Vincent Van Gogh alla Basilica Palladiana di Vicenza

Anna D'Andrea
 
Il mio viaggio alla volta della Dama Bianca inizia dalle pagine di un libro che si intitola “Contro le mostre”(2017), scritto a capitoli alternati da Tomaso Montanari e Vincenzo Trione, è un testo che mi ha regalato quel senso di conforto che diventa gioia quando trovi qualcuno che dice esattamente le cose che hai sempre pensato, le dice molto meglio e soprattutto le scrive a beneficio di tutti. Un testo che ho condiviso in ogni sua parte, dal primo enunciato in premessa:  “questo libro è nato da un’urgenza quasi politica” una qualificazione intesa ovviamente nel senso etimologico del termine “di riaffermare con forza e passione le ragioni della storia dell’arte”, ho aderito senza riserve a ogni passo della diatriba su “mostriciattole a base commerciale, insignificanti e inutili” (Federico Zeri, 1996), sulla“nefasta epidemia di mostre-evento, bolle di sapone multicolori che lasciano dietro di sé praticamente il nulla” (Cesare Brandi, 1968), scorribande e défilé chiavi in mano che presuppongono un pubblico quantomeno poco avveduto, fino alle conclusioni sul “grottesco paradosso” della musealizzazione della street art “perché quando la sradichi ne uccidi anche il valore estetico”. Tra i promotori di quella che Andy Warhol aveva intitolato business art, campo nel quale l’artista è stato antesignano, nonché massima eccellenza, viene menzionato Marco Goldin, inventore di un format nazionalpopolare di mostre per famiglie, su temi facili e iperpop.
Realizzo di non aver mai visto una mostra curata da questo tale Goldin e per colmare la lacuna alle 9 di mattina sono al cospetto della suddetta Dama, come i concittadini chiamano affettuosamente la Basilica Palladiana, il quattrocentesco Palazzo della Ragione, nel secolo successivo inglobato in un doppio ordine di logge a serliana in marmo bianco su progetto di Andrea Palladio, nel 1994 iscritta nella lista dei beni patrimonio dell’umanità UNESCO e dal 2012 restituita alla pubblica fruizione.
La mostra dedicata a Vincent Van Gogh, raccoglie 129 opere, 43 dipinti e 86 disegni, sotto un titolo ampio e poetico: Tra il grano e il cielo, dal 7 ottobre all’8 aprile 2018 - nella magnifica cornice della Basilica Palladiana a Vicenza - è frutto della collaborazione tra il Comune di Vicenza, Linea d’ombra, società di servizi per la progettazione, produzione e promozione di eventi espositivi diretta da Marco Goldin e l’apporto del Kröller-Müller Museum di Otterlo in Olanda. Il concept è enunciato in catalogo in modo chiaro e semplice: “scelgo di procedere accanto a Van Gogh giorno per giorno per rispettare il suo comminino e rifarlo con lui”, le lettere al fratello Theo sono il filo conduttore della mostra, la chiave per entrare nel “laboratorio dell’anima” di Vincent, che si autodefinisce “un uomo passionale, capace e incline a fare cose piuttosto insensate, di cui mi pento un po’” che soffre di “un tremendo bisogno di religione, perciò di notte esco all’aperto, per dipingere le stelle” e aggiunge “per quanto mi riguarda, nulla so con certezza, ma la vista delle stelle mi fa sognare”. Anima è un concetto ricorrente nei testi in catalogo, nelle parole dell’artista “quella cosa che chiamiamo anima si dice che non muoia mai e viva sempre e cerchi sempre e sempre ancora”, il direttore e curatore ne motiva le ragioni: “ho scelto di cominciare da qui, dall’anima, un libro che accompagna la mostra dedicata a un grande pittore” perché “non ho mai trovato altro pittore che più di lui abbia messo in gioco la propria anima. L’abbia tratta in luce dalle profondità oscure e spesso piene di terrore”. Per completezza semantica è opportuno ricordare che nella Grecia antica il termine per dire anima è psyché, usato per significare il mondo interiore degli esseri viventi.
Arrivo in Basilica dopo aver svolto i compiti a casa, ricevuti per posta elettronica, ho letto i kit di benvenuto e i testi consigliati, da Lettere a Theo, oltre 150 lettere scritte dal 1872 al 1880, alle riflessioni più recenti di Massimo Recalcati in Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh (2009). Accompagnata dalla suadente voce dell’audioguida, mi accingo a entrare nei meandri della mente e del cuore dell’artista che più maledetto non si può, che nasce a distanza di un anno nello stesso giorno di suo fratello nato morto e viene chiamato con lo stesso nome Vincent, ossia viene alla luce all’ombra del peso schiacciante della morte di un fratello da ricordare e di una colpa mai commessa da espiare, “uno che ha un grande fuoco nell’anima e i passanti non vedono altro che un po’ di fumo”, che si sente “un uccello in gabbia a primavera che sa benissimo che c’è qualcosa a cui sarebbe adatto, ma non può farlo”. Nella pittura “con tutte le forze che posso”, o meglio nel toccare la verità attraverso la pittura, la sola via di uscita, “da parte mia non conosco altra via che quella di lottare con la natura finché essa non mi riveli il suo segreto”, la sua consolazione “in un quadro desidero esprimere qualcosa che sia di conforto come la musica. Vorrei dipingere uomini e donne con quel qualcosa di eterno che una volta era simboleggiato dall’aureola e che noi cerchiamo di rendere con un simile irraggiarsi e con le vibrazioni dei nostri colori”, il suo oblò sull’immenso, “il mondo non mi interessa molto, se non fosse che ho un debito nei suoi confronti, perché ci ho camminato sopra per trent’anni, di lasciargli un segno di gratitudine, qualche ricordo sotto forma di disegni e anche quadri che non sono stati fatti per piacere all’una o all’altra tendenza, ma per esprimere un sentimento umano sincero, che vada al cuore della gente”. Per tener fede all’impegno di gratitudine da restituire al mondo “non ho intenzione di risparmiarmi, né di respingere le emozioni e le fatiche” perché “la mia opera costituisce il mio unico scopo, devo realizzare in pochi anni un’opera piena di cuore e di amore”.
Il percorso espositivo, spacca in quattro la vicenda biografica dell’artista con “la pittura nella pelle”: il duro lavoro nelle brume dell’anima, il chiarore del mare e della Ville Lumière, la frattura di Saint-Rémy, il ritorno verso nord e poi ricompone il tutto nella continuità di un racconto unico, basato su un solido costrutto logico e scientifico, corroborato da puntuali riscontri nella serrata corrispondenza epistolare, impeccabilmente coerente in tutte le sue direzioni di senso, dotato di ricchi apparati a supporto in tutte declinazioni mediali possibili, ineccepibile anche nelle scelte più azzardate come la sala dedicata al plastico del monastero romanico di Saint-Paul-de-Mausole, un colpo d’occhio per capire che quel senso di costrizione magistralmente reso in forme e colori non deriva da casuali accidentalità esterne, “non è un predicato dell’oggetto, ma una rappresentazione del soggetto” (Immanuel Kant, 1790). Il percorso inizia dai disegni perché “forse niente più che il disegno è per un artista la vera grammatica dell’anima. Da lì si parte per intraprendere quel viaggio che sia la rappresentazione del mondo e il suo riflesso nella profondità di un cuore emozionato. Il disegno sembra accorciare o addirittura annullare la distanza tra senziente e sentito, tra vedente e veduto”. E’ ancora Marco Goldin che ci dà conto della scelta di esporre i disegni provenienti dal museo di Otterlo, un ex voto di una donna di nome Helena Kröller-Müller per grazia ricevuta, “non per un malinteso senso dell’abbozzo, quanto invece nel segno tracciato sul foglio, come gli uomini primitivi tracciavano segni sui muri delle caverne, possiamo scoprire quella verità assoluta che è la pietra fondante dell’arte”. Sono disegni impazienti, contorti e rapaci che portano alla luce uomini e donne nel loro attendere con dignità ai lavori più umili e faticosi, eseguiti inizialmente come glosse a margine nelle lettere al caro fratello, disegni per commossa necessità interiore cui Van Gogh si consegna nei primi due anni della sua vita di artista che preferisce “dipingere occhi umani piuttosto che cattedrali” e “morire piuttosto che essere preparato alla missione religiosa dall’accademia, ho avuto una lezione da un falciatore che mi è servita più di una lezione di greco” e che si considera“di sicuro inferiore ai contadini. Beh io aro le tele come essi arano i campi”.
“Van Gogh è sempre in viaggio. Lui col suo cavalletto sulle spalle perché la pittura viene prima di tutto, anzi è la sola salvezza. La sola vela da issare quando il vento soffia impetuoso e bisogna partire” prosegue Goldin “alla fine di tutto rimane l’essenza di un giallo che si irradia nel mondo e tutto lo percorre come un’onda sonora. Questa luce a lungo cercata e infine trovata è soprattutto un cuore ferito, che in ogni modo e fino alla fine ne ha fatto un canto” e ancora “perché l’anima ha i suoi colori, nessun pittore l’ha raccontata come Van Gogh”. Dai segni che scavano nelle profondità più sofferte e recondite ai colori arroventati sempre più indomiti, al vento, alla pioggia, al sole cocente, ai febbrili tremori, alle laceranti intemperie senza riparo e senza rimedio, nella convinzione che verità e bellezza nascano proprio da questo non scansarsi di fronte alle avversità “esposto al vento, al sole, si lavora come si può, si riempie la tela alla meno peggio, eppure è proprio allora che si afferma il vero e l’essenziale”, il percorso si snoda e i nodi si sciolgono, procedendo per stazioni che rimangono indelebili nei miei occhi e non solo. Stradina con salici potati (1881) con i tronchi nudi allineati in fila arresi e protesi alla gelida indifferenza del cielo, Tre radici in un terreno sabbioso (1882) colte nel vano e struggente tentativo di aggrapparsi a un terreno che non offre appigli né nutrimento, Salici potati al tramonto (1888) la possanza dei tronchi, ancora beffardamente recisa, ha trovato un qualche ristoro nell’abbraccio dalla luce calda del sole, Ulivi (1889) un trionfo di chiome fiammanti, aggrovigliate su se stesse mentre la terra scivola sull’orlo di un precipizio, Covone sotto un cielo nuvoloso (1890) opera presumibilmente successiva alla decisione ultima, il giallo del grano e della forza vitale già riposa in senso orizzontale, sospeso tra l’azzurro del cielo ondulato dalle nuvole e il piccolo lago che si offre specularmente al cielo nel colore degli occhi dell’artista, restituendone amplificate densità e turbolenze, nel perimetro circoscritto dalle sue sponde. In prossimità del lato destro, sulla linea dell’orizzonte, oltre le ali che volano via, il luogo dove attualmente riposa, accanto all’amato Theo. Ho pianto.
“Mio caro fratello vorrei scriverti di tante cose, ma non ne vedo l’utilità. La cosa importante è che vada tutto bene. E comunque è vero, possiamo soltanto far parlare i nostri quadri”. Marco Goldin, sceglie Paesaggio con la pioggia, Auvers (1890) per provare a comprendere perché tutte le stelle tornano a casa prima o poi, come si dice ai bimbi. “Van Gogh sopravvive fin quando a restare in vita è il sogno della pittura. Il sogno che con la pittura avrebbe potuto dire quel grumo di lacrime e sangue, di poltiglia di terra e cenere di cielo che gli cadeva davanti agli occhi ogni mattina” poi, giunto alla stremo “il pittore lascia che la pioggia cada su di lui come cade sulla natura, diventati insieme un cosa sola, tra il grano e l’onda”.
Le conclusioni? Accade talvolta di essere distratti dal frastuono assordante delle opinioni altrui, rinforzato da tutte quelle certezze infondate che dimentichiamo di sottoporre a periodica revisione, un conglomerarsi che ostruisce i varchi di accesso ai nostri apparati di ricezione sensoriale, con ricadute abnormi sui processi di elaborazione cognitiva, laddove“se le porte della percezione fossero pulite, tutto apparirebbe all'uomo come in effetti è, infinito” (William Blake, 1790)

Aggiungo un link da vedere https://www.youtube.com/watch?v=ubTJI_UphPk
 
Aprile 2018