www.unclosed.eu

arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

14a Internazionale di Architettura di Venezia

Daniela De Dominicis

Una mostra di architettura senza architetti. Solo un protagonista assoluto come l’olandese Rem Koolhaas – Pritzker Prize nel 2000, Leone d’oro alla Biennale del 2010, da sempre amante di orientamenti urticanti e controcorrente – poteva permettersi un simile coup de théâtre.

La 14a Internazionale di Architettura dal titolo essenziale di fundamentals (con la lettera minuscola) è pensata in tre declinazioni complementari: elements of architecture nel padiglione centrale, monditalia all’Arsenale – entrambe a firma del curatore – e absorbing modernity 1914-2014 articolata nei 66 padiglioni nazionali.

La mostra – modalità piuttosto inconsueta – si presenta come un unicum, come una riflessione serrata e unitaria sugli elementi costitutivi della disciplina e sui valori ereditati dal recente passato. Un passato caratterizzato dalla distruzione di due guerre mondiali, da ricostruzioni veloci e non sempre coerenti, dal pensiero dominante di marca razionalista con il quale non si è ancora finito di fare i conti, dalle soluzioni rapide che l’architettura ha dato e continua a dare in contesti di emergenza.

Koolhaas dunque non ha inteso presentare sue personali teorie o originali prospettive di sviluppo, ma ha voluto semplicemente porre alla comunità internazionale degli addetti ai lavori una serie di domande e invitare ad una riflessione collettiva sullo status quo del costruire. Dunque più che una mostra di architettura, una mostra di epistemologia dell’architettura.

E cominciamo dal padiglione centrale dei Giardini. Ognuno degli ambienti in cui questo è articolato esamina diacronicamente un elemento fondante del costruire. Koolhaas e il nutrito team di studiosi internazionali che lo ha affiancato in due anni di ricerche, hanno individuato a questo proposito le 15 componenti primigenie qui di seguito elencate: soffitto, finestra, corridoio, pavimento, balcone, camino, facciata, tetto, porta, muro, rampa, scala, scala mobile, ascensore, bagno. Il tutto preceduto da una sala introduttiva e concluso da quella con il libro per architetti a cura di Wolfgang Tillmans. Ad ogni componente è dedicata un’intera sala nella quale ne viene analizzata la storia globale nonché le future prospettive (per esempio l’antica fonte di riscaldamento del focolare che probabilmente diventerà, con sensori tecnologici, un’atmosfera a temperatura ideale che ci seguirà nei nostri spostamenti): intere pareti di maniglie, di finestre, oggetti provenienti dai musei di tutto il mondo a creare un’esposizione decisamente spiazzante, a metà tra le sale del Victoria and Albert e le scaffalature di Leroy Merlin.

Monditalia, all’Arsenale, è invece dedicato interamente alla nostra penisola, paradigma di una contemporaneità piena di contraddizioni e potenzialità. Una luminaria introduttiva restituisce la silhouette di un palazzo pubblico rinascimentale mentre alle pareti appaiono alcuni frammenti degli Effetti del buon governo di Ambrogio Lorenzetti. Le lucine colorate lanciano l’aspettativa di una fiera, di un parco dei divertimenti e, superata la soglia, si viene effettivamente catturati da un percorso aereo, quasi un otto volante. A guidarci per tutta la lunghezza dell’Arsenale è infatti la stampa su tela, a tutta altezza, della famosa tavola peutingeriana (l’antica carta stradale romana conosciuta attraverso una copia del XIII secolo) che ci permette di percorrere l’Italia a volo d’uccello. Di tanto in tanto si “atterra” su uno dei 41 focus tematici, ognuno indicato con le sue precise coordinate geografiche, che restituiscono però una realtà disastrata e desolante, molto lontana dalle aspettative festose della copertina iniziale e dagli effetti positivi di un’illuminata amministrazione. L’analisi comincia al di fuori dei confini nazionali, dal quel mito Italia che alimenta le migrazioni dalle coste libiche. Il focus è sugli insediamenti costruiti durante la dominazione italiana: Italian Ghost,così si intitola l’operazione di confronto tra le immagini dell’epoca e lo stato fatiscente in cui versano ora le medesime costruzioni (DAAR). L’esperienza della traversata ci viene proposta all’interno di un cargo buio con incessanti rumori di motori, di elicotteri e fari che improvvisamente si accendono puntati su di noi (Intermundia di Ana Dana Beros). Arrivati finalmente sulla terraferma si risale verso nord soffermandoci su alcune realtà. Ecco il villaggio costruito alla Maddalena per il G8 del 2009, zona profanata con costruzioni mai utilizzate e ora off-limits per chiunque tranne che per il custode che qui vive in assoluta solitudine (Ila Beka & Louise Lemoine); le 99 dom-ino ovvero scheletri di case mai ultimate sparse qua e là sul territorio (Space Caviar); le strutture costruite tra gli anni Cinquanta e Sessanta da prestigiosi architetti e ormai in disuso – le ex manifatture dei tabacchi a Bologna di Pier Luigi Nervi, la colonia Enel a Riccione di Giancarlo De Carlo, etc. – (Luka Skansi), il mito ormai tramontato di Milano Marittima (de Gayaron Bureau), le discoteche abbandonate (Catharine Rossi), le case sequestrate alla mafia (Bonaventura-Imbriaco-Severo), la mappatura degli atti terroristici tra il ’69 e l’87 (Pirazzoli-Zancan). Si giunge infine ai confini settentrionali che è stato necessario ridisegnare recentemente – nel 2008-9 infatti il disgelo ha costretto Italia, Austria, Francia e Svizzera a rinegoziare le frontiere e la legislazione prevede ora il concetto inedito di confine mobile – (Folder).

Se le tematiche proposte sono gravi e preoccupanti, le modalità espositive rendono il percorso variegato e piacevole. L’antica mappa dell’Italia che ci accompagna, colorata e godibilissima, può essere attraversata come una tenda per fruire dei numerosi schermi sospesi qua e là che rimandano frammenti di 81 film di epoche diverse: la coscienza collettiva si costituisce anche attraverso il patrimonio cinematografico, a volte l’unica documentazione di paesaggi e scorci non più esistenti.

E veniamo ora ai padiglioni nazionali. Quello italiano – articolato in più sezioni – fa da contrappunto a Monditalia e con Un paesaggio contemporaneo indaga 85 sperimentazioni architettoniche perfettamente assorbite dal contesto con il quale dialogano e che hanno contribuito a trasformare positivamente. Cino Zucchi, il curatore, ha disposto altrettante light box a terra che ce ne propongono immagini nitide e accattivanti. Sono episodi selezionati su tutto il territorio nazionale e sembrano isole flottanti alle quali aggrapparsi per innescare un percorso virtuoso che ribalti il desolante panorama tracciato da Monditalia.

Gli altri padiglioni nazionali sono stati invitati a ragionare, come già detto, sull’eredità del moderno e le sue diverse rielaborazioni. Il maestro di riferimento è per tutti Le Corbusier del quale all’ingresso dei Giardini è ricostruito al vero, il prototipo abitativo della Maison Dom-ino.

I curatori rispondono diversamente alla tematica proposta: chi recuperando l’interesse su uno o più architetti storici non sufficientemente valorizzati (Bakema per l’Olanda; Lucius Burckhardt & Cedric Price per la Svizzera in un’operazione firmata da H.U. Obrist), chi ripercorrendo in modo un po’ didascalico la storia recente (Brasile, Spagna, Gran Bretagna – queste ultime tuttavia con accattivanti allestimenti), chi enucleando una tematica ritenuta di particolare interesse. I Paesi Nordici per esempio documentano gli insediamenti da loro promossi negli anni Sessanta e Settanta in Kenya, Tanzania e Zambia che avevano da poco conquistato l’indipendenza; la Francia riflette sulle insidie che possono nascondersi nell’accettazione acritica del moderno. Il film di Tati, Mon oncle (1958), accoglie il pubblico nella sala centrale. Si tratta di una divertente satira al modernismo con la casa all’avanguardia costruita da J.Lagrange che si rivela una trappola e rende la vita impossibile ai protagonisti. Nelle sale circostanti però questa riflessione critica sul moderno abbandona i toni della satira per assumere quelli drammatici del fallimento della città giardino della Muette che, pur costruita con tecniche prefabbricate all’avanguardia, non ha mai funzionato ma si è rivelata perfetta nel 1940 come campo di concentramento nazista. Diener & Diener ne hanno fatto nel 2012 un memoriale della Shoah.

Un’ultima osservazione sul padiglione israeliano che ci propone la complicata storia dei suoi insediamenti, chiamati con un neologismo Urburb – una miscela tra città e suburbio – utilizzando come supporto per i tracciati la sabbia: un modo forse per ricordarci che tutte le costruzioni umane sono temporanee, destinate prima o poi a scomparire.

Una biennale che segna dunque un momento di arresto nel vortice iperproduttivo dell’architettura contemporanea, che invita alla riflessione e alla consapevolezza critica. Koolhaas ha messo a segno un punto importante nella sua riflessione, un altro modo di guardare all’architettura, un pensiero laterale.