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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Guy Ben-Ner, Sophie Calle, Jim Campbell, John Clang, Nan Goldin, Courtney Kessel, Ottonella Mocellin e Nicola Pellegrini, Trish Morrisey, Hans Op de Beeck, Chrischa Oswald, Thomas Struth interpreti del tema della famiglia nella mostra Questioni di famiglia - Vivere e rappresentare la famiglia oggi alla Strozzina di Firenze

Patrizia Mania

Tema pernicioso ancor oggi quello della famiglia. Decenni ci separano dallo storico pamphlet della controcultura degli anni '70 che stigmatizzava il concetto obsoleto di famiglia dichiarandosi "contro". Il problema, a onor del vero, non sembra più quello di essere pro o contro la famiglia in quanto istituzione, quanto piuttosto su cosa debba intendersi per famiglia.

Individuare questo tema come spunto per una mostra di lavori contemporanei è certamente un modo per indagare alcune delle complesse stratificazioni semantiche che vi sono sottese seguendo lo sguardo degli artisti chiamati ad interpretarlo.    

Tutta necessariamente inscritta nel tessuto autobiografico di ciascun artista, la mostra allestita negli spazi del Centro di Cultura Contemporanea della Strozzina a Firenze e curata da Franziska Nori e Riccardo Lami, delinea possibili declinazioni d'uso, abuso e negazione del soggetto all'interno di un tracciato che si rivela fortemente significativo. L'esposizione non propone indicazioni, nè tantomeno modelli, peraltro comunque impraticabili, ma sollecita riflessioni facendo leva sulla molteplice estensione di senso che l'esplorazione individuata attiva. E per quanto le mostre tematiche, in special modo nel versante del contemporaneo, non possano aspirare a proporre che punti di vista, possibilità, sensibilità, e non certo risposte a quesiti, Questioni di famiglia ha il pregio proprio di indurre una riflessione sull'argomento misurando o meglio, lasciando intuire l'impossibile perimetrazione del fenomeno.

Gli undici artisti invitati a proporre ciascuno la propria versione sull'argomento disegnano un territorio sconfinato di traslitterazioni dove il senso tradizionale della famiglia scivola di volta in volta nei rivoli di modelli comportamentali, nevrosi, stereotipi rovesciati, dichiarando in un certo modo un' implicita inadeguatezza concettuale. La famiglia diventa davvero un pretesto per riflettere sui rapporti interpersonali più intimi ma soprattutto su quelli attraverso i quali ci si rappresenta socialmente.

Se c'è un segmento che accomuna i diversi lavori, questo potrebbe essere individuato nel fatto di rinviare ciascuno, esplicitamente o implicitamente, all'innocenza perduta, che il concetto di famiglia involontariamente seppellisce. Si guardi, in tal senso, al video Mother Tounge di Chrisha Oswald dove nel gioco di parole attivato dal titolo (lingua della madre / madre lingua) si iscrive la parodia del mondo animale rappresentata nell'installazione da due video posti l'uno di fronte all'altro che vedono madre e figlia vicendevolmente leccarsi il viso. Traslato nella sfera delle relazioni umane primarie, quel che nel mondo animale è un naturale scambio affettivo e anche un'azione d'igiene, perde tutta l'innocenza, la naturalezza, per dare vita piuttosto ad una rappresentazione che suscita nello spettatore un sentimento di straniante perturbazione, come se si trattasse di un'inaccettabile, incestuosa ambiguità.

Cercare, invece, nella metafora dell'equilibrio dell'altalena, una continua messa a punto dello scambio relazionale tra madre e figlia è quanto inscena nel video In Balance With Courtney Kessel.

Da sempre è nel ritratto di gruppo che la famiglia si rappresenta e si autocelebra. E, i ritratti di famiglia, genere artistico di incontrastata fortuna nei secoli passati, vengono riproposti in più di un lavoro in mostra privilegiando logiche decostruttive e di fantasia "virtuale". Come accade nella famiglia immaginaria "ghost" ritratta nel video di Hans Op De Beeck The Stewarts have a party o nelle famiglie simultaneamente ricomposte con l'ausilio delle webcam da John Clang nella serie Being Together. O ancora, nelle versioni apparentemente più tradizionali del genere del ritratto delle grandi fotografie di Thomas Struth: variante che sconcerta per quell' eccesso di realtà che comunica. Tutti rigorosamente in posa, i gruppi familiari, composti, scomposti, allargati, che l'artista fotografa mostrano con disinvoltura il proprio status sociale e lo sguardo verso l'obiettivo che li ritrae è sempre di orgogliosa partecipazione e ostentazione del nucleo cui appartengono. Struth impiega il termine Familienleben (vite di famiglia) per nominare questa serie di fotografie per le quali fa in modo che siano sempre loro, le persone ritratte, a scegliere come e dove essere rappresentate. Il suo, è dunque uno sguardo di condivisione, di assecondamento delle altrui dinamiche di auto rappresentazione. Un porsi discretamente in penombra per facilitare la narrazione di sè e della propria appartenenza sociale.

Scompigliare i ruoli, destabilizzarli, seppure per un istante, è lo scopo che si è data invece Trish Morrissey autrice di una serie di fotografie dal titolo Front in cui sostituisce al tradizionale ritratto di famiglia un membro estraneo, sé stessa che, come un'intrusa si inserisce nel ritratto, sostituendosi all'identità femminile familiare scompaginando nel blitz la funzione di memoria svolta dal ritratto di famiglia in luoghi per lo più vacanzieri.

In un interno fortemente allusivo alle relazioni domestiche fatte di amore ma anche di conflittualità sopite, di rancori inespressi, di malesseri diffusi, ci conduce l'installazione del duo di artisti Ottonella Mocellin e Nicola Pellegrini dal titolo eloquente Ecco il guaio delle famiglie. Come odiosi dottori sapevano esattamente dove faceva male. Citazione espunta dal libro Il dio delle piccole cose di Arundhati Roy che si fa filo conduttore di un'immersione visiva, sonora, fisica, in un ambiente segnato dal peso delle memorie spesso inesplicabili delle relazioni più intime, quelle più difficilmente esprimibili e spesso coincidenti con forme di sadismo. E, benché l'installazione abiti uno spazio aperto, attraversandola e addentrandosi nelle sollecitazioni improntate allo spirito partecipativo che propone, si avverte un inesplicabile desiderio di fuga, di volontà di allontanamento da quegli stimoli così potentemente evocativi di sentimenti differenti ma certamente affini, difficilmente non esperiti da ognuno di noi.

Una paradossale sensazione claustrofobica che in modi diversi è indotta anche dal video di Guy Ben-Ner Soundtrack. La colonna sonora è quella del film fantascientifico di Spielberg La guerra dei mondi ed è la chiave di una narrazione sincopata che mostra un padre assediato da una compulsiva paranoia che lo rende preda di ansie minanti la quiete familiare e che lo spingono a creare uno stato di panico nei figli. Gli alieni penetrati nelle  mura domestiche sono gli stati di emergenza indotti anche dai media e dalle nuove tecnologie o dal vivere in un territorio come quello israeliano sempre in stato di allerta. Gli stati paranormali descritti, contrappuntati da momenti a tratti esilaranti, si fanno metafora di dinamiche interne, spesso quelle più intime e anche più pericolose, capaci di provocare acuti stati di allucinazioni riscattati nel video dall'innocenza dello sguardo infantile.

Lo sguardo infantile, o meglio sull'infanzia, è anche la prospettiva dello slide show Fire Leap di Nan Goldin che nel cogliere con sapienza la naturalezza dei bambini rafforza l'idea di consegnarsi all'innocenza per aggirare le barriere convenzionali e i tabù opprimenti della società degli adulti. Quasi un monito a trarne insegnamento.

Sul filo della memoria - e si pensi quanto la famiglia sia per eccellenza il luogo fisiologico e concettuale della memoria individuale e collettiva - si collocano gli Home Movies di Jim Campbell. Rielaborando digitalmente fonti iconiche analogiche, come filmini amatoriali e foto di famiglia, Campbell allestisce delle strutture installative in ambiente buio con centinaia di luci LED che dissolvono la riconoscibilità di questa o quella persona per evocarne nella silhouette o nel movimento una traccia mnemonica universale. Ma tale silhouette si percepisce solamente a distanza poiché avvicinandosi l'effetto del dèjà vu scompare lasciando piuttosto spazio ad una progressiva astrattizzazione del soggetto. Ne si decanta l'essenza in un gioco di riflessi in cui si perde la memoria referenziale di partenza. Ne si distillano i nuovi vocaboli di un linguaggio apparentemente di mera strabiliante tecnicità. Ma, complice il titolo, il doppio registro della distanza, ciò che si vede da vicino e ciò che si vede da lontano, lascia inequivocabilmente comprendere come la fonte non sia semplicemente un pretesto quanto piuttosto quella "petite sensation" di cèzanniana memoria che si emancipa dal proprio contesto narrativo iniziale per dar vita a nuove possibilità di senso genericamente condivisibili.

Ad un anonimato universale si richiama anche il trittico di fotografie Les Tombes di Sophie Calle. La fortuita circostanza del rinvenimento nel cimitero di Bolinas alle porte di San Francisco di alcune lapidi anonime sulle quali appaiono incisi i nomi comuni di "padre", "madre", "figlio", trasferisce la questione dell'identità su un piano generalizzato che concerne tutti. Si tratta infatti di ruoli, interpretati necessariamente, sia in assenza che in presenza, da chiunque. La specifica identità d'appartenenza si fa dunque da parte per permettere alle condizioni fondanti di prendervi posto. La solenne lapidaria enunciazione "father", "mother", "son", in scala 1:1,  in rigoroso bianco/nero, senza sfondi che vi facciano da cornice, si impone allo sguardo dello spettatore implicandolo in un lutto atavico, universalmente condiviso. È la condizione primaria, è l'essere identità fuori e oltre i ruoli sociali.

Nella moltitudine di sfaccettature proposte si vede bene come, più che le questioni di famiglia, siano state messe in mostra alcune declinazioni del concetto che ne concernono in primis l'ambito definitorio. A che cosa ci riferiamo quando parliamo di famiglia? Resta questa l'insoluta domanda di fondo.