Sensibile comune. Opere vive. Un esperimento di laboratorio politico alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea di Roma


Patrizia Mania

All’ex GNAM, acronimo di Galleria Nazionale d’Arte Moderna, e oggi Galleria Nazionale d’arte moderna e contemporanea, è andata in scena una mostra, evento, festival che per nove giorni, dal 14 al 22 gennaio, ha affrontato il tema dell’”opera viva” sotto il titolo di “Sensibile comune. Le opere vive”. Incontri, dibattiti, degustazioni, performances, sullo sfondo di un’installazione di opere poste lì a suggerire e a mescolare passato e presente anche in progress in un reciproco interloquire. Proprio e in primo luogo l’impossibilità, peraltro intenzionale, di ricondurre ad una classificazione unitaria e certa l’iniziativa va riconosciuta come il suo portato più sovvertitore. Quello di iscriversi in una aporia significante, ben chiarita sulle pagine del magazine Opere vive dal quale il tutto - o la «cosa" come gli stessi curatori dell'iniziativa ne hanno riferito - ha avuto origine e nel quale si specifica che ambirebbe a “collocarsi in un terreno ulteriore, fatto di sovrapposizioni e di interstizi poco frequentati, lì dove probabilmente ci stanno portando le forme del sapere e le pratiche contemporanee” (1).

L'architettura della proposta è stata articolata in sei sezioni, di cui due, definite “opere all’ennesima” e “opere incurabili”, tese esplicitamente ad instaurare un confronto con alcune opere della collezione della galleria chiamate in causa e poste in interazione con altre opere e con performance; una sezione, “opere in lotta”, indirizzata a discutere del senso e delle potenzialità degli archivi cartacei e anche di un software per la creazione di nuovi archivi a riferirci anche delle idiosincrasie che ci attanagliano nella pretesa all'archiviazione dei dati; un'altra a rendere il processo in tempo reale della realizzazione di opere, denominata “opere in costruzione”; una ancora a dirci dell’etereo nelle proiezioni “opere in fuga”, e infine, le “opere in contemplazione” su pratiche di degustazioni sensoriali. In un fittissimo programma di eventi calendarizzati lungo tutta la sua estensione, fatto di incontri, performances, degustazioni, convegni (dentro e a latere), si sono svolte anche due tavole rotonde a discutere dell’archivio e dell’incurabilità delle opere. Due poli che, potrebbero anche dirci, della memoria e dell'oblio.

Sul piano espositivo, l'assortimento un po’ spaesante delle opere installate è stato fonte di una prima immediata difficoltà: il fruitore si è trovato leggermente spiazzato dalla presenza di didascalie, per così dire, cumulative che, con scarsa fedeltà all’effettiva disposizione geo localizzata delle opere, ne riportavano i titoli e l’anno di esecuzione senza l’attenzione di specificarne anche la tecnica e le dimensioni. Di riferire, insomma, di quei dati classificatori identificativi che in generale ci pare non imbriglino l’opera ma piuttosto concorrano a riconoscerne anche il senso. Cosicché, in mancanza di riferimenti e coordinate certe, al visitatore più curioso si è acceso il desiderio di “giocare” al riconoscimento, stabilire di chi fosse la paternità di questa o quell’opera e carpirne conseguentemente i segreti celati. Intrapresa la caccia all’autore che inevitabilmente ha previsto come punto di partenza gli autori storici, quelli più facilmente riconoscibili - Burri, Duchamp, Pascali, ad esempio - giungeva  per sottrazione ad individuare gli altri. Del resto, proprio in Galleria, ci si è già imbattuti su analoghe difficoltà per la mostra Time is Out of Joint, curata dall’attuale direttrice della galleria, Cristiana Collu.  Al felice scompaginamento della collezione e delle filologie consuete che hanno fatto irruzione con nuovo vitale ossigeno negli spazi della galleria si è affiancata la stessa approssimazione del corredo didascalico che restituisce solo parzialmente i dati delle opere. Diversamente da questa, nel sottoscriverne il modello, il progetto Sensibile comune. Le opere vive a cura di Ilaria Bussoni, Nicolas Martino e Cesare Pietroiusti  lo declina in un contesto in fermento che ci sembra lo renda plausibile e giustificato proprio in virtù di ciò che si è proposto. Opere vive, dunque, ma anche spettatori e coautori vivi invitati ad impiegare le sollecitazioni, gli incontri per ridare forma e contenuto, fluido, precario, circostanziale alle opere stesse. E che la nozione di vita sia perseguita anche nel titolo della prossima Biennale di Venezia Viva Arte Viva curata da Christine Macel rafforza l'idea del perseguimento quasi epocale di una dimensione.

Alcune opere più di altre appartenenti alla collezione della galleria hanno colpito per la loro brutale e per certi versi coraggiosa esibizione. Sopra tutte, ci sono sembrate quelle di Pascali. Scrive Cesare Pietroiusti che “L’opera ‘rotta’ come quella non-finita mette appunto in questione l’ideologia della compiutezza, insieme a quella della fedeltà alla, vera o presunta, intenzione dell’artista. Compiutezza e aderenza al volere dell’artista delineano una cornice ideologica che sostanzia l’operato del museo e lo apparenta al mercato dell’arte. Per diventare merce, cioè per essere scambiata, un’opera deve, infatti, essere definita nel suo inizio e nella sua fine, nella sua sintesi formale e, soprattutto, nell’irreversibile separazione dalle mani e dalle possibilità di intervento del suo autore”(2). Evidentemente così trattando anche del côté politico che è l'alveo nel quale si propone l'intero esperimento. Concomitante e convergente con questa iniziativa è stato infatti lo svolgimento del C17 - la conferenza di Roma sul Comunismo - di cui una parte ospitata proprio e in sinergia con la mostra nella sede della Galleria.

Tornando alle «opere sensibili», sono da restaurare quelle ospitate nella sezione delle «opere incurabili». Ed uno dei presupposti dell'esplorazione su chi debba considerarsi il curatore è quello di pensare lo sguardo dei restauratori come a colui che entrando di necessità nella materialità dell'opera sia da considerarsi il vero curatore dell'opera. Un apparentamento tra «cura critica» e «cura clinica» delineato in un incipit video nella tavola rotonda sulle «opere incurabili"  dall'antropologo di origine marocchina Tarek Elhaik in cui parla proprio di «immagini curabili" rispetto alle quali immaginare nuove forme d'agire politico proprio a partire dal riconoscimento del loro statuto d'incurabilità. Su questa linea, l'incurabilità rende consapevoli di una impossibilità della terapia e quindi di un pensare la cura come «luogo di pratiche» e come, secondo Annarosa Buttarelli sarebbe da considerarsi questa mostra, vero «esperimento di laboratorio politico"(3).

Tornando alle opere incurabili e al potenziale di sensibilità che attivano, uno dei curatori Cesare Pietroiusti, a proposito dello struggente stato di conservazione in cui versa in particolare un’opera di Pascali: La tela di Penelope o Stuoia del 1968 proprietà della Galleria, ha puntualizzato come «l'evidenza della materialità» abbia determinato in lui una «diversa confidenza con l'opera» E, per quanto lo concerne abbia comportato una ridistribuzione della sua sensibilità. Martoriata dal degrado delle pagliette di lana di vetro che la compongono - arrugginite, consunte, polverizzate- l'opera di Pascali impone di fatto un empatico coinvolgimento nella perdita. La sua dissoluzione in corso cui si assiste inerti, la sua entropia, il suo essere irriducibile indistinto relitto implica un sentimento di partecipata commozione. Impossibile restare indifferenti al cospetto di questi frammenti di materia che alludono alla dimensione perduta, tragicamente evocata da ciò che resta della sua forma. La sostanziale perdita dell'aura che ne consegue fa piuttosto affiorare nell'opera un'altra aura, quella di un«destino comune» di una «precarietà» (4)che, in quanto esseri viventi, condividiamo. E un altro esempio eloquente è in tal senso l'opera di Carlo Alfano, Tempi prospettici del 1969, che ci si offre diffusamente aggredita dalle muffe parlandoci così di noi, delle nostre vulnerabilità, delle nostre malattie. L'una e l'altra lasciano affiorare nelle tracce polverizzate del sè e nelle macchie delle alterazioni subite dalla superficie quella discontinuità, quell’interruzione, quella frattura dell'integrità che ci sembra metafora della dimensione altra cui questa collettiva impresa ha dato corpo, configurandosi propriamente non come forma riconoscibile e precostituita ma come processo in corso. In tal senso risulterebbe inappropriato qualsiasi tentativo di irrigidire in formule classificatorie i suoi stessi enunciati che restano dunque, pervicacemente, pura intenzione disattendendo ulteriori e prossime definizioni a declinarsi in forma. In uno stato di perenne concitata interlocuzione, ciascuna delle sezioni, interroga così proprio sui limiti, sui confini che perimetrano le griglie di pensiero.

Ben hanno fatto i curatori a scegliere, quasi in esergo alla mostra, un'opera di Giuseppe Pelizza da Volpedo (4) viste le sensibili attenzionalità rivolte dalla sua pittura al mondo e anche a pensare di proporre e stimolare  alcune compromissioni o “cortocircuitazioni”  degli artisti con il passato dell’arte. Particolarmente efficace in tal senso il dialogo instaurato da un'opera di Elisabetta Benassi (5) con la balla di fieno di Pino Pascali (6). Opera quest'ultima che potremmo dire anch'essa compromessa dal tempo, viste le frantumazioni dei fili d'erba essiccata. Dunque, questa balla di fieno, questo cibo per erbivori, dialoga con una bottiglia di acqua minerale Palmense del Piceno che però è stata rimbottigliata con del vino. Il miracolo biblico della sostituzione dell'acqua con il vino delle nozze di Cana diviene, accostato alla balla di fieno, un bucolico segno di capovolgimento dello status quo. Mette in circuito un possibile gioco di scambi che, vien da pensare, forse avrebbe divertito lo stesso Pascali. Sappiamo che però l'opera sopravvive, suo malgrado, all'autore che l'ha realizzata e in questo dialogo, dove nessuno è più se stesso, se ne coglie un connubio felice in cui è anche difficile misurare chi ne tragga più vantaggio. Su un altro piano, è la proposta del lavoro di Cesare Pietroiusti che ha programmato la trasformazione da parte dello stesso artista dell'opera in corso d'opera. Distribuzione di 400 disegni incompiuti è il titolo di quest'opera della quale lo spettatore può appropriarsi ma che per essere tale, e cioè convalidata come opera d'arte, dovrà essere poi bruciata, quindi distrutta. Un'auto-distruzione che ci parla della precarietà, di una condanna all'eutanasia assistita dell'opera indotta dal suo stesso autore.

Si diceva prima, forse un po' pedantemente, di come l'approssimazione delle didascalie fosse da intendersi come una lacuna. Cogliendo ed entrando nel vivo dei lavori in corso si chiarisce meglio come l'esperienza tessa insieme all'ordito proposto un immaginario sensibile che a ciascuno è demandato di definire poi a suo modo. Sorge allora il dubbio se la didascalia propriamente mancante non sia da riconoscersi proprio in quel portato di vita di relazione difficilmente documentabile se non a condizione di essere restituito alla stessa esperienza del vivere. E che, in definitiva, la forza del laboratorio proposto risieda proprio in questa sfida a proporre al museo una modalità differente di fruizione che parta da una concezione di opera viva in grado di sovvertire gli schemi e di prospettare nuove possibilità di incidenza sul nostro esistere.

 

1) http://operaviva.info/sensibile-comune-le-opere-vive/

2) http://operaviva.info/sensibile-comune-le-opere-vive/

3) Annarosa Bettarelli,  tavola rotonda sulle «opere curabili», 18 gennaio 2017, Galleria Nazionale d'Arte moderna e contemporanea, Roma.

4)Cesare Pietroiusti,  tavola rotonda sulle «opere curabili», 18 gennaio 2017, Galleria Nazionale d'Arte moderna e contemporanea, Roma.

5)Giuseppe Pelizza da Volpedo, Prato fiorito, 1900-1903, Galleria Nazionale d'arte Moderna e Contemporanea, Roma.

6) Elisabetta Benassi, Palmense, 2016.

7) Pino Pascali, Balla di fieno, 1967, Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea, Roma.