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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Simona Antonacci

«In tutti i miei ultimi libri ho scritto: “Nessuna di queste fotografie è stata corretta, modificata o inventata al computer”. È una lotta con il digitale, con il computer, con il Photoshop; strumenti utili per certe cose in pubblicità, di fantasia. Ma è immagine. Non fotografia»(1). Sembra già racchiusa qui la sintesi concettuale del lavoro di Gianni Berengo Gardin, fotografo appartenente a quella generazione di autori che hanno utilizzato la fotografia come strumento non solo per testimoniare, ma anche per “pensare” il mondo.

Ligure di nascita (Santa Margherita Ligure nel 1930), si considera veneziano «sia di carattere che di cuore»(2). Dopo l’iniziale sperimentazione a Roma è infatti a Venezia che Berengo “nasce” come fotografo, utilizzando la macchina a soffietto che, durante la guerra, era stata sequestrata dai tedeschi. La Venezia che vive Berengo Gardin, e che testimonia con tante immagini, è la città in cui è attivo il circolo de La Gondola e in cui opera un autore che tra i primi sperimenta un modo lieve di posare lo sguardo sul paesaggio, fuori dallo stereotipo, Paolo Monti. Grazie ai libri della Farm Security Administration inviati dallo zio americano, Berengo Gardin scopre un approccio al fotografare che, come in molti altri autori della sua generazione, influenzerà un’intera vita: capisce di non voler diventare un artista ma «uno che racconta»(3).

Da questo momento in poi nella sua produzione si assommano narrazioni diverse e dense: dalla fotografia di reportage all’indagine sociale, dalla documentazione di architettura alla descrizione ambientale. Collabora per quasi vent’anni con il Touring Club Italiano e costante è il suo rapporto con il mondo dell’industria (con la Olivetti, ma anche con Alfa Romeo, Fiat, IBM, Italsider) a cui si aggiunge, dal 1979, l’esperienza con Renzo Piano. Nel vastissimo corpus del suo lavoro è determinante poi la produzione editoriale: per nominare solo due tra i numerosi volumi, quello dedicato alla vita degli zingari a Firenze e lo storico Morire di classe, reportage realizzato negli anni Sessanta insieme a Carla Cerati in diversi ospedali psichiatrici, la cui pubblicazione contribuirà in modo decisivo all’approvazione della legge Basaglia.

La mostra Gianni Berengo Gardin. Vera fotografia. Reportage, immagini, incontri, curata da Alessandra Mammì e Alessandra Mauro al Palazzo delle Esposizioni, si dipana attraverso questa varietà di temi e visioni, testimoniati dalle oltre 200 fotografie vintage e arricchita da una selezione di scatti accompagnati dalle parole di amici, intellettuali e colleghi. L’articolazione tematica e cronologica della mostra dà conto della varietà del lavoro di questo author maximus della fotografia italiana, e rivela allo stesso tempo la profonda unità di fondo che sostanzia il suo lavoro. Una unità riconducibile alla fotografia dell’uomo. Dell’uomo “buono” suggerisce il suo caro amico Sebastião Salgado.

Le immagini di Berengo Gardin sembrano potenziare una vocazione implicita e latente della macchina fotografica, quella di agire non tanto come filtro nei confronti della realtà, ma come attivatore di una relazione nei confronti dell’altro. Nel caso di Berengo certamente di una empatia, di un sentire profondo, un desiderio di conoscenza, che va al di là dell’immagine. Anche al di là delle parole dell’autore, che rivendica la natura documentaria del suo scatto.

Quello di Berengo è uno sguardo che accarezza, che posa la mano, e la porge a volte, a colui che guarda. Uno sguardo sovente pudico, a volte sfacciato (come nelle più note immagini di baci degli amanti), uno sguardo che in ogni caso profondamente accoglie e, di più, si nutre della relazione. Senza giudizio di merito, ma per conoscere, comprendere, far proprio.

Benché le sue immagini possano funzionare come icone – una qualità riconducibile alla caparbietà compositiva e tecnica di chi conosce il mestiere, di inquadrare in modo sempre significativo – e nonostante (e forti) di quella capacità di stupire o estasiare (nei giochi di specchi, ad esempio), esse testimoniano in primis il modo in cui Berengo Gardin guarda l’uomo e il suo situarsi rispetto alla realtà che gli sta intorno.

È quanto avviene negli scatti dedicati alle navi da crociera che fanno tappa a Venezia, un progetto del 2013-14. Come cambia la percezione dei veneziani quando una quinta teatrale (un palazzo mobile sull’acqua, un pezzo di struttura urbana) si alza improvvisamente a coprire la consueta veduta del mare? Pur se minoritario nella proporzione dimensionale, protagonista di queste immagini è l’uomo, la sua percezione, il suo stare esteticamente, fisicamente, emotivamente, visivamente in quel paesaggio alterato.

La relazione che abbiamo con i luoghi che abitiamo è testimoniata egregiamente anche dalle fotografie dedicate al mondo del lavoro: l’operaio riposa immerso nelle merci da lui stesso prodotte, facendosi tutt’uno con esse, parte anch’esso di un panorama di oggetti, elemento di una macchina di produzione (produzione economica, di merce, ma anche produzione dell’identità individuale). Siamo quello che lavoriamo, sembrano dire le fotografie di Berengo Gardin.

È lo stesso per gli operai inerpicati su una montagna artificiale di travi e pedane durante la realizzazione dell’aeroporto internazionale di Osaka di Renzo Piano: pezzi della catena, parti integranti del movimento e dell’energia che dà forma alla realtà che ci circonda.

Siamo tutt’uno con il paesaggio che ci accoglie, che produciamo, che trasformiamo. Il paesaggio vissuto, lo spazio abitato, non è sfondo ma parte significante della storia, del racconto, del disegno del sé. Nutre la nostra essenza, il nostro essere nel mondo.

È questa storia che la fotografia di Berengo sembra testimoniare: che guardi al paesaggio della città o a quello rurale, che rappresenti le grandi navi a Venezia o i macchinari imponenti dell’industria, il mondo del lavoro o quello dei celebri architetti, il vero soggetto del suo lavoro è sempre l’uomo e la sua relazione emotiva, psicologica, comportamentale con il mondo intorno.

La storia di una relazione che non la “semplice” immagine, ma solo la “vera” fotografia (quella che non è tagliata, manipolata, inventata a posteriori, suggerisce Berengo), sembra poter raccontare.

1) G. Berengo Gardin, “Diario del Paese Italia. Mezzo secolo di fotografia. dialogo con Goffredo Fofi”, in Gianni Berengo Gardin, Contrasto, Roma 2005, pag. 14.

2) Idem, pag. 7.

3) Idem, pag. 8.