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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

L'inattesa personale di Anish Kapoor al MACRO


Simona Antonacci

«L’arte non è intrattenimento […] L’arte esprime qualcosa di universale che unisce tutte le persone»(1)

È un “grande nome” quello che la programmazione del MACRO ha proposto per l’ultima mostra del 2016: una monografica dell’artista britannico di origini indiane Anish Kapoor. Esponente nella New British Sculpture nella seconda metà degli anni Ottanta, Kapoor è stato coccolato dal mercato dell’arte fin dal suo esordio internazionale nella Biennale del 1990, quando gli viene assegnato il Premio Duemila. L’anno seguente vince addirittura il Turner Prize e dieci anni dopo è impegnato nell’allestimento della Turbine Hall dalla Tate Modern. Più recentemente, appena qualche mese fa, ha ottenuto il diritto di essere l’unico artista a poter utilizzare il nero più nero che c’è, il vantablack.

Il suo lavoro abbraccia una dimensione scultorea e più apertamente ambientale, indagando da sempre lo spazio fisico e immateriale con cui l’opera interagisce: i suoi lavori coinvolgono lo spettatore in un dialogo serrato, percettivamente ed emotivamente straniante con le componenti non solo fisiche, ma anche invisibili a cui l’installazione rimanda. Esse attraggono e respingono continuamente lo spettatore, così come lo spazio intorno. Il vuoto, lo spazio dell’altrove, sono componenti sostanziali tanto quanto l’oggetto in sé.

L’importanza dell’autore lascia ben sperare che il museo progettato da Odil Decq, dopo il periodo di stallo attraversato nell’ultimo anno, possa vivere un momento di rinascita culturale. D’altra parte, occorre sottolinearlo, la attesa mostra ha lasciato sorpreso, per certi versi sconcertato, il pubblico romano dell’arte contemporanea, pronto ad essere risucchiato nei turbini percettivi dell’artista anglo-indiano ma non ad interagire con la carne viva dei suoi ultimi lavori. Ci aspettavamo di essere inghiottiti in uno spazio metaforico e sublimato, tra superfici levigate e appaganti: abbiamo trovato una restituzione esplicita -potremmo dire “pornografica” nel suo non lasciar spazio all’immaginazione- di tessuti dilaniati, viscere, interiora macilente.

La mostra -curata da Mario Codognato e ospitata nella sala al piano terra del MACRO con un allestimento fluido, privo di pareti divisorie- presenta un gruppo di lavori recenti che vengono esposti per la prima volta insieme, a cui si aggiungono opere già note al pubblico, come Sectional Body Preparing for Monadic Singularity (2015), esposto nel parco di Versailles, grande parallelepipedo con curvature interne che invita all’attraversamento e alla permanenza. Se questo lavoro si inserisce all’interno del filone di ricerca più noto dell’artista, quello delle grandi strutture ambientali in pvc, il trittico Internal Objects in Three Parts (2013-15) rivela una diversa urgenza di sperimentazione. Si tratta di tre grandi tele esposte al Rijksmuseum di Amsterdam nel 2015 in un suggestivo dialogo visivo con le opere di Rembrandt: composte da grandi agglomerati di colore e silicone, le opere evocano la corporeità della materia pittorica dell’artista olandese. La connotazione viscerale e carnale di questo lavoro introduce alle altre opere in mostra, che appartengono all’ultima produzione di Kapoor e i cui titoli rimandano ad un medesimo universo di disfacimento organico: Unborn (Mai nato), Hung (Appeso), Flayed (Scorticato), tutte del 2016. E ancora Dissection (Dissezione) e Stench (Fetore) del 2012, realizzate anch’esse in silicone, tela e pigmento rosso.

Il senso di repulsione e il disagio -fisico ed emotivo- provati davanti a questi lavori va accolto ma poi superato per poter afferrare i molteplici livelli di lettura a cui questi lavori si offrono.

Si colgono in prima battuta molteplici riferimenti culturali e storico-artistici: una fitta trama di risonanze che operano su un piano sia stilistico che concettuale. Oltre alla tradizione di un genere dai complessi significati simbolici come quello della natura morta, è possibile individuare il legame con l’estetica dell’informale, in particolare l’affinità con le Combustioni di Alberto Burri: le opere di Kapoor, così come quelle dell’artista umbro, implicano una sperimentazione dei materiali plastici e un superamento del confine bidimensionale dell’opera, ma non soltanto. Le rifrazioni esistenzialistiche proprie della ricerca dell’artista informale suggeriscono la possibilità di individuare anche nell’opera di Kapoor una simile eco: benché non possa essere riconosciuto un contenuto esplicitamente legato all’attualità storica, chi osserva le opere dell’artista anglo-indiano non può far a meno di collegare l’immaginario che ci offre alla realtà  del nostro tempo. C’è forse la sottaciuta intenzione di épater le bourgeois, di nauseare il pubblico dell’arte evocando l’immaginario di violenza che è drammaticamente tornato a segnare piazze e strade europee sotto la scure del terrorismo? Se questo riferimento c’è è sotteso, implicito, alluso ma non letterale.

L’analisi di lavori come Hunter (cacciatore), Thrown between him and her (Gettato tra lui e lei) rivela ancora più chiaramente l’intenzione dell’artista non di agire “sulla” superficie del quadro, ma entrarvi dentro concretamente e metaforicamente, operando un processo sperimentale di scavo, un’operazione archeologica che svela la natura intrinseca della pratica artistica. Che è manipolazione spaziale e scultorea. Da questo punto di vista se, ad un primo livello di lettura, viene richiamata alla memoria l’estetica informale, un’osservazione più meditata permette di cogliere la profonda affinità con il pensiero di Lucio Fontana e la sua teoria spazialista: attingere alle forze implicite che vibrano sotto la superficie della tela, superando i suoi limiti spaziali e temporali; rivelare la tridimensionalità della pittura; liberarne le energie; aprire la pelle della pittura per guardarci dentro. L’opera appare come il musico Marsia (Marsyas è il titolo di un’opera del 2002 esposta alla Turbine Hall della Tate Gallery), scorticato dal Dio Apollo.

Si rivela in questo modo il rapporto di continuità di questi lavori con la precedente ricerca dell’artista: l’investigazione dell’oltre, lo scavo al di là della pelle delle cose compiuta attingendo all’ambiguità a un tempo percettiva, spaziale, emotiva dell’esperienza dell’opera. Vedere attraverso, vedere cosa c’è dentro. Se nella prima produzione dell’artista l’opera si riferiva al vuoto alludendo ad esso, ora quest’ultimo è negato, o meglio si concretizza in viscere, carni, piuttosto che teorica e misteriosa assenza.

Come suggerisce Mario Codognato nel catalogo della mostra «L’arte funge da mediatrice tra l’essenza del mito e la sua rappresentazione, tra la sua intercambiabilità e continuità nel tempo e la contingenza della contemporaneità, tra il cammino individuale nella terra incognita della vita e l’esperienza collettiva, tra immanente e trascendente»(2). 

Sembra questa, in ultima analisi, l’essenza di questo nuovo territorio estetico  percorso da Anish Kapoor: l’esigenza -implicita probabilmente nel lavoro di ogni artista e certamente da sempre presente nel suo- di arrivare alla caverna di Platone, di attingere all’immagine archetipica e mitica per connettere l’assoluto al transitorio, lo spirito universale alla vivezza della carne.

La drammaticità, la violenza, la contingenza di questo attraversamento non sono mai state così esplicite.

 

1)S. Maggiorelli, «Fra Oriente e Occidente, Anish Kapoor al Macro»,  Left, 16 dicembre 2016.

2)Mario Codognato, Anish Kapoor, catalogo della mostra, Manfredi edizioni, 2016.