La mostra Emplacement di Miroslaw Balka alla British School a Roma

 

Patrizia Mania

In quale modo e quale posto assegnare alla narrazione delle memorie personali e collettive? Se, non c’è dubbio che siano soprattutto i luoghi a consentirci di tessere le reti di interconnessioni dei fatti e dei loro significati, quello di cui ogni luogo ci parla può seguire traiettorie plurali. Nel corso di una famosa conferenza tenuta il 14 marzo 1967, Michel Foucault trattando dell’insieme di relazioni che definiscono i nostri luoghi del vivere si rivolse in particolare agli “emplacements” dicendosi interessato “parmi tous ces emplacements” soprattutto “sur un mode tel qu’ils suspendent, neutralisent ou inversent l’ensemble des rapports qui se trouvent, par eux, désignés, reflétés ou réfléchis”(1). Proprio Foucault e la sua nozione di “emplacement”, evocata nel titolo che Miroslaw Balka ha voluto dare a questa sua mostra alla British School, ci forniscono la chiave d’accesso ad un percorso di opere tenute insieme essenzialmente dalla capacità di offrire uno sguardo critico, eccentrico e polisemico sulla responsabilità di narrare i luoghi.

Ospitata negli spazi espositivi della British School a Roma per la cura di Marina Engel, la mostra di Balka è un itinerario cadenzato da molteplici lavori che restituiscono ciascuno un frammento della memoria di alcuni luoghi che hanno a che vedere sia con quella personale che con, in particolare, quella di alcune controverse storie di connivenze del modernismo con la Shoah. Su quest’ultimo piano, la ragione profonda della scelta -peraltro sestante di molti dei lavori di Balka- è che quella storia e le sue ricadute nel presente siano da ritenersi l'imprescindibile sostanza del nostro attuale pensiero sul mondo. Simmetricamente ci dicono anche quanto sia di volta in volta necessario assumersi la responsabilità del cosa e del come lo si racconta.

Nell’insieme delle opere in mostra, una delle costanti della riflessione dell’artista -e cioè proprio quale parte destinare alla responsabilità personale e a quella storiografica- si mostra un’occasione in più per misurarne il peso. Se dunque ad essere interrogati sono, intercettati nei loro luoghi specifici, frammenti di memoria (peraltro particolarmente corrispondenti ad un ciclo di eventi e mostre che Marina Engel ha chiamato proprio”Fragments” e che quest'anno sarà dedicato a casi di studio legati alla Polonia e alla Bosnia-Erzegovina)(2) il filo conduttore del percorso sembrerebbe proprio riguardare la responsabilità nel narrarli. I luoghi, infatti, nelle specifiche condizioni in cui si presentano, vengono sapientemente convogliati a riferirci del senso storico al quale non possono sfuggire. E se è vero che gli assortimenti, i rinvii, sono combinati seguendo relazioni proprie all’autore e non universalizzabili sono innegabilmente le proiezioni, i riflessi a restituire la plausibilità del racconto che ci appare, come si diceva, in primo luogo posto all’insegna della responsabilità.

Tra i numerosi, uno dei leit motiv, è, dunque, quello di sottolineare, una certa compromissione delle tendenze moderniste con le forze reazionarie ree di crimini abominevoli contro l’umanità. La contraddizione tra la narrazione del potenziale utopista delle forme architettoniche e del design modernista -dunque di questi luoghi- e il loro deflagarsi nel divenire scenario o identificazione di sistemi di pensiero opposti. Ciò avvalora alcune tesi ormai consolidate che trovano modo di svilupparsi in digressioni su alcuni casi che Balka elegge ad esemplari. In tal senso ad introdurre paradigmaticamente la mostra è il lavoro Modulor/AF/1944 , un disegno a matita su parete che riprende due unità di misura: quella formulata nel 1944 da Le Corbusier alla ricerca di un modello universale che potesse prestare le proporzioni umane all’architettura, il “modulor” appunto, e quella contingente dell’altezza di Anna Frank, “AF”, l’ultima misura della sua altezza segnata nel 1944 su una parete dell’alloggio clandestino dove restarono nascosti Otto ed Edith Frank con le due figlie Margot e Anna fino all’arresto avvenuto appunto nel 1944. Concomitanti nelle date, seppur diversissime negli intenti, le due unità di misura istituiscono un cortocircuito tra le presunte ragioni positive del Modernismo e quelle esistenziali. Un dialogo che sposta immediatamente la riflessione da un lato sul potenziale tradito, quello di un’istanza utopica infrantasi nell’avvallo delle ideologie cui fa da scenario - nel caso di Le Corbusier non solo formale ma anche sostanziale vista l’assodata sua connivenza con l’ideologia nazista- ; dall’altro, sulle condizioni fisiognomiche esistenziali di una traccia di memoria emblematica della narrazione della Shoah. Se è evidente che non si possa tacciare una tendenza formale strutturale, quale è stato il Modernismo, di colpevolezza, altrettanto innegabile è lo sconcerto che deriva nel constatare quanto in alcuni emblematici casi le istanze progressiste e utopiste lì contenute nello slancio verso un mondo migliore si siano venute ad assimilare, quasi paradossalmente, nel loro contrario e anziché farsi carico di energie coerenti con le premesse si siano piegate nel loro opposto. Su un altro piano, il misurare la crescita segnando sulla parete l’avanzare dei centimetri della statura nel tempo, indica il desiderio di ricordare e verificare l’accrescimento nella prospettiva di una vita futura che, nel caso di Anna Frank sappiamo negata dalla furia criminale della persecuzione che a quel progetto di vita pose fine. L’evidente discrasia tra le due misure configura l’epicità sostanziale della poetica di Miroslaw Balka.

Se ne ha conferma nelle altre opere che nella pluralità di linguaggi ci accompagnano in una lettura composita di porzioni di luoghi, appunto emplacements secondo la definizione di Foucault, per scoprire altri e insospettabili reti di relazioni.

Nel lavoro di Balka, i titoli, come eloquentemente palesa quello scelto per la mostra, svolgono un ruolo centrale, nominano l’oggetto o l’immagine e soprattutto ne descrivono il ductus. L’ unica scultura in mostra, 50x50x91 (Pain Relief) del 2012, ci parla anch’essa di misure e nel lato breve in alto del parallelepipedo di cemento, del sollievo evocato da tre pillole di Aspirina ivi incastonate. Se l’Aspirina è certamente l’analgesico più famoso cui si ricorre per alleviare il dolore, il rinvio analogico appare chiaramente indirizzato proprio alla ditta farmaceutica universalmente nota che la produce, la Bayer. Andando a ritroso, in quel tempo che si direbbe aver per Balka forgiato il nostro presente, nel corso degli esperimenti nazisti alla ricerca di armi di distruzione di massa proprio la Bayer mise a punto e produsse il famigerato Zyklon-B, il gas usato per lo sterminio degli ebrei. Per questa e altre ricerche la Bayer fu poi condannata per crimini di guerra ma ancora oggi la sua complicità nel favorire questo capitolo agghiacciante di distruzione non parrebbe essersi espiata e soprattutto sembrerebbe dissolta nella memoria collettiva. Questo monumento all’Aspirina ci parla allora proprio di un silenzio colpevole, di un’amnesia che chiama in causa un'interdizione sommersa che affiora nel disvelamento critico di Balka.

Nella spessa stratificazione di senso cui ciascun lavoro rinvia ricorrono inoltre alcuni simbolismi già in altre occasioni interpellati da Balka. E’ il caso del sale frequentemente impiegato dall’artista e qui schermo di supporto di una proiezione video. Si tratta di Bottom (1999-2003) un video proiettato su un contenitore interamente ricoperto di sale disposto sul pavimento. Qui del sale sembrerebbe volersene assecondare i poli estremi, da un lato il suo potenziale di conservazione , dall'altro, quello di distruzione. Il video che scorre sul contenitore/schermo ci mostra da un insolito punto di vista gli spazi delle docce dei bagni dei campi di concentramento di Majdanek in Polonia. Così le immagini che appaiono in basso e i suoni metallici che le accompagnano generano una sensazione di vertigine al contempo attrattiva e repulsiva, rendendo difficile una ferma contemplazione. Lungo gli interstizi idraulici, l’effetto per certi versi opalescente del percorrimento di questi luoghi, agisce con funzione immersiva.

E un effetto similmente caliginoso produce la neve ripresa in un altro video intitolato B e girato da Balka nel 2006 su un dettaglio di un altro luogo: il campo di concentramento di Auschwitz. Il dettaglio è una lettera, la lettera B, dell’insegna “Arbeit Macht Frei” posta sopra il cancello all’ingresso del campo. Se per alcuni storici lo stile del carattere adottato nella scritta rinvia chiaramente a quello impiegato nella grafica del Bauhaus, un ulteriore elemento di richiamo proprio a quella sua narrazione è dato dal taglio obliquo dal basso verso l’alto della ripresa, facilmente accostabile alla celebre foto di Iwao Yamawaki del 1931 che riproduce la scritta dell’edificio del Bauhaus di Dessau. Una relazione filologica annoda dunque il passato al presente in una compenetrazione di sensi che reitera il motivo della compromissione, suo malgrado, del linguaggio modernista con le aberrazioni storiche.

Più direttamente implicanti invece l’esperienza intima personale dell’artista sono i tre video Nachgesichten del 2013. Si tratta di racconti notturni girati dentro, fuori e intorno al suo studio ad Orwock in Polonia, dove le opalescenze delle riprese non segnano la distanza temporale, l'offuscarsi della visione nel ricordo, ma il metodo di osservazione critica dell'artista. Così le dissolvenze del fumo del suo camino o della luna sopra la sua casa non indicano tanto la rarefazione della memoria, quanto contrastano la pretesa alla sua cristallizzazione lasciando aperta proprio la possibilità di interrogare e interrogarci su questi luoghi, questi «emplacements".

1)Testo della conferenza tenuta al Cercle d’études architecturales, 14 marzo1967: Michel Foucault, “Des Espaces Autres”, in Architecture, Mouvement, Continuité, ottobre 1984, pp.46-49.

2)Marina Engel (a cura di), Fragments Meeting Architecture III. Ciclo di conferenze e mostre, The British School at Rome, 2016/2017.

Ottobre 2016