www.unclosed.eu

arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

La grande mostra al MACRO di Roma

Patrizia Mania

IcoPDFdownload

…E Prini è il titolo scelto per una mostra antologica su Emilio Prini proposta dal MACRO di Roma (1) e in cui i puntini di sospensione e la congiunzione in maiuscolo con il nome dell’artista introducono immediatamente all’idea che si stia trattando di un racconto. Chiave di accesso che appare particolarmente confacente al lavoro di un artista che per oltre un cinquantennio ha portato avanti un lungo percorso fatto di pause, ricominciamenti, integrazioni. “Ho preparato una trappola per Alice nel paese delle meraviglie” (1968), “Ho staccato un ramo da un albero” (1968), “Tre parenti salgono una salita, Tre aprenti scendono una discesa, Tre parenti attraversano una pianura” (1969), “Racconto che si fa da solo” (1970), “Emilio Prini questa storia dello standard”, (2002): sono alcuni dei titoli dei suoi lavori che, in bilico tra aforismi, tautologie, sciarade e, su un versante più leggero e umoristico, anche filastrocche, risuonano nella forma del racconto. Ciascuno ci appare come una proposizione che introduce di volta in volta a specifici postulati narrativi enucleando segmenti eloquenti della sua riflessione e processualità. 
Dunque Emilio Prini, un artista dal profilo per certi versi enigmatico, e del quale si è tutti concordi nel sottolineare quanto sia rimasto fuori dal palcoscenico di luce che alcune premesse d’esordio avrebbero potuto garantirgli, accreditandosi piuttosto su un crinale di invisibilità. Tra i protagonisti delle prime sortite dell’Arte Povera, chiamato a partecipare ad alcune delle più significative mostre storiche, Prini si è ritagliato un posto a sé quasi sdegnandosi di provare a sfruttare le possibilità del momento. Tante le occasioni espositive e storiograficamente ricognitive in cui avrebbe potuto esserci e non c’è stato. Una cancellazione e sottrazione della quale si è fatto complice lui stesso, non solo aggirando spesso i termini delle richieste, ma anche programmaticamente eludendoli per asserire il campo di riflessione prescelto. Riottoso ai compromessi, refrattario alle insidie delle categorizzazioni, nel rigore per certi versi granitico e nella solida coerenza del suo procedere, si può affermare che abbia contribuito lui stesso a coltivare l’invisibilità.
A guardare oggi più di 250 suoi lavori in questa eccezionale mostra, magistralmente curata da Luca Lo Pinto, che gli rende omaggio a distanza di sette anni dalla scomparsa riunendone per la prima volta un numero così elevato, emergono evidenti da un lato l’originale intrinseca coerenza che li lega gli uni agli altri e dall’altro l’efficacia dello straniamento perseguito dall’artista come faro verso il quale navigare.
Seguendo l’articolazione cronologica proposta dal progetto espositivo, ciascun lavoro, pur nella distanza temporale e spaziale, sembra riprendere le fila di qualcosa di precedente. Da questo punto di vista e nella cornice d’insieme del tessuto espositivo si legge dunque uno sviluppo narrativo costruito da passaggi organici quasi fossero paragrafi incaricati di specificare via via gli assunti di base.
Sostanzialmente può dirsi che pochi eloquenti elementi siano stati nel corso del tempo di continuo reiterati con varianti. Quasi si trattasse dello sviluppo dello stesso pensiero, della stessa filosofia. Il suo procedere tautologico “Scritte che restano scritte” (1968), “Un’ora di 60 minuti”, (1984), o i giochi linguistici come “Identico alieno scambiato” (1968) o “Gruppo di improvvisazione descrittiva/descriziona, descrizione, descritto” (1971), in quel limitarsi a pochi essenziali assunti, allineano in termini probanti la sua ricerca sulle orme di Wittgenstein.
Nei primi lavori degli anni Sessanta la spinta fondamentale fu per Prini quella di prendere innanzitutto coscienza dello spazio con misure e pesi. Avviò infatti una ricerca sulla misura di alcuni spazi pubblici a lui prossimi e dei quali documentò la ricognizione con immagini fotografiche. L’esplorazione dei propri spazi esterni con rilevamenti di porzioni e dettagli architettonici – strade, scale, gradini, mura e sottopassaggi -, dapprima di Genova e poi di Roma, lo condusse nel contempo ad impiegare accanto alla fotografia anche altri medium. Giova in tal senso ricordare, sebbene questo lavoro non sia presente in mostra, come proprio in occasione della sua prima sortita pubblica nel settembre del 1967 alla mostra “Arte Povera e IM Spazio” curata da Germano Celant alla galleria La Bertesca a Genova, presentasse Perimetro d’aria, un’opera consistente in tubi fluorescenti, trasformatori, timer, cavi elettrici, scatti sonori e intermittenti di luci al neon. Suono e immagine per attrarre l’attenzione in maniera sincopata su un’aerea definizione di spazio (l’aria, appunto), sembrerebbe proprio nel senso indicato da Celant nel testo in catalogo e cioè declinando l’“orrore per la realtà culturale” in “terrore”. Un esordio capace di per sé di dire molto sulle ragioni della sua ricerca che ha guardato alla realtà contemporanea sottraendosi a impostazioni prestabilite. Il rifiuto all’omologazione e il conseguente tenersi criticamente a distanza rispecchiano d’altronde proprio una radicale presa di posizione incline a non scendere a compromessi. Postura scelta che ha riguardato il sé ma anche il mondo reale.
Ed è infatti all’interno di un’ampia riflessione sulla società industriale avanzata che prese le mosse l’ipotesi di tracciare una specie di parallelismo tra i parametri del lavoro e quelli dell’arte: ulteriore snodo fondante della sua ricerca e antefatto di alcuni nuclei concettuali e tematici che andrà via via dipanando.
La misura degli spazi e la concomitante misura di sé e del proprio insistere su quei medesimi spazi è in tal senso esemplare. Non solo perché appare come il nucleo nevralgico di partenza ma perché vi è ritornato continuativamente anche con strutture plastico modulari – “Gradino pavimento” (1967-1995), “Tre passi da un metro” (1967-1995) – e con ulteriori affinamenti e allargamenti del campo speculativo. Su questa linea, la serie di fotografie dell’artista alla finestra del suo studio risalente al 1968 immette significativamente nel lessico di Prini anche il registro dell’umorismo che insieme all’ironia può dirsi costante straniante delle sue peregrinazioni. Qui, in questa sequenza fotografica di quaranta scatti, indossava una maglietta a righe e un naso posticcio da clown quasi come a volerci dire che quel suo ‘stare alla finestra’ è testualmente uno stare a guardare senza intervenire, limitandosi ad osservare con le armi e il distacco dell’umorismo.
In alcune foto ci appare di spalle, e anche il voltare le spalle palesa esplicitamente un diniego, un sottrarsi ad un’aspettativa. Scelta per la quale opterà in svariate occasioni. Letteralmente, per esempio, nel 1969 quando invitato alla mostra Op Losse Schroeven: situaties en cryptostructuren allo Stedelijk Museum di Amsterdam rinunciò ad esporre nello spazio museale intervenendo all’esterno dello stesso nel campo di sabbia adiacente. Qui insieme ad altri artisti - Marisa e Mario Merz, Pier Paolo Calzolari, Paolo Icaro e Jannis Kounellis – pianterà delle tende facendone un luogo di confronto e tra le tante iniziative realizzerà alcune fotografie di schiena delle persone sedute in questo campo.
Maestro della messa in scena dell’assenza, ha avuto modo di prospettarla e asserirla di frequente. Esemplarmente nel 1971 quando nel catalogo della mostra Arte Povera al Kunstverein di Monaco decide di lasciare bianche le pagine a lui dedicate o quando più di recente alla fine del 2009 invitato da Carolyn Christov Bakargiev, curatrice della tredicesima documenta, a partecipare a una conferenza di preparazione all’edizione del 2012 d documenta – una conferenza verso documenta 13 prevista per il 18 e il 19 settembre di quell’anno - manderà in sua vece Anna Butticci che come da lui richiesto leggerà ad alta voce e in pubblico ogni singolo elemento della lettera di invito datata 31 luglio 2009: l’intestazione, il mittente, la data, il testo, la firma, i partner sostenitori, e le interpunzioni (virgole e punti). Non si sottrasse dunque ma trasformò le coordinate: non lui ma un’altra. Non declinò l’invito, ma delegò qualcun altro alla sua declamazione.
Disorientante e straniante, spiazzando e sorprendendo sempre con ironia e umorismo. È la costante.
Si guardi al ritratto spaesante che fa di Mario Merz, artista a lui particolarmente vicino, realizzato con un collage che ha di base la fotografia di una scultura dai tratti grotteschi, o anche al ritratto di Napoleone per la realizzazione del quale si è servito esclusivamente del pattern ripetuto della lettera “o” e della virgola negli standard di una macchina da scrivere Olivetti lettera 22.
Lo “standard” iconico può peraltro ritenersi il fattore che lega esplicitamente il suo procedere alle modalità di produzione del lavoro industriale. E non sorprende che le dinamiche della produzione e del lavoro, della riproduzione dell’immagine e del riconoscimento economico e giuridico sul piano autoriale siano stati, coerentemente con le premesse, un ulteriore versante di riflessione.
Paradigmatiche in tal senso le 100 fotocopie A4 realizzate per un lavoro che firmò nel 1970 come “curatore associato proposizione (Arte)” del “Gruppo di improvvisazione descrittiva /descriziona, descrizione, descritto” situato a Genova, in via Davide Chiossone 8/6, studio dell’artista, e commissionate allo studio fotografico Piero Barboni di Genova. Un lavoro che si compone oltre che delle 100 fotocopie, del documento di autenticazione della propria autorialità e del documento della commissione della fotocopiatura dietro pagamento della somma di 8000 lire dove viene specificato che l’artista non è l’autore delle fotocopie, lo sono infatti Pietro Barboni e Antonio Colace, coloro che materialmente le hanno fatte (2).
Un’ultima osservazione suscita l’impressione d’insieme della mostra che sembrerebbe calarci di primo acchito alla fine degli anni Ottanta primi Novanta quando alcune mostre e ricerche andranno proprio in direzioni tangenti a quelle di Prini.
Se è vero infatti che l’origine e l’essenza delle sue ricerche, anche in virtù della relativa cronologia, devono essere ricondotte nell’alveo del concettualismo e del poverismo, molte delle strade che Prini intraprese si mostrano palesemente anticipatrici di orientamenti che ne raccoglieranno, scientemente o meno, l’eredità connotando il fronte inespressionistico e concettualista della fine dello scorso secolo. Ancorato al suo tempo, l’irriducibilità di alcune sue scelte sembrerebbe quasi farsi involontario preludio di alcune ricerche successive che ne radicalizzeranno modalità e riflessioni.
Nonostante e malgrado anche l’acclarato e reiterato oscuramento storico, qualcuno dunque sembrerebbe avervi guardato a posteriori o semplicemente è andato a posizionarsi in direzioni prossime o addirittura coincidenti.
Talmente vive dunque le sue tracce che pur dovendone escludere una diretta ascendenza non possiamo che riconoscerne la predittività. Se infatti gli orizzonti convergenti e le affinità con ricerche più recenti sembrerebbero casuali coincidenze non sarà in ogni caso pretestuoso indicarle felici assonanze che avvalorano il rilievo che occorre riconoscere a Emilio Prini. Anche per questo, nel ribadire l’efficacia del suo metodo straniante, sempre inatteso e irriverente, il principale merito di questa mostra sta proprio nel farne storia assegnandogli un posto che lo sottrae al cono d’ombra cui è stato per troppo tempo relegato.

Gennaio 2024

1) Emilio Prini …E Prini, MACRO – Museo d’Arte Contemporanea di Roma, 27 ottobre 2023 – 31 marzo 2024.
2) Oltre alle fotocopie, il progetto si compone di 9 fogli A4. Nel secondo foglio è riportata la scritta “La serie in fotocopia mantiene il valore nominale originario; addiziona il mercato artistico” Gli altri fogli contengono riflessioni sui concetti di: interpretazione, rappresentazione e attenzione, accensione, sviluppo e tempo d’uso.