, italiani doppiati”, in, La Repubblica, 18 luglio 2015. http://www.repubblica.it/economia/2015/07/18/news/in_svizzera_gli_stipendi_piu_ricchi_d_europa_63_500_euro_italiani_doppiati-119262288/.

  1. 2)“What People do for Money”, Manifesta 11, The European Biennial of Contemporary Art, 11.6.2016 – 18.9.2016, Zurich, Switzerland.
  2. 3) cfr. Georges Bataille, “La notion de dépense”, in, La Critique sociale, 1933