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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

La 55 Biennale di Venezia

Giuliana Altea

Se in molte delle Biennali passate la mostra centrale era oscurata dai Padiglioni nazionali, non si può dire che sia accaduto lo stesso con Il palazzo enciclopedico. La rassegna curata da Massimiliano Gioni appariva circondata da partecipazioni nazionali generalmente sottotono, tra cui spiccavano solo rari interventi, quali l’installazione di Lara Almarcegui per la Spagna (cumuli di macerie in quantità pari ai materiali usati per la costruzione del padiglione) o la multiproiezione di Jesper Just  per la Danimarca (affascinante messa in scena dell’errare di alcuni personaggi negli spazi derelitti di una città cinese, replica quasi fedele di Parigi). Deludevano invece paesi  “forti” come Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna o Francia, e non brillava l’Italia, per quanto si riscattasse dalle sanguinose débâcle delle ultime due edizioni, affidate rispettivamente al duo Beatrice-Buscaroli e a Sgarbi.

Tra tante proposte poco incisive e per così dire prive di personalità, la mostra di Gioni di personalità ne aveva da vendere. Bella lo era sicuramente: bella e ben allestita; per certi versi anche troppo. Di sala in sala, la mano esperta del curatore guidava attraverso una scansione immacolata di opere disposte con gusto ed eleganza, in cui era ben dosato l’alternarsi di momenti dal largo respiro spaziale con strettoie più affollate, e dove si sentiva l’attenzione dedicata ad accostare lavori non solo affini nel tema, ma nella forma e perfino nelle gamme cromatiche, per creare ambienti complessivamente gradevoli, fruibili nella loro totalità. E qui nasceva il problema. Non tanto perché si rischiava un po’ l’effetto “regina del pendant” (come quelle signore che credono di risultare eleganti vestendosi di un solo colore dalla testa ai piedi), quanto perché l’esperienza dell’ambiente sostituiva agli occhi dello spettatore quella delle opere, trattate come pezzi di arredamento necessari alla riuscita estetica dell’insieme, ma in sé trascurabili e nel caso sostituibili a volontà con altri equivalenti. D’altronde, l’intera rassegna era costruita sulla ripetizione: quasi in ogni sala si incontravano serie e cicli di lavori formalmente simili e percepibili in blocco con un’occhiata. Presentate in due modalità di allestimento prevalenti, la rotonda e il corridoio, il panopticon e la teca, le onnipresenti serie con il loro rimando all’idea di archivio e di tassonomia rispecchiavano l’assunto “enciclopedico” della mostra, il tentativo dell’arte di rappresentare la totalità della conoscenza. Al trionfo della ripetizione corrispondeva la schiacciante prevalenza degli artisti non professionisti, outsider e marginali: dai dipinti tantrici ai disegni-dono degli Shaker, dai “paños” dei carcerati americani agli ex-voto del santuario di Romituzzo, agli innumerevoli esempi della creatività dei malati di mente, visionari,  occultisti e ossessi di vario genere. Non a caso la mostra si teneva nel triplice segno di Jung (il cui “Libro Rosso”, manoscritto miniato con centinaia di disegni tra il neo-celtico e il Déco, apriva l’allestimento all’Arsenale), di Breton  (la maschera del “papa del surrealismo” realizzata nel 1950 da René Iché era uno dei rari oggetti “singoli” presenti) e di Rudolf Steiner (erano appese come quadri le lavagne da lui usate durante le conferenze). Nonostante il fascino esercitato da molti dei manufatti esposti, l’esubero di pazzi, veggenti e medium produceva dopo le prime sale un senso di crescente irritazione; e non solo a causa del sovraccarico visuale generato dall’eccesso di immagini fantastiche, ipersature e iperdecorative. Anche sul piano dei significati, cosa ci diceva infatti questa Biennale? Che, secondo il vecchio stereotipo romantico, l’arte confina con la follia, o che non c’è differenza tra arte contemporanea e visioni degli alienati, secondo l’opinione di molti che dell’arte tutto ignorano? Che lo sforzo della conoscenza è uno sforzo distopico e destinato allo scacco, o che l’unica conoscenza valida è quella che non passa per la ragione ma per le vie dell’inconscio e dell’immaginario, cosa su cui avevano insistito a tempo debito i surrealisti (o Breton!); e che, in ogni caso, l’arte così come si è definita storicamente negli ultimi secoli non è uno strumento capace di rappresentarla, e l’arte attuale lo è ancora meno. Si è detto, con ragione, che una biennale non è il posto più adatto per presentare opere di autori morti; ma l’abbondanza con cui questi figuravano nell’itinerario di Gioni era funzionale al senso del suo progetto, che tendeva a elidere l’individualità degli artisti e a negarne il protagonismo. L’operazione era soltanto in apparenza democratica: con l’aria di distruggere le gerarchie promuovendo tutta la cultura visiva al rango di arte “alta”, finiva per fare l’opposto. Da questo punto di vista risultavano indicative le didascalie (utile innovazione alla Biennale, sebbene troppo lunghe e poste troppo in basso, talvolta quasi al buio), che sembravano mettere sullo stesso piano professionisti e no, ma in realtà contribuivano al risultato appena descritto: composte di una prima parte biografica e di una seconda incentrata sull’opera in mostra, dopo un po’ portavano lo spettatore a leggere solo la prima parte nel caso degli outsider, solo la seconda in quello degli artisti.  Con i primi, è la vita che conta, con i secondi l’arte: a conferma del divario che nonostante tutto li separa, e che la mostra tentava senza riuscirci di occultare. In definitiva, Il palazzo enciclopedico da un lato ribadiva lo statuto etnografico della produzione degli outsider, introdotti – si ha un bel dire il contrario - come curiosità eccentrica, dall’altro confinava nell’anonimato le stesse opere degli artisti, annegate nel mare dei lavori amatoriali. Chi restava al centro della scena era il curatore, unico e solo “autore” individuale riconoscibile nel profluvio di creazioni collettive e seriali.