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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

I Pixel-Collage di Thomas Hirschhorn al MAXXI

Patrizia Mania
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È ancora possibile praticare forme di trasgressione che non risultino depotenziate già sul loro stesso nascere? E ancora, quali effettivi spazi di azione libera e di comprensione della realtà possono prodursi nel mare magnum di segni digitali in cui siamo immersi?  Thomas Hirschhorn è partito da qui per costruire al MAXXI la sua mostra The Purple Line che contiene quasi per intero la pluriennale ricerca che ha svolto sulla questione e che sintetizza proprio nella linea viola i limiti di saturazione a cui sceglie di sottrarsi (1). Nei suoi collage pixellati e depixellati, estrapolando una selezione di immagini dall’oscuramento determinato dalle strategie di sorveglianza e controllo dei media, la realtà si impone cruenta e inaggirabile. La cifra operativa seguita è duplice: il collage e la pixellazione. Ritagliare, ricomporre tenendo principalmente presente che nell’universo del digitale lo strumento con il quale si cancellano brani di realtà è prevalentemente la pixellazione e che, nella saturazione di immagini del presente, ciò che si oscura attraverso questi processi è soprattutto ciò che si ritiene inaccettabile, l’abbietto, o ciò che si vuole censurare, mascherato da intenti per così dire “bonificatori” - pietas ma anche tutela della privacy.  Contemplando anche brani di pixellazione, i suoi collage si misurano per altro verso con l’astrazione, ponendoci in ogni caso al cospetto di un reale che sottratto alla censura si direbbe, quasi suo malgrado, ancor più vero del vero.
Lo spunto di riflessione che fa da sfondo a questi lavori di Hirschhorn è dunque la bulimica proliferazione di immagini cui assistiamo e che in certa misura subiamo attraverso la babele di informazioni che ci sommergono. La loro confusa indistinzione, la frammentazione, i dubbi su ciò che si possa effettivamente considerare autentico, e anche la percezione dell’uso e del controllo che vi si esercitano, mettono in campo ulteriori interrogativi. Da un lato, lo schermo attraverso cui guardiamo il mondo mostra immagini patinate e molto raffinate finalizzate alla seduzione da consumo – per eccellenza le immagini con le quali si pubblicizzano prodotti di moda -. Di contro, non esaurendosi la spinta al consumo nel mero procacciare gli appetiti del desiderio, l’artista ha scelto di coinvolgere in altro modo la bramosia al consumo attraverso immagini normalmente classificabili come oscene. L’altra, più evidente, faccia della medaglia, prodotta dilettantisticamente o meno, è infatti l’orrore che concerne immagini di corpi martoriati dall’efferatezza dei conflitti. Come per le immagini di moda anche per questi corpi martoriati non è possibile e sarebbe forse poco significativo risalire al contesto d’appartenenza originario, il che palesa la volontà di voler svelare nel particolare l’universale.
Bellezza e orrore. Propriamente tra questi due poli, contrapposti e estremi, si svolge la dialettica proposta da Hirschhorn. Erede della tradizione dadaista, in particolare del radicalismo politico che ha segnato proprio in Germania la storia del collage, ha realizzato diversi cicli di collage i cui montaggi combinano la bellezza, più esattamente i suoi stereotipi, con l’orrore della realtà rimossa della morte. Più piani dunque che in apparenza sideralmente distanti si coniugano in questa carrellata comprimendo in una stessa texture il nostro campo visivo.
Non c’è dubbio che le fake news investano anche la sfera dell’immagine con meccanismi diversi ma simmetrici e particolarmente incisivi a quel che accade con le parole. La difficoltà a districarsi nel paesaggio di eccesso iconico e di contraffazioni dei nostri tempi si accompagna per chi volesse rinvenire la matrice originaria di ciascuna immagine, quella di partenza da potersi riconoscere come vera ad un’impresa ancora più ardua. Quanto falso veicolano infatti le manipolazioni cui ciascuna immagine viene sottoposta? Quanto c’è di rimosso, alterato, sfigurato? Basta scorrere su qualche piattaforma web di informazioni per scoprire qualche immagine pixellata in alcune sue porzioni. Una pratica quella della pixellazione tra le più diffuse e alla quale si ricorre prevalentemente con l’intenzione di cancellare un volto, una persona, ma anche un’immagine ritenuta oscena.  Su questa constatazione, muovendo dall’analisi delle ragioni che hanno determinato l’oscuramento, Hirschhorn prova in questa serie di collage a ridare forma e figura all’immagine originaria depixellandola. È lo strumento cui ricorre in questa sua cospicua serie di collage (2) cui si è dedicato lungo un arco temporale disteso tra il 2015 e il 2017 e il cui presupposto sta proprio nella determinazione a voler guardare con occhio critico la realtà scavando in quegli strati di dissimulazione e mistificazione che coprono la verità delle immagini. Levando, eliminando gli oscuramenti e associando poi per via combinatoria alcune immagini a un loro doppio apparentemente antitetico, la sua ricerca sviluppa una serrata messa in questione delle strategie dell’informazione e della pubblicità. Non c’è solo, come di primo acchito parrebbe registro privilegiato, l’ostentazione della morte violenta generata da conflitti, ma anche, come si è detto, in modalità compositiva speculare, il suo opposto, il glamour delle immagini della moda in servizi fotografici pubblicitari. E se le prime sono disvelate, le seconde sono al contrario pixellate, rimosse, salvate in porzioni. Il montaggio delle une con le altre tradisce la consueta sintassi semantica imponendo un viraggio che fa dell’incongruo il terreno di gioco. Il legame stridente e anche asintoto che ne deriva accentua la brutalità e l’incomprensione dello strazio dei corpi martoriati proprio a cospetto del lusso, a sua volta abbietto dal momento che viene qui deprivato della sua vacua ragion d’essere. Un primo livello di forzata convergenza e livellamento di immagini di consumo che stabilisce l’equivalenza tra il consumo delle immagini della morte e quelle della bellezza.
Come detto, l’azione del depixellare si accompagna a quella del pixellare all’interno di un processo uguale e contrario che fa sì che ciò che normalmente viene cancellato venga invece, complice anche la frammentazione, esibito sfrontatamente, e ciò che al contrario viene solitamente ostentato sia oscurato. Qui l’artista conduce un viaggio a ritroso per restituire all’immagine la figura sottratta non senza sottoporre a sua volta altre parti del collage alla sparizione pixellata. Sono proprio le due azioni del togliere e del mettere a costituire il dispositivo prescelto per sviluppare la sua analisi disvelante. Ciò che altri tolgono della figura viene ripristinato e viceversa altre parti del collage subiscono a loro volta l’oscuramento per via della pixellazione. Si tratta di una scelta politica. In una sorta di manifesto programmatico delle ragioni che lo hanno spinto a interessarsi alla pixellazione dichiara in primo luogo di aver voluto fare una scelta politica che risiede nel fatto stesso di optare per una parte da cancellare piuttosto che per un’altra e che ha lo scopo di porsi contro  l’“autoritarismo dell’occultamento dell’informazione”. Quest’ultima infatti sfruttando dispositivi strategici legati alla mistificazione produce sensi deviati funzionali e asserviti alla logica del controllo e della sorveglianza. C’è poi il piano dell’astrazione dell’immagine determinata dal processo stesso ed è per lui un aspetto non trascurabile che consente di riproporre la sintassi astrattiva, nei richiami espliciti in particolare a Otto Freundlich, a cospetto dei mezzi del presente. In questo rovesciamento di prospettiva si svolge la dialettica del montaggio che, nei lontani richiami alle strategie di marca dadaista sviluppa dunque nuovi percorsi di senso nell’essenza stessa del digitale (3).
La cornice resta quella dell’eccesso, del troppo travolgente, della soffocante saturazione che a prescindere dalle tematiche chiamate in causa parcellizza la nostra percezione del mondo. Per questa ragione anche il tragitto cromatico si affida al massimo possibile di saturazione del rosso che si dà nella cosiddetta linea del viola. Scrive Hirschhorn: “Nella teoria del colore, ‘la linea dei viola’ è quella linea che separa il rosso spettrale estremo dal viola nel diagramma cromatico; ogni punto sulla linea è una miscela di rosso completamente saturo e viola completamente saturo, perciò nessun altro colore risultante dalla miscela di rosso e viola è più saturo dei colori sulla linea” (4). Il titolo della mostra è appunto The Purple Line. Ed è propriamente una linea viola quella che ritaglia e si appropria di una parte di spazio architettonico conformandosi come parete. Nelle sue strettoie spaziali che comprimono, ridisegnandola, la galleria 3 del MAXXI l’orizzonte si accorcia e si ribalta quasi a volersi catapultare addosso allo spettatore. Così in questa architettura, le immagini ritagliate, predate e soprattutto pixellate che popolano i tanti collage di Thomas Hirschhorn risultano, soprattutto quelle di grandi dimensioni, troppo ravvicinate per permettere di cogliere l’insieme. Se ne inquadra spesso solo un frammento talmente ingrandito e messo a fuoco che non consente di decifrarne il contesto. Quasi impossibile cogliere l’insieme che a tratti inaspettatamente si svela quasi per accidente solo spostandosi di sbiego rispetto alla percezione frontale.  Proprio in questo obliquo schiacciamento la decantazione del frammento suggerisce un’ulteriore ipotesi di lettura. Il dettaglio ingrandito del pixel infatti sfoca, facendo svanire e, astraendo, cancella. Ora la pratica della pixellazione è invalsa proprio per eliminare quel troppo di realtà che potrebbe urtare la sensibilità ma anche ledere il diritto alla privacy sullo sfondo di una precisa volontà politica a far vedere solo quel che si vuol far vedere. C’è in questa frammentazione dell’immagine l’eco dell’esperienza della realtà che ricompone e decompone e depixellando rivela.  In questa scrittura espositiva che costringe lo spettatore a punti di vista ravvicinati gli si impone di seguire passo passo le vie percorse dall’artista. Il punto non è di capire cosa lo abbia spinto a scegliere questa o quell’immagine, ma di vivere l’esperienza del surplus di immagini che saturano il nostro campo visivo e la nostra coscienza fino a rendere opache e oscure le questioni che vi sono sottese.
Lo sguardo si sofferma sull’orrore e il forte impatto che ne deriva parrebbe in prima battuta animato da un latente voyeurismo sulla brutalità della morte. Qualunque sia la circostanza che ha generato le immagini, qualunque sia il fondo di nefandezza nel quale si potrebbe tentare di giustificarle preferiremmo voltarci dall’altra parte. In ultima analisi: tabù e trasgressione.
Il montaggio/smontaggio di immagini spurie che saldano insieme la bulimia consumistica dell’oggetto glamour con l’efferatezza della morte rinvia anche all’irriverente capacità di osare oltre i limiti per stigmatizzare l’ipocrisia. Un po’ come già era avvenuto appunto nei collage storici del dada berlinese.
Costringendo immagini provenienti dalle riviste di moda - modelle, modelli, abiti, accessori - a coabitare con lo scempio dei corpi Hirschhorn provoca reazioni contraddittorie, che spaziano dalla repulsione all’ attrazione, le stesse che hanno tessuto l’impalcatura in cui albergano. In tal modo, tempo e spazio appaiono divelti dalla distanza geo semantica. A tenere tutto insieme è una serrata analisi della spettacolarizzazione dell’abbietto e dei suoi occultamenti attuati dai media. Un campo di combinazioni libere da ogni condizione strutturale che rivendica le proprie fonti in particolare nel pensiero di Georges Bataille, ma anche, tra gli altri, nell’acuta lettura del dolore di Susan Sontag. Copertine di libri e saggi aperti, tutti lì in mostra, come in un desk, nel suo “Showcase for Thoughts” a fornire un ulteriore sostegno alla costruzione visiva delle insidie dell’attuale reale.
Corpi martoriati, fermi immagini che impietosamente riferiscono dell’inaccettabile, inguardabile e indicibile, che normalmente si oscura. Immagini disseppellite. Proprio quelle solitamente espulse, rimosse e censurate, sono infatti rimesse tragicamente in primo piano impedendo l’indifferenza.
Osare di mostrare il ripugnante della morte, coniugandovi una messa a nudo del feticcio della moda e dei suoi corollari. Da questa angolatura e considerate le premesse, la sua ricerca ci appare come un dominare la tecnologia del digitale per procedere ad un’azione critica di disvelamento dell’interdetto. Sullo sfondo di tutti i passaggi – estetici, etici, politici, economici – attraversati da questa incalzante critica prende via via corpo l’idea che la poetica messa in atto da Hirschhorn si delinei sostanzialmente e in ultima analisi come il tentativo di elaborare una vera e propria apologia della trasgressione. 

Gennaio 2022
1) Hou Hanru e Luigia Lonardelli, a cura di, Thomas Hirschhorn The Purple Line, MAXXI, Roma, 2021.
2) La serie dei Pixel-Collage comprende 121 opere e nella mostra del MAXXI ne sono esposte 118.
3) Cfr.: Lisa Lee, “Thomas Hirschhorn e il gesto incommensurabile”, in, Hou Hanru e Luigia Lonardelli, a cura di, Thomas Hirschhorn The Purple Line, catalogo della mostra al MAXXI, Nero, Roma, pp.21-30.
4) Thomas Hirschhorn, “The Purple Line”, testo pubblicato in occasione della mostra, in, ibidem, p.223.