Prima personale in Italia dell’artista messicano che ha rappresentato il Messico alla 56.a Biennale di Venezia

Patrizia Mania

Quali sono i perimetri entro i quali avviene la nostra conoscenza del mondo? In che modo la nostra epoca, sospinta continuamente da forze contrastanti, genera la produzione del sapere? Quali limiti impongono la comunicazione, l’informazione e ancora quali sguardi, in questi intricati orizzonti, possono dirsi possibili?
Sono alcuni degli interrogativi a cui la complessa installazione di Luis Felipe Ortega nella sua mostra tenutasi al Mattatoio di Roma sembrerebbe voler dare una risposta. Curata da Lucilla Meloni, la mostra sapientemente ordisce una trama con alcuni tra i più significativi lavori di Ortega intorno ai limiti e alle aporie della conoscenza.
Dopo aver presentato il disegno dell’orizzonte, inquadrando la necessità di delimitare le condizioni, i primi limiti proposti nella scansione allestitiva dello spazio riguardano la censura e il nascondimento delle verità nell’attualità storico-politica. La prima “stanza” della densa articolazione di lavori che si snodano lungo tutto lo spazio di un’ala del Mattatoio fa riferimento infatti ad un occultamento di verità. Il rimando è alla memoria di un fatto atroce verificatosi in Messico alla fine del settembre del 2014 quando 43 studenti messicani scomparvero letteralmente nel nulla. Un episodio che le cronache riportano come “la strage di Ayotzinapa” dal nome della scuola da cui provenivano i ragazzi, e che secondo recenti, ormai corroborate ipotesi, sarebbero stati uccisi e bruciati dai narcos con il tacito avvallo delle forze di polizia. Una tragedia dalle dimensioni immani cui difficilmente rassegnarsi. Noche larga en el Presente è il titolo di questa serie di 43 riquadri dove il lapis e l’inchiostro rendono omaggio all’ingiusto sacrificio. Non un’opera dai toni esasperati né urlati, piuttosto una composta silenziosa presa d’atto che si rivela particolarmente efficace proprio nel darsi come pacato ossequio alla memoria di quelle vittime. Si potrebbe pensare, per via della corrispondenza numerica dei moduli ai 43 studenti desaparecidos, che ciascun riquadro contenga un ritratto, ma a parlarci non sono i volti delle vittime quanto piuttosto proprio l’indistinto di una (quasi) impossibilità a ritrarli. Fornendoci così una testimonianza livida di un fatto, di un crimine di ingiustificata, inaudita ferocia. L’arte è sempre “intrinsecamente politica” ci suggerisce Ortega e lo è qui con forza esemplare, nel chiamare in causa questo inaudito crimine.
Continuando nel percorso della mostra, si passa dai tempi lenti dei ritratti negati al dinamismo di un lavoro che occupa un’intera navata dello spazio espositivo. Due lavori, che nei tempi e nei significati sembrano strettamente correlati. Se lì era la necessità di un silenzio etico, di memoria e di denuncia, qui il tema è, in termini sussidiari, il vuoto del potere. Un vuoto che trova in un articolo di Pasolini (riferito nella dedica del titolo) le proprie coordinate di riferimento. La grande complessa rete di corde che avvinghiano e mantengono in sospensione dei macigni di pietra, tutti rigorosamente provenienti dalla terra messicana, appaiono di primo acchito come un omaggio alla celebre ragnatela duchampiana. Lì come qua, costruiscono un labirinto di fili che ostacola il passaggio, lasciando intravedere ciò che vi sta intorno ma impedendone l’accesso. Il loro intricato scorrere nella lunga prospettiva dello spazio che abitano è certamente anche un richiamo alle forze che governano il mondo, in questo caso in particolare ad una forza sottratta, quella di gravità. La sua assenza sembrerebbe quasi far roteare magicamente tutte quelle pietre in un tunnel di spazio cosmico. Il titolo che, come tutti i titoli dei lavori di Ortega, accompagna in funzione complementare il lavoro è Landscape and Geometry (for P.P.P.) dove le iniziali sono appunto quelle di Pier Paolo Pasolini. Dunque, un paesaggio e una geometria dedicati a Pier Paolo Pasolini. E se il paesaggio è quello delle pietre, per lo più laviche, provenienti dalla sua terra messicana, la geometria è la ricerca di un ordine che sfida il senso comune per albergare nelle sue possibilità espanse coniugandosi con la prosa e la poesia pasoliniana nelle discrepanze e irriverenze nei confronti dei luoghi comuni. Il richiamo a Pasolini è nello specifico ad un suo articolo, noto come l’articolo sulla scomparsa delle lucciole, pubblicato il 1° febbraio del 1975 e intitolato “Il vuoto del potere”. Quali erano le lucciole a cui faceva allusione Pasolini? Erano certamente in primo luogo le lucciole reali che, a causa dell’inquinamento e di altri fattori di impatto ambientale, si diceva fossero andate scomparendo ma che nella metafora poetico-letteraria dello scrittore rappresentavano il potere politico di quegli anni spazzato via in certo modo da sé stesso. In questa assenza di potere – la forza di gravità contrastata dalle pietre basculanti appese nell’installazione – si rimane così sospesi, in attesa, forse, di tempi migliori. Ortega cita dunque Pasolini per farsi accompagnare in questa sua poetica costruzione di mondi. Vale in proposito quello che Ortega stesso ha detto: “l’artista crea uno spazio con un ordine particolare, a volte un disordine, o un altro tipo di ordine, che sfugge alla normalità”.
Dallo spazio in qualche modo cosmico, il “macro” dell’universo, allo sguardo ravvicinato sul mondo biologico e naturale: in questo passaggio s’inscrive l’omaggio di Ortega al duo di artisti svizzeri Fischli & Weiss dei quali assume il loro libro Flowers. Alcune sue pagine, scompaginate e riprodotte, divengono lo sfondo sul quale compiere una rilettura critica attraverso tassellature di pittura. Sono il suo specifico commento alla relazione instaurata. Double Exposure (Expanded) funziona in tal modo alla stregua de Il teatro e il suo doppio di Antonin Artaud dove qui il “teatro- soggetto” è l’arte di Fischli & Weiss e il suo “doppio” è nella funzione critico artistica che Ortega vi giustappone. Dialoghi con artisti e con poeti, dunque, che già erano stati proposti da una sorta di reenactement sviluppato nel video Remake realizzato nel 1994 con Daniel Guzman, in cui rievoca performance di Bruce Nauman, di Terry Fox, di Paul McCarthy come materia della sua riflessione artistica sulla condizione umana.
Un itinerario spaziale e mentale, questo di Ortega che, con una modalità criticamente assorbente, incorpora modi e sensi estratti dalla poesia, dall’arte, dalla filosofia come eloquenti frammenti. La conclusione del percorso della mostra è il video Altamura del 2016 in cui le riprese, quasi fotogrammi montati gli uni accanto agli altri, disegnano i confini espansi e sincopati dall’affiancamento audio delle voci di poeti, scrittori, filosofi, della provvisorietà di questo nostro mondo.
Il bel catalogo a corredo raccoglie diversi saggi che rafforzano l’idea di base riassunta nel titolo stesso della mostra “A Horizon Falls a Shadow” e che Lucilla Meloni descrive come uno spingersi verso un’osservazione critica della realtà, la sola in grado di farci comprendere(1) 
Aprile 2018

1)Lucilla Meloni, “Guardare bene per poter vedere”, in, catalogo della mostra A Horizon Falls a Shadow, Montoro12, Roma,2018