Rosy Rox alla Fondazione Real Sito di Carditello

Brunella Velardi

Il corpo è quello strano oggetto che utilizza le proprie parti
come simbolica generale del mondo e attraverso il quale, perciò,
noi possiamo ‘frequentare’ questo mondo, ‘comprenderlo’
e trovargli un significato.
M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, 1945

La strada che attraversa le campagne del casertano e, lasciato l’infernale Asse Mediano, si immerge in una vegetazione delicata, morbidamente adagiata su una pianura tranquilla e silenziosa, sembra venir fuori da un racconto di Murakami, di quelli che descrivono minuziosamente inverosimili passaggi spazio-temporali fino a farteli vedere nitidamente con gli occhi dell'immaginazione, per poi spiazzarti con incursioni repentine nella più paradossale e destabilizzante surrealtà. Così, mentre lo sguardo trova finalmente ristoro dal caos cittadino e si ha l'impressione di osservare un paesaggio immutato da due millenni - fin da quando veniva identificato come Campania Felix -, osceni cumuli di spazzatura compaiono appena svoltata una curva, accanto a un cespuglio e accompagnano intermittenti il cammino fino alla Reggia di Carditello.
La triste vicenda dei rifiuti illegalmente riversati su questa terra è ormai ben nota alle cronache; forse un po' meno, al grande pubblico, l'interessamento degli ultimi governi (in particolare con i ministri Bray e Franceschini) al Real Sito che fu commissionato da Ferdinando IV di Borbone a Francesco Collecini, allievo di Luigi Vanvitelli, come casino di caccia e centro per l’allevamento e l’agricoltura sperimentale. Nei dipinti murali di Jakob Philipp Hackert che decorano le pareti della residenza e in alcuni suoi dipinti oggi alla Reggia di Caserta, sono riprodotte, come in una fotografia scattata dai tetti del corpo di fabbrica centrale, le attività del re e della sua famiglia, immersi in una natura che è davvero, ora ne abbiamo la prova, immutata come ci era sembrata al principio. E l'ignoranza violenta che oggi si abbatte sulle inermi distese d'erba dei dintorni si ritrova all'interno, nelle graffiature e nelle scialbature imposte prima dalla nuova casa regnante alle vedute hackertiane all'indomani dell'Unità, poi nei lunghi anni di abbandono del sito.
E nonostante tutto questo, a Carditello, varcata la soglia d'ingresso al grande cortile ellittico e affacciati alle strette terrazze che corrono intorno al piano nobile e dominano tutta la pianura circostante, si ritrova per un momento una dimensione tutta corporea di contatto con quella natura che si estende per chilometri. I centri abitati sono irraggiungibili con lo sguardo, mentre si avverte rinascere un rapporto filiale con lo spettacolo che ci si para davanti: è probabilmente questo il senso più profondo del ripresentare la performance Con-tatto interiore di Rosy Rox proprio in questo luogo, dopo la prima a Verona nel 2015.
Schietta, immediata, carnale, l'artista napoletana riesce a trasferire nelle sue opere, sia installative che performative, i medesimi caratteri della sua indole. Così, quell'interiorità che ricorre nei titoli e nell'essenza dei suoi lavori, si esplicita con un'immediatezza lacerante, a tratti espressionista. È ciò che avviene in Tempo interiore (2012-2013)(1),  in cui l'esperienza metafisica della vista della Piazza d'Armi di Castel Sant'Elmo è accentuata dal suo svolgersi in una dimensione temporale parallela, il cui ritmo è scandito da lame che, preso il posto delle lancette dell'orologio in cima all’edificio che chiude scenograficamente la piazza, procedono secondo traiettorie imprevedibili, trascinando la coscienza dello spettatore nel susseguirsi di epoche dolenti tra passato presente e futuro. Dare forma al trauma, sia o meno esso di natura violenta (in Tempo interiore il riferimento è alla repressione della libertà che in più occasioni e in diverse vicende storiche ha visto Castel Sant'Elmo protagonista), per trasmetterlo all'altro in tutta la sua evidenza, è ciò che fa Rosy Rox attraverso la sua ricerca. Ne scaturisce un'estetica in cui l'elemento corporeo, costante nella sua opera, entra in gioco per mezzo di meccanismi di empatia, rispecchiamento, immedesimazione che divengono immediatamente leggibili attraverso chiavi semiotiche e neuroscientifiche. Centrale è, più di altri nel lavoro di Rosy Rox, il tema del segno e dell'impronta(2), che ricorre sottoforma di presenza e assenza, luce e ombra, e si ritrova nella serie di Corpo d'ombra(3) e Vuoti d’ombra(4),  in cui il dato oggettuale, incarnato dalle roste che sovrastano i portoni degli antichi palazzi nobiliari, appare alla nostra coscienza, prima ancora che come elemento architettonico e ornamentale, come ombra proiettata dal sole nell'atrio dell'edificio, divenendo essa stessa oggetto primario percepito dai nostri sensi, dimentichi dell’assenza che testimonia.
Nella performance Con-tatto interiore il buio, estremizzazione dell’ombra che, come abbiamo visto, è l’esatto opposto del nulla configurandosi invece come rivelatore di una presenza altrimenti impercettibile, identifica lo spazio abitabile, in cui l'individuo è libero di muoversi e di agire inosservato. Il trauma è rappresentato da ciò che avviene in una stretta lama di luce che si apre come un'intercapedine all'interno di quello spazio, e dalla scelta di  interagire, intervenire nella scena che ci si presenta davanti: l'artista, per metà nuda e per l'altra metà coperta da una cotta di maglia metallica che ne limita il movimento e le conferisce sembianze spaventose, di fantasma martoriato da antiche torture, avanza come in un ballo appena accennato, come a chiedere allo spettatore di non lasciarsi ingannare da quel suo aspetto sinistro: di assecondare invece la sua curiosità e l'invito di lei ad avvicinarsi, a stabilire un contatto che avrà la forma unica e irripetibile di due anime che si sono incontrate e per un attimo hanno avuto un legame intimo, destinato a rimanere nel segreto di una stanza oscura. Nulla di più scabroso, insomma, della messa a nudo della nostra capacità di lasciarci andare e aprirci all'altro superando i pregiudizi che abbiamo anzitutto su noi stessi.
Come è stato scritto, il processo creativo di Rosy Rox «rifiuta le interpretazioni sensazionalistiche e scandalose spesso legate alle performance e alle opere di forte impatto emotivo»(5): l’azione non vuole essere spettacolare né melodrammatica, ricerca anzi una semplicità, una franchezza spogliata da convenzioni - ad eccezione, certo, di quella necessaria all'interno della quale avviene la fruizione dell'opera, vale a dire la consapevolezza della natura dell'operazione a cui si sta assistendo. Così il suo fruitore non ha altra scelta che abbracciare quella sincerità e come in scacco matto, qualunque sia la mossa che deciderà di giocare, avrà comunque svelato la sua natura, ponendosi, volente o nolente, al pari di quella creatura per metà costretta da un’armatura che tenta di bloccarne il moto, ma per l’altra metà libera di mostrarsi, agire e interagire con il mondo a dispetto di qualunque impedimento imposto da schemi di comportamento precostituiti. D’altra parte, «la nudità dell’artista è un esporsi al suo giudizio [dello spettatore, ndr], ma anche un condividere un rituale di liberazione e di lento disvelamento della propria umanità»(6), come avviene anche in altre performance dell’artista (Mi infrangerò nella tua sentenza, 2009 e Please return to you, 2012).
Ancora una volta, la componente traumatica che accompagna inevitabilmente l’esistenza viene ‘oggettivizzata’ dall’artista in attributi che, parti costituenti delle sue performance, rimandano a reminiscenze lontane nel tempo: strumenti di tortura, armi, paramenti di guerra conferiscono alle tematiche universali che Rosy Rox indaga nei suoi lavori un’estetica gotica, che  denota l’essere in bilico tra il desiderio di accettazione e l’autoaffermazione della condizione individuale nella sua doppia  identità manifesta e occulta, affabile e brutale, solipsistica e relazionale.
Così, divisa tra un passato tormentato e un futuro pieno di promesse ma dalla forma ancora incerta, sospesa tra l’estasi e il degrado, sfregiata e bramata allo stesso tempo, la Reggia di Carditello si riscopre ancora magnifica dimora dell’arte di ieri e di oggi.

[Ottobre 2017]



1) Con l’opera site-specific Tempo interiore Rosy Rox ha vinto la seconda edizione del Concorso per giovani artisti “Un’Opera per il Castello”, promosso a partire dal 2011 da Castel Sant’Elmo – Museo Novecento a Napoli con il sostegno della Direzione Generale Arte e Architettura contemporanee e Periferie urbane del MiBACT.
2) Ci si riferisce in particolare al testo di J. Fontanille, Figure del corpo. Per una semiotica dell’impronta, Meltemi, 2004.
3) Corpo d’ombra, a cura di L. Berti, 18 gennaio – 18 febbraio 2016, mostra presentata nell’ambito del ciclo “Art – Do not disturb” curato da A. Tecce, Hotel Palazzo Caracciolo, Napoli.
4) Vuoti d’ombra, a cura di A. Tolve, 11 giugno – 30 luglio 2016, Galleria Paola Verrengia, Salerno.
5) C. Borrelli, «Alla ricerca di un tempo interiore», in A. Tecce e C. Borrelli (a cura di), Un’Opera per il Castello 2012, Arte’m, 2013, p.25.
6) Ibidem.