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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Sulla mostra Con questi chiari di luna di Bruna Esposito al Madre

Brunella VelardiIcoPDFdownload

In un percorso che si snoda attraverso le tappe rappresentate da opere realizzate nell’arco temporale degli ultimi venti anni, la mostra personale di Bruna Esposito presentata al Madre (1) si configura come un itinerario sensibile e leggero allo stesso tempo, filtrato da quelle costanti di delicatezza e ironia che caratterizzano la ricerca dell’artista romana. Lo sguardo si posa continuamente su assemblaggi apparentemente incongrui e accostamenti inaspettati, formulati in oggetti ibridi che sfuggono a rigide tassonomie. Manici di scopa montati su piedistalli, sfoglie di cipolla custodite entro eleganti teche dorate, coperte termiche stese su un’amaca, per citarne alcuni.
Ma vale forse la pena di avviare il racconto a partire dalla sala centrale dell’esposizione, unica per certi versi dissonante, dove sculture, fotografie e installazioni fanno posto a uno schermo che trasmette il filmato di una donna nell’atto di comunicare (con noi) nella lingua dei segni. Consapevoli della natura dei suoi gesti ma per lo più ignari del loro significato, si finisce per osservarne la forma agìta: il testo diventa dunque una coreografia che, per il tramite della performer, ne tramuta il senso verbale in espressione corporea, ristabilendo e accentuando l’imprescindibile connessione tra mente e corpo. È il titolo dell’opera a farne esplodere il significato nel solco della poetica dell’artista: L’Infinito di Leopardi, nella Lingua dei segni italiana (2018), rimanda la memoria a quei versi a noi così familiari, apre la strada alla comprensione verbale della performance e, al contempo, si pone come chiave di lettura delle opere in mostra e più in generale del lavoro di Esposito.
L’immaginazione, che nel canto leopardiano scaturisce dall’impossibilità dello sguardo di correre al paesaggio che si estende oltre la siepe, sembra riflettere la capacità dell’arte di trascendere dalle cose così come esse sono e come vengono colte dai sensi, per aprire lo spazio alle infinite possibilità poetiche proprio a partire dal contatto con la natura e dall’intimo connettersi dell’uomo con essa. L’elemento naturale è d’altro canto fulcro imprescindibile del lavoro dell’artista, intriso fin dagli esordi di una raffinata sensibilità ecologica che si radica sempre nella quotidianità degli oggetti e nei gesti ordinari: nel tessere preziosi tappeti con miriadi di semi vegetali, come nel preservare la delicatezza di una sfoglia di cipolla entro una sontuosa cornice baroccheggiante. Il mondo vegetale (al pari di quello animale, si vedrà più avanti), diventa allora il terreno di incontro tra l’abbraccio della natura e lo sguardo dell’essere umano, tra le sfere del sensibile e dell’intelletto, tra il gesto e la parola.
La parola stessa, a sua volta, incarna nel titolo della mostra e nelle opere esposte quella medesima dimensione domestica e familiare alla quale rimandano gli oggetti e a cui Esposito attinge per le sue composizioni: le cipolle sono conservate in teche che potremmo definire “da camera”, per le piccole dimensioni che invitano a stabilire con esse un rapporto affettivo; sulla stessa scia, l’amaca e la scopa hanno ragion d’essere, in origine, nella stretta relazione che instaurano con il corpo di chi le usa – giaciglio, la prima, strumento di cura della propria casa, la seconda. Figure informali e abituali come i modi di dire che scorrono tra gli ambienti dedicati alla mostra: “con questi chiari di luna”, “oro colato”, “venti di rivolta”, “vedi Napoli e poi muori” denunciano un atteggiamento a tratti giocoso e che sfocia talvolta in denuncia. È il caso dell’installazione Oro Colato (2014-2021) (2), in cui su un’amaca sono cosparsi aghi di pino che ne trapassano la trama finendo sul pavimento, mentre sopra è adagiata una coperta termica, ineludibile rimando alle immagini degli sbarchi. Se l’espressione “oro colato” è solitamente attribuita con sarcasmo a parole vacue, qui sembra riferirsi alla frequente speculazione, nel discorso politico, sul dramma dei migranti. La presenza di libretti con poesie di Paola d’Agnese (3) che evocano paure, perdite, delusioni, impregnano il corpo dell’opera dei medesimi sentimenti. Eppure, oro colato è anche il sottile e delicato tappeto di aghi di pino che filtra da questa insolita culla, preziosa linfa in cui si ricongiungono, almeno idealmente, l’uomo e la natura.
Accanto al detto popolare, sono in effetti molteplici i rimandi al mare, nella sua connotazione marcatamente mediterranea. Se la serie di diciannove Occhi (2016) di pesci fotografati e stampati a grandezza maggiore del naturale si estende sulle pareti trasformandone la natura da spazio su cui si posa il nostro sguardo a dispositivo di osservazione di un punto di vista altro su di noi, un capovolgimento di fatto si ritrova anche in Oltremare (2006), fotografia in cui compare, posizionata all’ingiù, una bandiera bianca. Anziché sventolare all’aria, il vessillo è però mosso dai flutti marini in cui è immerso, come a segnalare uno spazio pacifico in cui le rigide regole della terraferma sono sospese. Come tuttavia non pensare a una pubblica esecuzione, per quell’universale simbolo di pace in territorio di guerra – quale il Mediterraneo per certi versi è –, condanna a morte nell’elemento che primo fra tutti è in grado di generare la vita. Oltremare testimonia allora di un’ambizione che è anche accusa, in quello spirito paradossale che pare contraddistinguere troppi meccanismi diffusi sulle terre emerse.
Più esplicito il riferimento geografico nell’installazione Paesaggio Mediterraneo (2022) (4), tipico “carretto” – un’apecar Piaggio – usato dai venditori ambulanti di piante e fiori, piccolo brano di paesaggio semovente nello spazio urbano, che qui indugia in uno dei cortili interni del museo emanando una declamazione a due voci. Si tratta delle ricette di dolci tipici della tradizione napoletana, gli struffoli e la pastiera, caratteristici rispettivamente di Natale e di Pasqua, cantate a mo’ di ninne nanne e infarcite di istruzioni ironiche. Torna qui l’interesse per la cultura popolare e per le dinamiche informali di scambio e di condivisione che accomunano gesti e rituali dei molti paesi che affacciano sul mare nostrum. Il paesaggio mediterraneo di Bruna Esposito si allontana temporaneamente dalle sponde per insinuarsi nelle pieghe delle consuetudini, dei colori, dei suoni e dei sapori, tessendo insieme, come spesso l’artista fa (si vedano anche Oro colato e L’Infinito di Leopardi, nella Lingua dei segni italiana), linguaggi diversi dell’arte – e delle arti, con tradizioni popolari e istanze ambientaliste.
Urgenza, quest’ultima, che può farsi risalire agli esordi della ricerca di Bruna Esposito e alla sua formazione in architettura, dirottata appunto verso la progettazione di soluzioni ecosostenibili e qui testimoniata in particolare dall’installazione Venti di rivolta o rivolta dei venti (2009). Tre ventilatori da soffitto posizionati sotto lunghe aste fin quasi a sfiorare il pavimento sono azionati a diverse velocità, come nel tentativo di alleviare il pianeta, simboleggiato dalle alghe raccolte sulle spiagge e ricollocate nel museo in prossimità delle eliche, dal surriscaldamento cui sta andando incontro. Ma i ventilatori sono allo stesso tempo un’esortazione, un invito aperto a tornare a metodi di refrigerio che funzionino, sulla scorta di usanze antiche, sul moto dell’aria piuttosto che sull’azionamento di macchine infernali che per raffreddare gli ambienti portano le temperature esterne a livelli insostenibili per l’ecosistema. Il dito è puntato contro i condizionatori, cui l’artista guardava con apprensione già decenni fa, durante la sua permanenza negli Stati Uniti: «agli inizi degli Anni Ottanta a New York convivevo preoccupata con gli impianti di aria condizionata che gelano eccessivamente l’aria nelle case, nei negozi, sui bus, ecc. In piena estate era addirittura necessario portarmi un maglione per coprirmi all’occorrenza; purtroppo oggi questa abitudine è stata adottata come regola ovunque. Credo che l’aria condizionata sia un indice di evidenti problematicità concatenate. […] mi vado convincendo che l’aria condizionata, così com’è, sia diventato un lusso che non ci possiamo più permettere» (5). Una rivolta è quindi inevitabile, quando si sia presa finalmente coscienza delle nostre responsabilità, e dovrà partire proprio dai venti, prima che questi si abbattano funesti sulle nostre città; su questo binario si muove la sua recente ricerca presentata lo scorso anno al Pecci con il progetto Altri Venti – Ostro (6).
Questi dunque i chiari di luna evocati nel titolo, in cui la candida luna getta una luce che si fa ora impietosa e beffarda, ora tenue e accogliente, sulle ambiguità di questa terra che, ormai vent’anni fa, l’artista aveva identificato con la nostra delicata e irrinunciabile Madre Patria (7).

Gennaio 2023
(1) Bruna Esposito. Con questi chiari di luna, a cura di Benedetta Casini, Napoli, Museo Madre, 29 ottobre 2022 – 9 gennaio 2023
(2) L’opera è risultata vincitrice per la Sezione Arti Visive del Premio Termoli nel 2021 e da allora è in collezione permanente al MACTE.
(3) La declamazione delle poesie da parte dell’autrice è stata parte integrante della performance di Bruna Esposito che ha avuto luogo al MACTE il 28 agosto 2021 in occasione della presentazione del 62° Premio Termoli. La documentazione video è disponibile al link https://vimeo.com/643482826?login=true.
(4) L’opera si configura come ulteriore sviluppo di Paesaggio, presentata al MAXXI nel 2012 in occasione della mostra Acting Out. Artisti italiani in azione, a cura di Anne Palopoli e Monia Trombetta.
(5) Cit. in B. Casini, Bruna Esposito, l’artista che lotta per il pianeta, in «Artribune», 20 luglio 2020: https://www.artribune.com/professioni-e-professionisti/who-is-who/2020/07/intervista-bruna-esposito-mostra-buenos-aires/
(6) Altri Venti – Ostro, a cura di Stefano Collicelli Cagol, Prato, Museo Pecci, 10 giugno – 28 agosto 2022.
7) L’installazione era costituita da una palma rovesciata su un lato, abbattuta, sopra una grande base sulla quale campeggiava la scritta “Madre Patria”. L’opera, con la quale Bruna Esposito aveva vinto il Premio per la Giovane Arte Italiana promosso dal Ministero dei beni culturali, fu esposta nel 2003 a Castel Sant’Elmo in occasione della mostra personale che portava lo stesso titolo.