www.unclosed.eu

arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

MADRE Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina, Napoli

14 giugno - 22 settembre 2014

Teresa Macrì*

Francis de Smedt in arte Francis Alÿs (Anversa 1959) è un artista anticonvenzionale per attitudine creativa e intensità intellettiva. Da anni, oramai, manifesta le sue idiosincrasie col sistema–mondo, attraverso una pratica, sovversivamente paradossale,  con cui rifiuta la standardizzazione del soggetto globalizzato e stabilisce la frizione tra adesione al sistema produttivo e liberistico e la resistenza ad esso. L’artista “esce dal contesto dei rapporti e dei valori di scambio e si sottrae alla realtà della società borghese per fare il suo ingresso in un’altra dimensione dell’esistenza” avrebbe detto Herbert Marcuse.

Alÿs, col suo fare immaginifico, attraversa quei territori psichici e geografici che delimitano la dimensione post-coloniale in cui la modernità ha disillusoogni aspettativa ditrasformazione socio-politica. Per sostenere una simile responsabilità indagativa, Alÿs adotta una pratica artistica antidogmatica, non solo per lo scalzamento radicale dei codici espressivi, quanto per la prassi comportamentale delineata (apparentemente absurd) che erra tra post-strutturalimo e post-situazionismo. Formalmente eclettica (diluita in paradossali azioni e paseos e nondimeno in dipinti, sculture, video e fotografie) lo inabissa in quella vertigine di antagonismo concettuale che fonda il suo paradigma espressivo denominato, non a caso, “paradox of praxis”.

Ogni sua opera, infatti, è un work in progress di immagination au pouvoir che si sviluppa in un tempo liquido e infinito, a volte modulato negli anni, attraverso cambiamenti (passeggiate urbane di derivazione situazionistica) e reiscrizioni  formali post-avanguardistiche. Se l’utopia progettuale è una delle caratteristiche su cui l’artista impianta i suoi paradossi estetici, lo è ancor di più il sostrato speculativo che sottende l’opera. L’apparente assurdità della mise en scène con cui l’artista belga codifica l’opera non maschera però la potenzialità politica insita nel suo sottofondo, poiché la sofisticatezza concettuale è tale da commutare politica e poetica vicendevolmente.

La magnetica antologica di Francis Alÿs, Reel-Unreel, Afghan Project 2010-2014., curata da Andrea Viliani e Eugenio Viola (in collaborazione con il Centre for Contemporary Art Ujazdowski Castle di Varsavia)  è imperniata sulle ultime opere che l’artista ha concepito tra il 2010-2014. Nell’ intervista ad Arte al Límite del 2013, l’artista spiega:

“La scintilla che ha generato l’idea del video è relativa all’episodio avvenuto nel 2001 quando i talebani distrussero rulli di pellicola dell’archivio cinematografico di Kabul. L’opera parla di questo avvenimento e anche di come i media occidentali hanno mostrato la vita quotidiana di questo luogo. Il video vuole confrontare l’immagine mediatizzata con una visione spontanea, quasi improvvisata”

Il video Reel-Unreel (prodotto nel 2011 in occasione di Documenta XIII) è l’ennesimo dispositivo visuale che cospira con la strategia poetica, uno stratagemma critico al quarto potere occidentale, connivente col potere politico. Il video, che è stato girato da Alÿs a Kabul, in collaborazione con Ajmal Maiwandi e Julien Devaux, ha il suo incipit nel classico gioco di strada in cui un gruppo di bambini tenta di far girare un cerchio con l’ausilio di una stecca di legno. Nella mise en scène di Alÿs, il cerchio allude al rullo di pellicola cinematografica.  La ripresa segue un gruppo di bambini afgani che, alternandosi, fanno ruotare la bobina giù per le colline di Kabul. Il titolo Reel-Unreel gioca concettualmente sia sullo scarto fonemico della sua pronuncia assimilata a real/unreal, alludendo all’immagine “reale/irreale” dell’Afghanistan trasposta dalla distorsione mediatica occidentale, sia letteralmente, all’atto di avvolgere e srotolare (il rullo di pellicola). L’artista intende reiscrivere il lifestyle abituale della popolazione afghana in contrapposizione alla “disumanizzazione” sistematica che il mainstream mediatico ha trasformato in fiction nei decenni della guerra. L’idea di Alÿs è concettualmente vertoviana, nel riattraversare con la macchina da presa, l’essenza della realtà quotidiana e riprodurre l’osmosi tra protagonisti e territorio. Declinando sul protagonismo dei bambini integrati allo spazio cittadino, Alÿs, in qualche modo, delega a loro la pratica del paseo (passeggiata), riperimetrando, al tempo stesso, la realtà urbana, contraffatta dalla fiction. Il meccanismo quasi automatico con cui i bambini attraversano Kabul e dintorni facendo ruotare la bobina, avvolgendo e srotolando il nastro di celluloide è una sorta di reiscrizione spaziale. Ed è anche un atto di cancellazione dello stereotipo culturale, indotto e pilotato dalla macchina mediatica di regime. Lo srotolamento del nastro di celluloide lascia una linea immateriale del passaggio riattivando quel congegno concettuale alysiano già presente in The Leak del 1995, Don’t Cross the Bridge Before You Get to the River (2008) e nello stesso Paradox of Praxis 1 (Sometimes Doing Something Leads to Nothing). Il ciak dà inizio alla corsa di un bambino giù per il pendio di Kabul, inseguito da uno stuolo di altri piccoli bimbi vocianti tra il brusio di camion, motorini e clacson e termina allorché labobina, incautamente, sfugge dalla mano del bambino e scivola via, per sempre, lungo il pendio della città. L’asserzione “Cinema: Everything Else Is Imaginary” chiude epigraficamente il video, ammaliante esemplare di Cinéma Verité. L’ampia esposizione napoletana si espande nella serie dei piccoli e preziosi dipinti Color Bar Paintings, una sorta di geometrie minimaliste o altrimenti collages che alludono alle schermate televisive digitali prive di animazione che sottendono la preconcetta piattezza critica con cui l’invasione afgana è stata “confezionata” dalla governance mediatica internazionale.

Ancora un riferimento preciso a quel Guy Debord che prefigurò il dominio della società dello spettacolo e che Alÿs riscontra nell’infotainment. Lo fa con la sua sorprendente sottigliezza formale: i dipinti spaesanti che si rincorrono sulle pareti sembrano specchiarsi nella giustapposizione dei disegni, appunti, annotazioni, oggetti, cartoline, ritagli di giornali, collages di acetato che intarsiano le sue peculiari teche di legno poste nelle sale e che descrivono il filo del suo “pensiero finito”. E’ un viaggio neuronale, uno sconfinamento documentativo, un inedito volo immaginativo.

E, proprio perché l’antologica è concepita come rappresentazione della viscerale attitudine di Alÿs all’arte di comportamento vengono inseriti due video che testimoniano due delle sue più estenuanti azioni. Paradox of Praxis 1 (Sometimes Doing Something Leads to Nothing) del 1997, azione di umore quasi beckettiano, in cui l’artista spinge per le strade di Città del Messico, per nove ore, un blocco di ghiaccio fino a farlo liquefare totalmente. Solitamente, questi enormi blocchi di ghiaccio vengono spostati nella zona commerciale dello Zocálo dai venditori ambulanti per conservare fresca la merce in vendita e rispondendo ad una funzionalità precisa, mentre Alÿs, nel tramutare lo stesso sforzo in un atto estetico, legittima la disfunzionalità pratica. La paradossalità dell’azione (che si conclude con la smaterializzazione letterale e simbolica dell’oggetto) nel suo farsi atto, conferma la pratica di riappropriazione dello spazio organizzato mediante le tecniche della produzione estetica.

Altrettanto spossante è The Green Line (Sometimes Doing Something Poetic Can Become Political and Sometimes Doing Something Political Can Become Poetic) del 2004. Qui Alÿs cammina per due giorni, costeggiando un segmento della linea di separazione Green Line(la linea prende il nome dal limite tracciato con una matita verde da Moshe Dayan su una mappa che divideva Gerusalemme in Est e Ovest) instaurata nel 1949 con l’armistizio della guerra tra Israele e Giordania e rimasta in vigore fino alla “Guerra dei sei giorni” (tra Israele e gli Stati Arabi) nel 1967. L’artista riperimetra il tracciato del confine arabo-israeliano, errando nel dedalo delle sue stradine, deviando da tutti i check-point che controllano la Green Line.  Al tempo stesso “segna” il passo con della vernice verde (una sorta di dripping realizzato attraverso la gocciolatura della vernice che cade dal foro di un barattolo che tiene in mano), gesto con cui tende a enfatizzare l’arbitrarietà con cui sono stati definiti i confini geografici e l’abuso con cui tali confini sono stati ulteriormente violati dall’edificazione del muro di separazione israeliana costruito nel 2002 che penetra la Cisgiordania.

Ma questa estraniante narrativa alysiana non si esaurisce nella grammatica degli oggetti esposti, rimanda piuttosto ad una percezione empatica e a molto altro che resta dentro.

*Teresa Macrì ha recentemente pubblicato il libro Politics/Poetics [postmediabooks, 2014] in cui esplora tale binomio nel pensiero e nei lavori di Francis Alys e di Jeremy Deller. Irriducibile a classificazioni, l'analisi, complice lo sguardo dei due artisti, attraversa e interroga lo spazio dell'utopia fornendo un contributo vitale alle sue odierne possibili ragion d'essere.