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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Il volume Definizione Zero di Simonetta Fadda a vent’anni dalla sua prima pubblicazione
 
Lucilla Meloni

Il volume di Simonetta Fadda Definizione zero. Origini della videoarte fra politica e comunicazione, nella sua seconda edizione pubblicata per Meltemi nel 2017, con una prefazione di Bruno Di Marino, a quasi vent’anni dalla sua prima uscita (Costa & Nolan 1999) risulta essere a tutt’oggi un contributo fondamentale per la conoscenza e la comprensione della videoarte e delle modalità secondo le quali questa è stata declinata dagli anni Sessanta.
Questa seconda edizione, arricchita da materiali autografi di Videobase e del Laboratorio di Comunicazione Militante, affronta “quali dimensioni ancora inesplorate si sono aperte nel mondo della visualità”, alla luce dell’epoca digitale, in cui, come scrive l’autrice, “nasce una nuova pratica rappresentativa, in cui l’immagine è un modello informatico”.
Articolato in due parti: “Il medium” e “La storia”, il saggio è accompagnato da un’importante cronologia del video suddivisa in tre sezioni: “Il video nei luoghi dell’arte”, “Le opere video”, “Il video in televisione” che ricostruisce i primi passi compiuti dal video nel mondo dell’arte, della comunicazione militante e della televisione fino al 1979.
Lavoro storico-critico ma al tempo stesso militante, il sottotitolo mette in luce come la pratica della videoarte sia stata anche il linguaggio condiviso dai molti autori che tra gli anni Sessanta e Settanta hanno inteso il loro intervento estetico come politico.
A partire dal rapporto tra visione organica e visualità tecnologica, tra realtà e rappresentazione, il libro ripercorre la preistoria e la storia della videoarte: “costola della televisione”, inserita in quel pensiero occidentale della visione che, partito dall’invenzione artistica della prospettiva, attraverso la “camera obscura”, la fotografia e il cinema, giunge fino all’immagine digitale.
Il racconto delle prime sperimentazioni compiute dagli artisti visivi sul medium (i TV Décollages di Wolf  Vostell e i televisori “preparati” di Nam June Paik), l’uso del video come inedito strumento di comunicazione dell’arte (la Video-Gallery di Gerry Schum), i primi centri di produzione video (come a Firenze Art/Tapes/22, dove nel 1974 Bill Viola diventerà direttore tecnico responsabile), così come la storia museale del video, entrato nel 1968 al MOMA di New York e per la prima volta in Italia nella mostra Gennaio ’70, restituiscono la storia del medium, che a pochi anni di distanza, sarà classificato a seconda della sua utilizzazione nel libro di Luciano Giaccari: Classificazione dei metodi di impiego della videoarte (1975).
Oltre a ripercorrere i diversi usi artistici del mezzo, che si conferma come un linguaggio nuovo e complesso, dalle molteplici declinazioni poetiche (da Bill Viola a Bruce Nauman a Peter Campus a Dan Graham), e utilizzato dalla Body Art (Vito Acconci) e dall’arte femminista (Friederike Pezold), l’autrice pone grande attenzione a quello che è stato definito, negli anni Settanta, come video di movimento.
Contrapposto al video artistico, il video di movimento indica la pratica del video intesa fondamentalmente come pratica politica.
Discendente del cinema-verità, il video diventa uno strumento politico volto alla controinformazione, cioè all’informazione  alternativa e dagli Stati Uniti all’Europa si fa, nelle intenzioni degli autori, un’arma politica. Dalla situazione americana, dal newyorkese Global Village, il primo centro per la trasmissione a circuito chiuso “di attualità e informazione alternativa”, alle esperienze di Guerrilla Television, con la trasmissione, via cavo, di documentari che testimoniavano una storia diversa da quella ufficiale, alle esperienze italiane di Videobase, di Alberto Grifi e del Laboratorio di Comunicazione militante, si segue un percorso denso di avvenimenti, generatore di inediti punti di vista.
Ma le storie del video sono ormai patrimonio della storia dell’arte e fanno parte del nostro passato analogico.
Il saggio termina con una questione aperta: ossia si interroga su quali spazi di libertà siano riservati oggi alla visione.
L’irrompere del digitale, dice l’autrice, ha trasformato le forme visuali del video. Se il video era uno strumento molto diverso dal cinema, all’epoca del digitale questi si sono fusi: “All’epoca della videoarte, quando il mondo era analogico, fare video o cinema significava agire in modo diverso, occupare luoghi spesso distinti e separati, soddisfare aspettative lontane tra loro. L’attuale ricomposizione digitale delle divergenze visuali segnala tuttavia un mutamento nelle forme del piacere visivo, condizionato da una crescente omologazione di stili, ritmi, contenuti”, scrive Fadda.
Di fronte poi al cambiamento epocale della visione, operato dal web e dal mondo dei logaritmi, continua: “oggi lo spettatore/utente/autore non fa che inseguire e completare, senza sosta, sequenze di senso generate altrove”. Occorre dunque, conclude l’autrice, ritrovare, nella visibilità totale, qualcosa che trapela a fatica: “Occorre operare per distorcere i flussi già esistenti. Per ritornare a un visuale imperfetto, ma simbolico. Un visuale che non disciplini lo sguardo e le sue emozioni in modo irriflesso e condizionato, ma solleciti l’autonomia della visione, in tutta libertà”.
Aprile 2018