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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Gli Ambienti Spaziali di Lucio Fontana all’Hangar Bicocca

Anna D’Andrea

La fondazione no profit Pirelli HangarBicocca nasce nel 2004 dal progetto di riqualificazione di un’area che all’inizio del secolo scorso era tra gli insediamenti industriali più importanti d’Italia, una vocazione produttiva che permane nella riconversione in luogo adibito alla produzione e alla promozione dell’arte contemporanea, compiti istituzionali svolti in modo ineccepibile nonché a ingresso gratuito, diremmo ai sensi dell’art. 9 della Costituzione, sebbene trattasi di soggetto di diritto privato, che, nell’attuale congiuntura, offre asilo anche al pubblico romano in fuga da taluni cinepanettoni locali. Ma lasciamo da parte inutili divagazioni e andiamo dritti al cuore di Ambienti/Environments, la mostra curata da Marina Pugliese, Barbara Ferrini e Vincente Todolì, direttore artistico della fondazione dal 2013, composta da due interventi ambientali e nove ambienti spaziali, realizzati da Lucio Fontana tra il 1949 e il 1968, disposti in sequenza cronologica, di questi tempi un po’ demodé, ma molto apprezzata da tutti noi che abbiamo ricevuto e coltivato una formazione storica. La ricostruzione degli Ambienti Spaziali, che Enrico Crispolti nel suo Catalogo ragionato di sculture, dipinti, ambientazioni (2006) definisce appunto Ambientazioni, non è frutto di un capriccio curatoriale, bensì basata su un rigoroso lavoro di studio e ricerca documentale condotto in collaborazione con la Fondazione Lucio Fontana, incrociando dati provenienti da archivi pubblici e privati, che ha dato esito al ritrovamento di materiale inedito e ha consentito il ripristino di cinque opere mai esposte precedentemente. Un lavoro encomiabile che ha il grande merito di restituire statuto di opera d’arte a ciò che erroneamente veniva considerato mera circostanza allestitiva e pertanto smantellata e distrutta, statuto che trova legittimo fondamento nelle auto-dichiarazioni di poetica “i miei non sono quadri ma concetti d’arte”, peraltro in logica coerenza con i proclami del Manifiesto Blanco: “Si richiede un cambiamento nell’essenza e nella forma. Si richiede il superamento della pittura, della scultura, della poesia e della musica. È necessaria un’arte maggiore in accordo con le esigenze dello spirito nuovo” (1946). Senza dilungarmi sulle svariate ragioni di continuità, citerò un altro famoso Manifesto, nel passo: “Ritti sulla cima del mondo, scagliamo una volta ancora la nostra sfida alle stelle” (1909), perché sulla cima del mondo è il posto in cui ci sentiamo al cospetto di Struttura al neon per la IX Triennale di Milano del 1951 e la sfida è il raggio di luce di una torcia che squarcia l’oscurità. Vertiginose altezze siderali si spalancano come per caso dietro un panneggio di velluto qualsiasi e senza preavviso ti ritrovi nel vortice di un arabesco cosmico disegnato nel blu cielo di Giotto con l’incandescenza di un gas nobile, ossia inattaccabile e incorruttibile, che tutti conosciamo come neon. Un allestimento decisamente suggestivo, in felice consonanza con l’ampia cubatura verticale dello spazio color abissi dell’universo, che riporta alla luce rimembranze di interminati spazi e sovrumani silenzi e profondissima quiete. Altri spazi di riflessione a n dimensioni si aprono nel buio oltre la soglia con andamento sinusoidale, percorsi in divenire da attraversare o meglio esperire per immersione. Il primo è Ambiente spaziale a luce nera, presentato nel 1949 alla Galleria del Naviglio di Milano nello scalpore generale, con i giornali che titolano “Fontana ha toccato la luna”. È un insieme di elementi magmatici fluorescenti vagamente biomorfi che galleggiano nell’instabilità del vuoto, come in assenza di gravità, fluttuanti luminescenze colorate da contemplare col nasino all’insù. A seguire due Ambienti Spaziali intitolati Utopie, esposti alla XIII Triennale di Milano del 1964 e realizzati in collaborazione con Nanda Vigo, che ha collaborato anche all’attuale ricostruzione. Nella luce calda del primo ambiente, le onde del pavimento possono essere un divano, un posto morbido e accogliente come un orsacchiotto dove abitare accoccolati. Nel secondo ambiente ci lasciamo condurre dal fluire ondivago dei puntini, stelle polari allineate in scie luminose, scivolando senza obiezioni nel flusso vitale e volubile della Via Lattea. Per completezza d’informazione va detto che il tema della Triennale è il tempo libero nell’epoca del boom economico, e che i curatori della manifestazione, Vittorio Gregotti e Umberto Eco, affidano ad artisti diversi l’interpretazione dei quattro filoni di ricerca: Illusioni, Integrazione, Tecnica, Utopie, resi spazialmente in corridoi e l’ultimo spetta a Lucio Fontana, ovviamente. Il prossimo Ambiente Spaziale è stato esposto nella mostra personale The Spatial Concept of Art che il Walker Art Centre di Minneapolis ha dedicato all’artista nel 1966. Jan Van der Mark, curatore della mostra, accanto alla produzione più nota, presenta gli esiti più sperimentali dello spazialismo che ancora non avevano incontrato i favori della critica e ne coglie magistralmente il senso già nel titolo della monografica. Si accede in salita, scalzi e capo chino, per ritrovarsi fuori dal tunnel coi piedi sul sofà, il sogno di tutti i bimbi, davanti a uno specchio che non c’è, una quarta parete che taglia lo spazio in due metà uguali e simmetriche, ma non c’è soluzione di continuità tra l’aldilà e l’al di qua, la spartizione è un artifizio virtuale, un seducente trompe-l’oeil che possiamo oltrepassare e calpestare tutte le volte che vogliamo. Seguono tre Ambienti contraddistinti dall’uso del colore, ideati nel 1967 per Lucio Fontana, Concetti spaziali al Van Abbemuseum di Eindhoven, secondo scalo europeo della mostra statunitense dopo lo Stedelijk Museum di Amsterdam. Nel primo Ambiente Spaziale, gli aggrovigliamenti sospesi nella vastità del nulla si fanno più sparsi, eterei e labili, si configurano in costellazioni astrali che ruotano intorno a una virgola oppure un ricciolo scapigliato della chioma di Berenice. In Ambiente spaziale con neon ogni residuo di materia si dissolve in un filo di luce che danza nell’aria colorata di rosa ciclamino, perché i valori plastici portati all’ennesima potenza sono energia pura, ossia e = mc2. Ambiente Spaziale a luce rossa ci costringe a scorrere nei meandri di un labirinto che torna più volte su se stesso, cui l’assenza di distinzioni tra partenza e arrivo conferisce un moto circolare, come nella giostra del criceto. Galassie di corpi celesti e furor psichedelico non solidificato in pose chiuse, restano fattori preponderanti nel prossimo Ambiente Spaziale concepito nel 1967 per la mostra Lo spazio dell’immagine, ideata da un artista, Gino Marotta, e un architetto, Lanfranco Radi, che invitano a Palazzo Trinci di Foligno artisti di varia provenienza accomunati da ricerche e sperimentazioni sulla dislocazione dell’opera nelle ulteriorità dello spazio non circoscritto da cornici, piedistalli, campane di vetro o partiture varie. Ambiente spaziale in Documenta 4, a Kassel del 1968 svolge per piani, fratti da spigoli acuti, l’ovale dell’opera ambientale realizzata in collaborazione con Carlo Scarpa per la XXXIII Biennale di Venezia del 1966, che valse a Fontana il premio internazionale per la pittura (sic). Entrando dietro le quinte, L’ attesa si attua in Concetto spaziale, si espande, ingloba l’intorno all’interno di sé, eccelle nel candore più abbagliante, iconoclasta e inesorabile come un addio e del resto siamo a tre mesi dal commiato dell’artista. Avvolta dalle vibrazioni lunari del bianco, che nel Medioevo è il colore dell’immensità dell’infinito, resto in bilico tra il Monumento a Maria Cristina d’Austria di Antonio Canova e La madonna del parto di Piero della Francesca, tra Luna di Fabio Mauri e il finale di The Truman Show e, sorvolando su allusioni figurali all’origine del mondo, vedrei il dettaglio di una tracheotomia, il gesto violento e primordiale del coltello alla gola che ti ridà il respiro e ti salva la vita. Nuovi bagliori si accendono per il finale pirotecnico della mostra a spade laser sguainate: è Fonti di energia, soffitto al neon per “Italia 61” a Torino del 1961, il secondo intervento ambientale realizzato a Torino, dieci anni dopo quello di Milano, per il Padiglione Fonti di Energia dell’Esposizione Internazione del Lavoro, commissione pubblica ricevuta nell’ambito delle celebrazioni per il Centenario dell’Unità d’Italia. La ricostruzione stavolta è parziale, il progetto originale prevedeva uno spazio a pianta ottagonale con le pareti foderate di alluminio specchiante, ovvero la genialità un po’ pop di sostituire il riverbero aureo del rivestimento musivo con il domopack. L’emozione di essere nella Sainte-Chapelle di Parigi si accavalla a reminiscenze di soffitti sfondati dai trionfi barocchi delle chiese di Roma, mentre traiettorie di colore si interconnettono alla velocità della luce fino al settimo cielo senza interferenze, finalmente libere dalle zavorre di storytelling. È l’anno del primo uomo sulla luna, il futuro è già sopra le nostre teste, semplicemente stupefacente. Nella biografia ho trovato che Lucio Fontana (1899-1968) ha frequentato le scuole elementari a Biumo, un piccolo paese di collina in quel di Varese, noto come città giardino e sede di un osservatorio astronomico, che ha offerto residenza anche a Giuseppe Panza (1923-2010), un altro illustre dell’arte del nostro tempo, e dove tuttora è esposto il meglio della sua collezione. Una casualità? Forse. Nonostante la sfasatura anagrafica, ci piace pensare che abbiano avuto gli stessi maestri, di certo Dan Flavin, Bruce Nauman, Robert Irwin, Maria Nordman, James Turrel devono molto a entrambi.
Gennaio 2018