Maria Smiroldo

L’attraversamento pedonale più famoso che mi viene in mente è sulla copertina di un disco: sono quattro ragazzi inglesi meglio noti come The Beatles, fotografati mentre attraversano Abbey Road per andare a incidere in studio il loro ultimo album insieme, oppure per tornarsene a casa. E’ l’unica allusione british, anche un po’ tirata per i capelli, in una mostra che attraversa i confini geografici e cronologici della cosiddetta street art per ripercorrere la parabola della controcultura underground che diventa mainstream dagli anni settanta a oggi.
La cubatura big size dell’ex sala Enel del Macro consente di portare indoor la scala urbana, sebbene l’equazione tra strada e museo resti un paradosso logico non liquidabile su due piedi. Ovviamente ogni regola ha le sue eccellenti eccezioni: già negli anni sessanta i linguaggi popular della cultura di massa acquistano diritto di cittadinanza nei recinti sacri dell’arte, dando la stura a quel trend high&low che continua a mietere grandi successi commerciali. Risalendo a ritroso possiamo citare altri precedenti illustri in La città che sale di Umberto Boccioni del 1910, nei collage del cubismo analitico, concettualmente nella pittura en plein air degli impressionisti e, volendo considerare anche le realtà virtuali, nell’architettura picta fin dall’antichità.
Se poi vogliamo inserire il discorso in una prospettiva storica più ampia, dobbiamo ricordare che i musei sono un’invenzione relativamente recente: dalle pitture rupestri preistoriche, e ogni riferimento non è puramente casuale, il manufatto artistico nasce come espressione civica, patrimonio identitario comune a un insieme di esseri umani, che solo da un paio di secoli viene sottoposto a processo di musealizzazione postuma, ovvero viene estrapolato dal contesto di provenienza che lo ha prodotto e gli ha conferito la sua ragion d’essere, per essere esibito come trofeo, spesso sottratto al nemico e non sempre pacificamente.
Tornando al caso specifico, nonostante gli allestimenti che ricostruiscono graficamente un set di strada metropolitana in uno spazio conclusus e i veli, per definizione pietosi, che scandiscono gli stand, l’effetto generale ricorda l’infialata di pale d’altare strappate agli altari delle pievi, di cui costituivano unico punto di luce focale, e allineate nei corridoi degli Uffizi con le targhette esplicative, non più ricchezze devozionali proprie di una comunità coesa intorno al suo centro, bensì oggetti di decoro serializzato.
Nelle intenzioni degli organizzatori Cross the street si autodefinisce come piattaforma culturale atta “a storicizzare il fenomeno artistico e mediatico del Writing e della Street Art, tra i più influenti degli ultimi quarant’anni” [sic]. Il deus ex machina è Paulo Lucas von Vacano che scrive in catalogo: “la rivoluzione avviene quando la strada entra nel museo e il museo si trasferisce nella strada”, dunque la rivoluzione c'est moi?
La mostra, corredata da un ricco calendario di grandi eventi e special guest, inizia con la sezione Street Art Stories curata dalla stesso von Vacano. Gli onori di casa spettano all’icona del gladiatore, capostipite di tutti i super-eroi, nell’omaggio a Roma american style di WK Interact, che dall’alto dei suoi 14 metri sovrasta un giovane quanto gracile Keith Haring Deleted, ovvero ciò che resta del passaggio del noto artista a Roma su invito di Francesca Alinovi per la mostra Arte di frontiera: New York graffiti, che si è tenuta nel 1984 al Palazzo delle Esposizioni. Poco lontano troviamo JBRock che dichiara di scrivere sui muri da quando aveva 12 anni, che non c’è cosa che lo faccia sentire meglio e ci invita a “seguire istinto e passioni senza farci ingannare dalle stronzate”. Accanto c’è DAIM che va sul classico scegliendo il tema più ricorrente da Berlino in poi, ovvero l’abbattimento simulato di muri, recinti e steccati vari, rivisitato con effetti grafici in 3D. Sul lato opposto CHAZ, affettuosamente il padrino del Cholo Writing, ossia i segni lasciati dalle gang per delimitare il territorio, il cui maggior vanto è di non aver mai usato bombolette spray, ma solo pennello e vernice. Nel mezzo gli armadietti elettrici che Evol trasfigura in paesaggi urbani di periferia, con quella non trascurabile sfasatura dimensionale che ci fa sentire King Kong. Il pilastro angolare è OBEY, graphic designer con vocazione politica, famoso per la sua locandina in sostegno di Obama sottotitolato HOPE, prontamente recepita e utilizzata dal presidente stesso per la sua campagna elettorale. Ancora in scala extra large si fiancheggiano Lucamaleonte e Diamond, diplomati rispettivamente all’Istituto Centrale del Restauro e all’Accademia di Belle Arti di Roma. A seguire il percorso si frantuma nei mille rivoli del surrealismo pop e sulla parete di fondo, oltre le toy-sculture, spicca un esplicito tributo a nonno Andy.
Davanti alla riproduzione su tela in scala mignon del murales Voi valete più di molti passeri!di Ozmo e agli stencil poster di Sten e Lex, urge una piccola fuga in terrazza, dove troneggiano gli interventi site specific realizzati nel 2012 per Urban Arena, su progetto dell’allora direttore del MACRO Bartolomeo Pietromarchi per dare degna visibilità ad alcuni street artisti attivi a livello internazionale, dando loro una collocazione esterna al museo in coerenza con lo statuto di arte pubblica che ne contraddistingue l’operato, pertanto accessibile a tutti senza biglietto da pagare. Ecco la mega wedding cake di Ozmo che illustra usi e abusi perpetrati in nome dell’arte che va a braccetto col dio denaro, nella torre condominiale gemella lo schermo bianco per la proiezione del videocollage Evolution (Megaplex) di Marco Brambilla, nel muro di fronte Sten e Lex, assisti da maggiore lungimiranza, affidano agli agenti casuali del tempo, delle intemperie e dei passanti la rimozione delle patine sovrapposte, con graduale disvelamento del disegno sottostante. Il più geniale dei quattro è Daniele Nicolosi in arte Bros, le cui pellicole adesive restano stoicamente fuori dal museo ad abbrustolirsi al sole, mentre il vortice fluo dell’uragano Andrea irrompe in tutta la sua furiosa possanza multicolor proprio nell’area di prima accoglienza del MACRO, accaparrandosi tutta l’attenzione che merita il contenuto rispetto all’architettura/contenitore.
La mostra prosegue nell’ala storica del museo con la sezione Writing a Roma, 1979-2017, curata da Christian Amodeo e focalizzata sulla città eterna.  Procedendo per milestone, con il supporto degli apparati di comunicazione didattica propri dei musei scientifici, imbocchiamo la strada above ground in direzione Street Market per capire come un raptus della pulsione I was here ergo sum possa diventare industria culturale, come una particella subatomica del ‘ribellarsi è giusto’ che infiamma gli adolescenti di ogni età possa trans mutarsi in plusvalore da capitalizzare, dopo qualche rapido passaggio in galleria, festival o spazi museali compiacenti. E qui vorrei mettere un link a Happy Hour di Ligabue, quando dice che nasci da incendiario e muori da pompiere facendo finta di essere una star. E poi ne metterei un altro, forse più pertinente ma altrettanto tagliente a Street Culture: il paradiso del nuovo mercato, di Domenico Scudero nel n°8 di Unclosed, sulle ultime frontiere delle gentrificazione, che spaccia per nobile promozione sociale la più bieca speculazione immobiliare, cui i wall painter sono spesso chiamati a concorrere. L’anno 2000 segna la dead line per rinnegare la strada e riciclarsi in sedicenti poetiche di sperimentazione artistica non convenzionali, appaltando la propria brand identity ai guru dei new media. È un gioco da ragazzi: come nei video tutorial per imparare a fare ollie o kickflip su you tube, mettiamo subito in gabbia black block e retaggi selvaggi, scavalchiamo le recinzioni e cavalchiamo la rete in tutte le sue moltiplicazioni di visibilità social e portiamo l’attacco al cuore della yard, un attacco armato di bombolette spray e cappuccio in testa, calandosi nei recessi delle viscere metropolitane. E apprendiamo allibiti che il motivo per cui i treni della metropolitana di Roma sono le prede più ambite dai writer di tutto il mondo è perché non vengono mai puliti, l’incuria elevata a sistema di garanzia di salvaguardia protratta negli anni. Va detto per inciso e per completezza d’informazione che ai sensi della normativa vigente chi deturpa o imbratta beni altrui commette un reato cui si applica la pena della reclusione che in caso di recidiva può arrivare a due anni.
Una menzione d’onore spetta al viatico: Fuck you all, il titolo della mostra fotografica curata da Glen E. Friedman nel 1998 al Museo Laboratorio di Arte Contemporanea della Sapienza Università di Roma, il colpo di coda punk che fa sempre cool, con l’ultimo appello del curatore a non perdere la verginità dello spirito hardcore. E a proposito di attraversamenti incrociati, l’epilogo ci coglie impreparati poco prima di uscire: siamo davanti a “L’universo senza bombe, regno dei fiori” di Nicola De Maria, opera concepita site specific per il MACRO, che ha lasciato le sale del museo, è scesa in versione mosaico nella metropolitana di Napoli, dove attualmente staziona alla fermata di Piazza Dante, per poi tornare back home, senza tanto clamore.

Luglio 2017